LA GIOIA A COLORI. VENETO BANCA ATTO II - I CAPOLAVORI

LA GIOIA A COLORI. VENETO BANCA ATTO II - I CAPOLAVORI

giovedì 29 febbraio 2024 ore 18:00 (UTC +01:00)
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  • Emilio Tadini (1927 - 2002) 
Il poeta assassinato, 1990
    Lotto 279

    Emilio Tadini (1927 - 2002)
    Il poeta assassinato, 1990
    Olio su tela
    54,5 x 65,5 cm
    Firma: “Tadini” sul verso
    Altre iscrizioni: “Il poeta assassinato” sul verso
    Provenienza: Studio Marconi, Milano (1990); Veneto Banca SpA in LCA
    Stato di conservazione. Supporto: 95%
    Stato di conservazione. Superficie: 95%

    Un punto centrale nella produzione di Tadini è il dialogo tra letteratura e pittura, che lo porta ad essere illustratore di scrittori sia nell'ambito di edizioni a stampa (ex multis, Louis F. Céline, "Scandalo negli abissi", illustrazioni di Emilio Tadini, a cura di Ernesto Ferrero, Genova, 1992) sia nei propri dipinti. L'opera in esame, databile alla fine degli anni Ottanta, rappresenta probabilmente la riflessione di Tadini su "Il poeta assassinato" di Guillaume Apollinaire, apparso in Italia in più edizioni, tra cui quella per i tipi de "Il Formichiere", a Milano, nel 1976, e, proprio nel 1990 in due edizioni, per i tipi di Orsa Maggiore, Settimo Milanese, e Studio Editoriale a Milano. Proprio l'apparizione in libreria di queste due edizioni insieme alla data di vendita dell'opera a Veneto Banca (12 luglio 1990), consente di datare l'opera ai primi mesi del 1990. Tadini mostra un uomo in abito verde, ben riconoscibile come pittore da due tubetti di colore in tasca, che si porta una mano al fianco, ha perso l'equilibrio e sta per cadere dalla tela. Un uomo in costume fugge sul lato del dipinto, scalzo, su una base grigia, con soltanto una casupola rossa contro l'orizzonte azzurrissimo. Tratto anatomico: le lunghe gambe, la piccola testa. Assistiamo quindi ad una scena tragica? Probabilmente Tadini alludeva semplicemente alla voglia di scappare al mare, nel caldissimo giugno-luglio meneghino (come soleva lamentare la critica d'arte Rossana Bossaglia, "ben più rovente di agosto"), lasciando perdere gli impegni intellettuali. Opposte, infatti, le direzioni dell'uomo in giacca e cravatta che cade e del muscoloso nuotatore. Questa lettura, che consente di datare ulteriormente l'opera al passaggio tra luglio e agosto del 1990, costituisce un ulteriore collegamento con la raccolta di novelle pubblicate da Apollinaire con il titolo “Il Poeta Assassinato". Dopo un’attenta meditazione sull’opera di Rabelais, Apollinaire dichiara di aver inventato un nuovo genere letterario, quello “lirico-satirico”. Il lungo racconto che apre e intitola la raccolta racconta la vita intera di Croniamantal, alter-ego di Apollinaire stesso. «E che vita! Una sarabanda ininterrotta di situazioni inverosimili, fiabesche ed esilaranti, trasposte con una cromaticità stilistica cangiante e multiforme (sembra quasi di ascoltare i Gong di “The Flying Teapot “); i riferimenti al contemporaneo vengono puntualmente deformati, rivestiti e trascesi da una massiccia dose di raccordi a miti, leggende e simboli che vengono svuotati dai loro abituali rimandi e che si piegano di continuo all’ilarità travolgente di Apollinaire» (the Cosmic Jocker, De Baser, 21 marzo 2017).

  • Antonio Vivarini (1418 - 1484) , o Bartolomeo Vivarini (1432 circa-1499) o bottega Vivarini
Madonna con Bambino, 1460-1470 ca.
    Lotto 280

    Antonio Vivarini (1418 - 1484) , o Bartolomeo Vivarini (1432 circa-1499) o bottega Vivarini
    Madonna con Bambino, 1460-1470 ca.
    Olio su tavola
    52 x 37 cm
    Provenienza: Galleria Moretti, Firenze
    Certificati: expertise di Egidio Martini, senza data (Bartolomeo Vivarini); expertise di Luciano Bellosi, del 25 maggio 2000 (Bartolomeo Vivarini); expertise di Mauro Lucco (Antonio Vivarini)
    Vincoli: Il dipinto è oggetto di una procedura di dichiarazione dell'interesse culturale (avviata considerando quale autore Quirizio da Murano).Stato di conservazione. Supporto: 80% (tavola di pioppo, assottigliata e parchettata)
    Stato di conservazione. Superficie: 85% (presenza di impurità e ingiallimento complessivo; verniciatura protettiva non omogenea, relativamente datata; pochi ritocchi; abrasioni e lacune sparse; integrazioni sul bordo sinistro e alla base; piccoli sollevamenti; leggera spulitura; imbrunimento della azzurrite)

    La tavola raffigurante la "Madonna con Bambino" in esame si innesta nella complessa vicenda della bottega dei Vivarini, famiglia di pittori originari di Padova che si trasferiscono a Murano nel XIV secolo stabilendo nell'isola celebre per la lavorazione del vetro uno dei fulcri innovatori dell'arte veneziana nella seconda metà del Quattrocento. Il capostipite, Michele, è di professione vetraio; i figli, Antonio (1418 circa - 1476/1484) e Bartolomeo (1430 circa - dopo il 1491), saranno pittori di grande fama, così come il nipote Alvise (1442/1453-1503/1505), figlio di Antonio, con cui si conclude la bottega, di cui è in principio nume tutelare il cognato di Antonio e Bartolomeo, un pittore di origine tedesca, Giovanni di Alemagna (1399 circa - 1450) e in cui fioriscono numerosi talenti, come Quirizio da Murano (attivo a Venezia tra il 1460 ed il 1478), Andrea di Giovanni detto Andrea da Murano (documentato tra il 1462 e il 1502) e Lazzaro Bastiani (1429-1512).
    L'immagine trova riscontro, con sottili differenze, sia nella produzione di Antonio, sia in quella di Bartolomeo - di cui d'altra parte gli studi hanno mostrato la ampia collaborazione, e non di rado la confusione - ma al tempo stesso presenta scostamenti qualitativi rispetto al floruit di entrambi, che per lo più hanno portato gli studiosi a ritenerla un'opera di transizione: della vecchiaia del primo ovvero del periodo di formazione del secondo, o ancora nell'avvicendamento tra i due, senza escludere la possibilità di un'altra personalità precocemente connessa alla bottega.
    Per primo Egidio Martini (1919-2011) - cui è oggi dedicata l'omonima pinacoteca al Museo di Ca' Rezzonico a Venezia - ha accreditato l'opera al catalogo di Bartolomeo, prendendo le mosse dalla identificazione della modella impiegata per la figura della Madonna «sempre la stessa che vediamo negli altri sui dipinti» e osservando i passaggi di migliore qualità del dipinto, come per esempio «la mano della Madonna posta sul petto del Bambino, trattato anch'esso con una modellazione e un segno nervoso ben definiti», presenti anche nella «"Madonna con Bambino" che si trova alla Galleria Sabauda di Torino, in quella del Museo Correr di Venezia (Cat. G. Mariacher, 1957, p. 236) e ancora in quella del trittico della chiesa di S. Giovanni in Bragora, pure a Venezia: opere tutte della sua maturità, da collocare cronologicamente , come la qui in esame, tra il 1465 e il 1478, cioè in un momento in cui Bartolomeo, superata l'influenza del Mantegna, addolcisce la sua pittura avvicinandosi a quella più umana e pittorica di Giovanni Bellini».
    La attribuzione a Bartolomeo è stata autonomamente proposta anche da Luciano Bellosi nel 2000, con una formula prudenziale («mi pare») che gli consente di guardare anche all'altro polo attributivo della tavola in esame, il fratello maggiore Antonio: «Le aureole decorate da finte lettere cufiche messe a oro sono una caratteristica molto particolare della pittura padovana di metà Quattrocento e si ritrovano anche nella bottega del fratello di Bartolomeo, Antonio Vivarini; ad esempio, nel Sant'Ambrogio e nel San Nicola da Bari già nella Chiesa della Salute e ora nel Seminario Patriarcale di Venezia. Anche nel polittico di Bologna, datato 1450, a cui collabora lo stesso Bartolomeo, si ritrovano aureole decorate in modo simile, seppure non identico. Siamo, insomma, nella fase giovanile del pittore veneto, quando egli non è ancora così siglato come nelle sue opere più tipiche». «Tuttavia, il volto, con i grandi bulbi oculari, accentuati dalle palpebre superiori abbassate (quello sinistro più stretto perché più scorciato), con l'accenno al doppio mento, è molto caratteristico di Bartolomeo Vivarini; così come lo sono le mani dalle dita lunghe, sottili e nervose, o la luminosità degli incarnati». Richiamato anch'egli il paragone con la "Madonna" di Washington, Bellosi sottolinea la precocità dell'opera attraverso i riferimenti a Bellini: «Bellissima è la faccina del Bambino, con le guance teneramente rosate, che irradia una freschezza da far venire in mente i rapporti precoci di Bartolomeo Vivarini col Giovanni Bellini più antico. Anche il paesaggio, umido e brumoso, ricorda vagamente quelli più giovanili del Bellini e si concilia con la scelta naturalistica che Bartolomeo Vivarini attua nella sua fase più antica, come, ad esempio, nella stupenda tavola del Museo di Capodimonte a Napoli, del 1465», di contro alla sua opzione normale che sarà il fondo oro.
    Mauro Lucco, in un approfondito saggio inedito e non datato, propende invece per l'attribuzione della tavola ad Antonio, pur mantenendo aperta, a sua volta, l'opzione di Bartolomeo. Preliminarmente lo studioso ricorda che «il modo di presentazione, il rapporto affettuoso e fisico tra madre e figlio, nella realtà serena e feriale del paesaggio, indica chiaramente un dipinto di devozione domestica, una di quelle immagini tanto comunemente prodotte a Venezia nel Quattrocento da essere presenti quasi in ogni stanza di casa». Così inquadrata la fortunatissima iconografia della "Madonna con Bambino" ambientata in aperta campagna «il cui motore fu la grande arte di Bellini», Lucco legge nella tavola in esame un gusto assestatosi nella generazione precedente a quella di Bellini, cioè prima del 1460. Esclusa la attribuzione a Quirizio da Murano, che era stata avanzata in sede di dichiarazione dell'interesse culturale, ritiene più «fondata, anche se non totalmente soddisfacente [...] la proposta di considerare il nostro dipinto come opera di Bartolomeo Vivarini, o della sua bottega: il senso generale della composizione è tratto infatti dalla cosiddetta "Madonna Davis" del Metropolitan Museum di New York (inv. 30.95.277), firmata dall'artista e datata 1472». Inoltre il «volto della Madonna [...] corrisponde assai bene, al di là del rovesciamento in controparte, a quello della Vergine orante nel Museo Vetrario di Murano che reca in basso la scritta: "Opvs. Batolomei. Viarini. de.Murano. An. Dom. MCCCCLVIIII [...] Al pari del San Giovanni da Capistrano del Louvre, recante l'identica data, si tratterebbe della prima opera documentata dell'artista da solo, libero dalla tutela del fratello maggiore Antonio. Ma la relazione spaziale tra figura e ambiente è nel nostro dipinto talmente diversa da quella di fine anni Cinquanta, con la Vergine che giganteggia sulla bassa pianura in una monumentalità inimmaginabile per quel tempo, da far pensare necessariamente non al 1459, ma al 1472 della Madonna Davis». Lo studioso considera allora la tenuta estetica della tavola in esame, che gli suggerisce la sensazione quasi di «un abile montaggio a mosaicatura di modelli diversi, incrementata anche dalle "sgrammaticature" proporzionali: il bimbo, ad esempio, pare troppo cresciuto rispetto alla madre, [...], la metà superiore del suo corpo appare troppo piccola rispetto a quella inferiore», per cogliere infine nella «seconda piega che si forma dietro al suo ginocchio destro» «un poco curiosa» la derivazione da «un'altra Madonna di Bartolomeo, già nella collezione di Italico Brass a Venezia, e oggi di ubicazione ignota, e la stessa mano della Vergine che lo sorregge da sotto viene precisamente, anche se in controparte, dallo stesso quadro», che egli data agli anni settanta in base alla coerenza stilistica - in particolare l'invenzione della mano sul petto - con la "Madonna" del Museo Correr (in.v 16), quella del Museo Sanna, Sassari (in. 18903, cat. 109), quella del Fogg Art Museum di Cambridge (Mass.; acc. 1904.19), nonché la variante della National Gallery di Washington: in «tutte queste tavole, la mano sinistra della Vergine posta davanti al petto del bambino è talmente simile a quella del dipinto qui in discussione da non lasciare dubbi sulla sua collocazione cronologica». Anche la figura del Bambino, secondo Lucco, conferma la datazione «tanto sono vivi i ricordi di opere come la Madonna in trono della Galleria Colonna di Roma, firmata e data 1471 [...] e pungenti gli anticipi di altre, come quella al centro del trittico di San Giovanni in Bragora, del 1478. Forse il punto più vicino toccato dal nostro Cristo bambino è col suo omologo nella Madonna Johnson del Museo di Philadelphia (n. 157), che già punta verso le ovalizzazioni dei volti, anni Ottanta, promosse dal nipote Alvise Vivarini». Per Lucco, la conclusione piana di questi paragoni è che «anziché novella invenzione, marcatore di un momento di svolta nella carriera dell'artista, l'opera sembra rivelarsi derivativa, prodotto che si avvicina di più a un artigianato di ottimo livello che alle vette inventive dell'arte». Per lo specialista, tuttavia, proprio questa osservazione deve suggerire uno scatto interpretativo, innanzitutto con la rinuncia all'idea che «la crescita di un artista più giovane all'interno di una bottega comporta un calo uniformemente accelerato, sino all'inevitabile scomparsa, del membro più anziano, anche molti anni prima della sua morte; come se fosse naturale che chi era stato per tanti anni il capo-bottega si ritirasse volentieri dal lavoro [. Al contrario,] nessuno avrebbe mai mollato volontariamente il mestiere da cui traeva il proprio sostentamento, sino al momento in cui ne fosse stato impedito dalle esaurite possibilità del fisico. Oltre che di loro stessi, si trattava infatti di assicurare un futuro anche alle loro vedove, spesso assai giovani».
    Ciò suggerisce a Lucco di spostare il focus attributivo da Bartolomeo ad Antonio. «Nella bottega vivariniana, Bartolomeo rappresentava la parte minoritaria della diade dei titolari, e suo nipote Alvise, figlio di Antonio, il membro più giovane; il "capo" era appunto Antonio, a cui Bartolomeo era affiancato già dal polittico della Certosa di Bologna, del 1450». Nella sua interpretazione della bottega vivariniana, Antonio si occupa «delle opere da esportare lungo le coste Adriatiche, ove la mentalità era di solito più conservatrice, e più incline ad accogliere quelle di un "finto Rinascimento" in cui qualche variegatura più aggiornata non muta la sostanza strutturale antica; Bartolomeo invece di quelle per lo stato veneto e le sue città, che avevano gusti un poco più moderni; e Alvise addirittura si sarebbe tirato fuori da questa logica, presentandosi come la punta di diamante dell'attualità, con opere allineate alle maggiori novità del momento.» In questo contesto la «data a cui su faceva solitamente risalire la totale uscita di scena di Antonio era il 1467 del Polittico di Santa Maria Vetere di Andria, oggi nella Pinacoteca Provinciale di Bari, firmato da solo e datato in quell'anno [...] ma all'epoca l'artista aveva poco più di cinquant'anni, e lo cosa appare di fatto poco credibile per uno scomparso non si sa esattamente quando, fra i 9 e i 17 anni dopo. [...] se è rimasto attivo, come sembrerebbe logico, può allora la nostra tavola spettargli, negli anni Settanta del Quattrocento?». Lucco ritiene di sì, anche sulla scorta della testimonianza di Sansovino ("Venetia città nobilissima, et singolare, con aggiunta ... di d. G. Martinioni, Venezia, 1663, p. 185: «Antonio Vivarino del 1470 ... lasciò diverse opere di sua mano; ma consumate da gli anni» nella chiesa veneziana di Sant'Aponal), che viene confermata dalle stesse «indicazioni cronologiche ricavabili dal dipinto in questione [...] Il residuo di esilità tardo gotica che rende la nostra Madonna troppo alta e magra rispetto alla contemporanea robustezza di Bartolomeo, e insieme il senso di cedevolezza della sua carne, aliena alle ferrose ribattiture del fratello, indicano che, all'interno della bottega vivariniana, negli anni in cui lo stile di Bartolomeo è all'apice del suo sviluppo, siamo in presenza di una mano diversa». Pur non potendo «indicare dei precisi confronti con opere documentate di Antonio, dal momento che nulla è oggi noto della sua produzione fino al 1476, se non al 1484; tuttavia, l'unico modo di ricostruire storicamente, e di tentare di capire come potessero essere quelle opere è, tenendo fermo lo spirito generale di un corpus, immaginarle come sviluppo evolutivo di quelle cronologicamente più vicine.» Lo studioso ritiene, così, che Antonio, nella parte estrema della vita, abbia provato ad «adeguarsi fra prove ed errori, al passo dei tempi» , tal ché «i risultato non positivi, potessero a volte superare quelli riusciti, giustificando così l'auto-relegarsi a mercati sempre più provinciali, e l'eventuale atto critico degli "utenti" di dimenticare, o addirittura di abbandonare alla distruzione successiva, quei prodotti». Pur rilevando che «a prima vista non parrebbe che la nostra tavola possa spettare ad Antonio Vivarini, ma, pur in tale presunta diversità, a me par di avvertire» - scrive - «la stessa aria di famiglia» con la "Santa Chiara" dell'altare del 1451 oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna (inv. 6559; che peraltro si presta ad un paragone con la tavola di Bartolomeo nello stesso Museo, anch'essa datata al 1451, inv. 6685), o col "San Giacomo" nella tavola del Petit Palais di Avignon (inv. 246), «scomparto probabile del politico di San Giacomo Maggiore a Bologna, documentato del 1462, in cui la figura di San Petronio spetta alla collaborazione di Bartolomeo». «Nella Santa Chiara, la mano che regge il libro è, in controparte, molto simile a quella della nostra Madonna, che sostiene il bambino sedutovi sopra». Lo studioso prende in esame il composito stile della famiglia Vivarini («l'aria di famiglia») come sfondo a cui ancorare i cambiamenti, mantenendo quindi in parallelo l'analisi soprattutto delle produzioni di Antonio e Bartolomeo, per seguire i mutamenti dell'uno in rapporto a quelli dell'altro. In questa prospettiva, non ritiene «così improbabile che, nel corso degli anni, l'ovalizzazione tondeggiante del volto della "Madonna" Davia Bargellini a Bologna, potesse smagrirsi e assottigliarsi fino a raggiungere il modulo più asciutto di quella qui in discussione. Anche i minimi brani di paesaggio qui presenti mi sembrano avere la stessa silenziosa vuotaggine della fantasia ambientale di Antonio. Questa idea dell'ultimo sviluppo di Antonio sarebbe poi richiesta dalla derivazione, sopra accennata, dalla "Madonna Davis" di Bartolomeo, del 1472. Ma vi è ancora in questa nostra tavola un dettaglio che a me pare decisivo ai fini della attribuzione. Non conosco infatti in tutta la pittura veneziana altro esempio di quelle pieghe rigide, geometricamente cannulate, dello zendale trasparente della Vergine, che terminano tutte alla stessa altezza sul suo petto, se non quello del drappo d'onore alle spalle della sua omonima, nella tavola Davia Bargellini; che già nel 1987, contrariamente all'opinione allora corrente, avevo rivendicato al solo Antonio Vivarini, anziché ad Antonio e Bartolomeo insieme. Allo stesso modo, infatti, esse appaiono il frutto di una plissettatura quasi irrigidita con l'amico». La conclusione dello studioso è pertanto in favore della attribuzione della tavola ad Antonio: «Oso dunque immaginare, almeno come ipotesi di lavoro che la futura ricerca dovrebbe incaricarsi di confermare, che ci troviamo di fronte all'opera più tarda di Antonio Vivarini, nei primissimi anni Settanta del Quattrocento; che certo non muta il suo grado nella pittura veneziana, tanto più alto negli anni giovanili, ma potrebbe aiutarci a chiarire, pur nel suo aspetto di gentile retroguardia, il momento più oscuro e deserto della sua vicenda».
    Rebecca Müller - autrice del più recente catalogo della pittura vivariana, "Die Vivarini: Bildproduktion in Venedig 1440 Bis 1505", Regensburg, 2023 - su base fotografica, esprime una opinione piuttosto sovrapponibile nella lettura stilistica, collocando l'opera all'inizio dell'età moderna («an early modern painting»), dove «il gesto giocoso del bambino riflette più direttamente i dipinti di Giovanni Bellini» («the playful gesture of the Child is more reflecting paintings by Giovanni Bellini»), quindi la fase formativa dei Vivarini, mentre appaiono assenti i tratti caratteristici dell'ultima produzione della bottega, percorsi da Alvise Vivarini («I cannot see any typical motif of his Madonnas», «his strong modelling and finish of the painting surface»; comunicazione del 26 settembre 2023). Nell'opinione della specialista, l'opera va ricondotta alla attività «di un distante seguace di Bartolomeo Vivarini, sebbene con caratteristiche personali, che ha visto Bellini e Alvise, ma che non ha tratto molto da loro». Si tratta dunque di un artista che respira «l'aria di famiglia» dei Vivarini, secondo la definizione di Lucco, formatosi in una cultura belliniana, più antica di quella di Bartolomeo, e che segue, a distanza e con tratto autonomo, l'evolversi dello stile di famiglia, fino alla confluenza delle esperienze di Bartolomeo maturo e del principio di Alvise, cioè proprio agli anni Settanta del Quattrocento.
    Nel settembre 2023 sono state condotte da Gianluca Poldi approfondite analisi scientifiche sulle opere, in particolare: riprese fotografiche in luce diffusa, radente o semiradente; riflettografia in infrarosso in 2 bande spettrali (IRR = range 850-1000 nm ca.; IRR1000 = range spettrale 1060-1080 nm ca); infrarosso in falso colore; spettrometria di riflettanza; microscopia ottica digitale (relazione del 15 ottobre 2023), oltre alla ripresa all'ultravioletto (UV), realizzata dalla casa d'aste.
    Le riprese in riflettografia in infrarosso hanno messo in evidenza «un triplice disegno soggiacente: un segno inciso sottile nelle pieghe del manto, come abbastanza tipico fin dal Trecento dove si impiegava l'azzurrite; un disegno di contorno a pennello e inchiostro neo di tipo carbonioso, che segna anche le pieghe e vari dettagli delle figure; infine una accurata lavorazione a tratteggio di tipo chiaroscurale nei volti, più evidente nel Bambino, dove il pittore studia attentamente il volume prima di stendere il colore per le ombre. Il tratteggio è peculiare, non parallelo ma sovente a tratti brevi, quasi a seguire la curvatura del viso. L'underdrawing lineare di contorno mostra, specie sotto alcune parti del viso della Madonna, come nella parte superiore delle labbra, nelle sopracciglia e nell'arco delle palpebre, anche un tratto particolarmente fine, che può riferirsi all'impiego di un modello per il trasferimento 1:1 mediante carta carbone (o simili), secondo una delle prassi tradizionali. Piccole varianti tra disegno preparatorio e pittura si notano nella gamba sinistra del Bambino».
    L'opera si conferma così ad un tempo connessa alla bottega vivariana (addirittura attraverso l'impiego di un disegno di trasferimento da altra opera o da prototipo secondo il tipico modello di lavoro delle botteghe venete, impiegato ancora un secolo dopo in quella di Tiziano), e caratterizzato sia da un ricco disegno preparatorio, che garantisce un gradiente di invenzione, rimarcato anche dalla ulteriore libertà che l'artista si prende, rispetto al disegno, nel dipingere la gamba sinistra del Bambino.
    Sul piano del colore, le «indagini spettroscopiche mediante spettrometria di riflettanza (vis-RS) e le microscopie digitali hanno permesso di identificare vari pigmenti della materia originale, tra i quali una azzurrite di ottima qualità nelle stesure azzurre del cielo [...] e - assai scura e in parte ridipinta [...] - nel manto quasi nero».
    «Un verde di rame (non identificato) è usato, in miscela con pigmento giallo, nella veste del Bambino, così come, variamente mescolato con biacca, nel paesaggio; e grani di verde (probabilmente il medesimo verde rameico) sono pure aggiunti agli incarnati, a base soprattutto di biacca e vermiglione finemente macinato. Nella veste rossa della Vergine si impiega una lacca rossa con stemperate in qualche area rare particelle di azzurrite».
    In conclusione, «La struttura delle pennellate, sottili e parallele, è tipico dell’impiego di tempera, fatto che suggerisce una datazione antecedente agli anni Ottanta del XV secolo, in ambito veneto: presumibilmente anni Sessanta-Settanta».
    Trova così conferma, anche sul piano dei materiali, la datazione al 1460-1470 rilevata sul piano stilistico dagli specialisti, ed in particolare l'attenta lettura di Mauro Lucco, suffragata anche dal complesso lavoro di preparazione grafica sottostante alla pittura visibile, rispetto alla quale è anche rilevante la qualità della azzurrite impiegata nella tavola, quale segno del rango dell'autore.
    Siamo quindi, con molta probabilità di fronte all'ultima opera nota di Antonio Vivarini, esito estremo della sua ricerca ed anche testimonianza della perdurante coesione stilistica e operativa di una delle più fortunate botteghe del Quattrocento veneziano.

    Il lotto è opera tutela come di rilevante interesse culturale, con provvedimento in fase di definizione, ai sensi della normativa vigente.

    Ringraziamo la dottoressa Rebecca Müller e il dottore Gianluca Poldi per il prezioso supporto nella compilazione dell’opera.

  • Luigi Serena (1855 - 1911) 
Signora con ventaglio, 1895-1900
    Lotto 281

    Luigi Serena (1855 - 1911)
    Signora con ventaglio, 1895-1900
    Olio su tela
    56,2 x 46,3 cm
    Firma: “LSerena” al recto
    Altre iscrizioni: a tergo della cornice, riferimenti ad un passaggio d'asta in gessetto bianco, scarsamente leggibili
    Elementi distintivi: al verso etichetta "I A library", con riguardo ad una precedente collocazione, ed etichetta con riferimento all’inventario della banca
    Provenienza: Galleria d'Arte Martinazzo, Montebelluna; Banca Popolare di Asolo e Montebelluna; Veneto Banca Holding; Veneto Banca SpA in LCA
    Bibliografia: O. Stefani, "Luigi Serena 1855-1911", Ponzano Veneto, 2006, p. 119, 147, tav. 111
    Certificati: Fotocertificato di Ottorino Stefani del 2 aprile 1999
    Stato di conservazione. Supporto: 85% (reintelo)
    Stato di conservazione. Superficie: 85% (cadute di colore e ritocchi, sparsi)

    Luigi Serena, pittore d'elezione della borghesia trevigiana a cavallo tra '800 e '900, non ebbe allievi diretti, ma fu ammirato dagli artisti più giovani per il suo spirito bohémien e antiborghese, anche quale riferimento morale, diventando una pietra miliare nell'orizzonte artistico della Marca. Saranno proprio gli artisti dell'avanguardia, in testa Arturo Martini, a promuovere la mostra postuma di Serena poco dopo la sua morte nel 1911. Pur operando prevalentemente in provincia, l'artista partecipò con successo alle più importanti esposizioni del tempo: a Venezia (1881), Milano (1883), Torino (1884), Firenze (1886), Parigi (1888) e Monaco (1890). Fu tra gli invitati alla Biennale veneziana del 1897 (Eugenio Manzato, "Treviso", in "La Pittura in Italia. L'Ottocento", Milano, 1990, p. 213).
    Come osserva Ottorino Stefani nella nota di certificazione, «il Ritratto di signora appartiene al periodo della piena maturità artistica di Luigi Serena (1895-1900), interprete acuto dei tratti psicologici e della personalità del soggetto che rivela un carattere deciso e volitivo. Sul piano strettamente pittorico l'opera si impone per la forza straordinaria dei colori: il rosa dell'incarnato, il bianco argentato ed il nero, esaltati dal ventaglio e dallo sfondo rosso che ricorda antichi dipinti pompeiani", in consonanza con le scelte cromatiche di Serena al termine del secolo, in particolare il rapporto tra bianco, grigio e nero (crf. "Donna che prega", 1897-1898, in Ottorino Stefani, a cura di, "Luigi Serena. 1855-1911", Ponzano Veneto, 2006, p. 99, tav. 70).
    A giudizio dello specialista, il dipinto - così vicino alla lezione di Pompeo Molmenti, esemplata nel "Ritratto di giovane signora" di Ca' Pesaro - è «uno dei punti più alti dell'intero percorso artistico del pittore montebellunese». E difatti, tra «i ritratti femminili, Signora con ventaglio appare come un omaggio alla grande ritrattistica della pittura veneta a partire dalle origini, soprattutto per l'audace impostazione compositiva e cromatica, che trova una sottile corrispondenza nell'espressione volitiva e narcisistica del volto. Qui veramente l'artista montebellunese si è dimostrato particolarmente attratto dal motivo ispiratore soprattutto come "sistema" di segni e colori che contengono un suggestivo messaggio estetico: siamo cioè nell'ambito di un'arte per cui la "forma" diventa "autosignificante" in quanto esalta i "valori decorativi" capaci di resistere nel tempo anche di fronte alle inevitabili svolte del gusto e delle mode predominanti di una determinata civiltà" (ibidem, p. 119).

  • Domenico Morone (1442 - 1518) , attribuito a
Adorazione dei Magi ("Natus est redemptor Mondi"), 1490-1500 circa
    Lotto 283

    Domenico Morone (1442 - 1518) , attribuito a
    Adorazione dei Magi ("Natus est redemptor Mondi"), 1490-1500 circa
    Carbone, tempera e olio su tavola
    61 x 45,5 cm
    Altre iscrizioni: sul recto della tavola, nell’angolo inferiore sinistro, cartiglio con iscrizione nera «NATVS ES / REDEMPTOR / MONDI» a guisa di titolo
    Elementi distintivi: sul retro della tavola, nell’angolo superiore destro, con caratteri stampati forse in relazione a inventario d'asta, «2 8 6 W» (?) (parzialmente visibile in UV); segni a gesso bianco
    Provenienza: Galleria Moretti, Firenze
    Certificati: expertise di Mina Gregori, datato 7 dicembre 2007 (in copia)
    Vincoli: l'opera è dotata di libera circolazioneStato di conservazione. Supporto: 80% (due traverse lignee di supporto orizzontali, fissate con vecchi chiodi, apparentemente forgiati; residui di fasce di carta applicate ai margini; tracce di umidità)
    Stato di conservazione. Superficie: 75% (ritocchi; riprese pittoriche a sottolineare bordi e dettagli; alcuni sollevamenti con orientamento verticale; abrasioni; vernice protettiva)

    La tavola è stata identificata da Mina Gregori nel 2007 come opera sicura di Domenico Morone, esponente di punta del rinascimento veronese: «Tutti gli elementi che arricchiscono la pittura del veronese Domenico Morone vi sono presenti e confermano le doti di fantasia ereditate dal mondo tardogotico e l'intelligenza nell'accogliere le novità rinascimentali che contraddistinsero la sua opera».
    Suggerendo una datazione alla maturità dell'artista - di cui una pietra miliare è la prestigiosa commissione, nel 1494 da parte del Marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, della tela raffigurante la "Cacciata dei Bonacolsi" (Palazzo Ducale, Mantova) - la studiosa sottolinea la avvenuta acquisizione, nella tavola in esame, delle novità sviluppatesi «a Padova nell'ambiente mantegnesco e a Venezia in direzione del Carpaccio. Tali elementi sono mirabilmente rappresentati in quest'opera. L'architettura dell'edificio con il tetto in rovina è allusivo alla fine del mondo pagano, e lo conferma il bassorilievo spezzato con il nudo privo della testa. In questa struttura il Morone evidenzia la sua appartenenza al mondo rinascimentale nella esatta prospettiva, negli elementi classici realizzati con gusto pittorico, nell'alternanza di colonne bianche e verdi e nel realismo con cui sono descritte le assi rustiche che chiudono alcuni degli archi». E infatti nel «paesaggio sono pure evidenti i ricordi mantegneschi, mentre il corteo è l'occasione perché il Morone sfoggi vestiti e copricapi fantasiosi e rappresenti i cavallini rampanti che spesso ha inserito nei suoi dipinti. In primo piano il giovane paggio che regge la spada è un inserto moderno che si ricollega ai tondi che il Morone ha dipinto in competizione con il Carpaccio».
    La minuta analisi dei dettagli - il paesaggio, le figure e gli animali - ha consentito di avvicinare la tavola in esame anche a due tele veronesi, al passaggio tra '400 e '500, pubblicate da Mattia Vinco, con datazione intorno al 1510 (M. Vinco, "Cassoni. Pittura profana del Rinascimento a Verona", Milano, 2018, pp. 346-347, cat. 113): si tratta di episodi della guerra tra romani e sabini, per cui Bernard Berenson aveva suggerito l’attribuzione al veronese Francesco dai Libri (1450-1503/1506) e che, principalmente nella fattura del paesaggio, collimano con l'opera nota di Michele da Verona (1470 – 1535/1544), che, formatosi nella bottega di Morone a fianco al figlio di questi, Francesco (1471-1529), ottiene la qualifica di pittura nel 1492, a 22 anni. In questa ipotesi il gruppo così costituito - la tavola in esame e le due tele - sarebbe da datare ai primi anni del nuovo secolo, nella raggiunta maturità di Michele. Vinco, inoltre, rileva, per le tele, che «una datazione al 1505-1510, che bene si attaglia alle ampie aperture dello sfondo, porta ad escludere dai possibili autori sia il nome di Giovanni Maria Falconetto, all'epoca già influenzato dalla cultura pinturicchiesca, sia quello di Filippo da Verona, autore tra il 1509 e 1511 dell'"Arianna a Nasso" del Rijksmuseum di Amsterdam (cat. 93) e della "Madonna allattante il Bambino" del Museo di Castelvecchio a Verona (inv. 895-1B123)». Ed in effetti con il prendere in considerazione, anche per la nostra tavola, Falconetto (1468-1534/1535) e Filippo da Verona (documentato tra il 1510 e il 1515) per così dire si completa il panorama della pittura veronese del rinascimento, riportando l'attenzione sulla proposta di Mina Gregori in favore di Domenico Morone, o un artista a lui molto vicino, e con una datazione prima del passaggio del secolo.
    Le analisi tecniche, condotta sull'opera da Gianluca Poldi nell'ottobre 2023 (riprese fotografiche in luce diffusa, radente o semiradente, riflettografia in infrarosso in 2 bande spettrali, infrarosso in falso colore, spettrometria di riflettanza e microscopia ottica digitale), hanno infatti pienamente confermato la datazione alla seconda metà del Quattrocento, mettendo in luce «un accurato disegno soggiacente di contorno, svolto a pennello o penna e inchiostro nero di tipo carbonioso, assai dettagliato e, almeno in varie zone, a mano libera, sintomo di un disegnatore sicuro. Poche linee vengono riprese e precisate graficamente prima di passare alla coloritura. Più complessa era la struttura del manto della Vergine, a base di azzurrite, oggi blu scuro, quasi nero, con l’ordinamento delle pieghe attentamente disegnato. E pure degna di nota appare la definizione grafica delle rocce sullo sfondo. Sottili incisioni sono state praticate per la costruzione delle architetture, sia a riga sia a compasso, e seguite con poche varianti in fase pittorica. Mentre per i sacri attori principali lo spazio nelle architetture è riservato, altre figure sono state invece tracciate sopra l’edificio già disegnato: è il caso dei due pastori a sinistra, uno dei quali volto a intercettare lo sguardo dell’osservatore, i quali sono aggiunti a penna, con curata grafica, insieme al parapetto su cui poggiano, escamotage compositivo che permette di inserire il cartiglio con la scritta, che le analisi certificano come originale». L'uso del disegno in fasi successive, sin dalla prima strutturazione dell'opera, con modi e finalità diverse, nonché la sovrapposizione delle forme (appunto, per esempio, il parapetto in mattoni e i personaggi a sinistra sovrapposti al basamento di una colonna), confermano che la tavola è di invenzione.
    L'esame dei pigmenti suggerisce inoltre di anticipare la datazione ai primi anni ottanta, in consonanza con una osservazione svolta da Mina Gregori secondo la quale «il Morone si presenta già in fase evoluta nella 'Madonna col Bambino' del 1483». Infatti, rileva Gianluca Poldi, tra «i pigmenti si segnala la presenza diffusa di azzurrite nelle campiture azzurre (cielo e abiti). Nello sfondo scuro delle due nicchie con statue nell’ordine superiore dell’architettura, come pure nelle colonne azzurre, è presente un pigmento dalla risposta rossa intensa in IR falso colore, compatibile nel caso in esame con indaco (miscelato con parti di giallo nelle colonne), pigmento usato, sebbene di rado, in area veneta tra 1450 e 1480 circa, più frequentemente in mescolanza per ottenere peculiari toni di verde e violetto, ma qualche volta anche da solo o con biacca, come azzurro». E ancora: «La struttura delle pennellate, sottili e parallele, suggerisce l’impiego di tempera, almeno in varie finiture, ma anche in qualche parte è compatibile con stesure a olio». Proprio l'uso combinato di olio e tempera è un elemento di transizione, tra la pittura a tempera su tavola ancora in voga nella prima metà del Quattrocento e l'imporsi dell'olio su tela, che rafforza l'ipotesi di una datazione precoce. Cosicché, conclude Poldi, alla «luce delle indagini svolte, l’opera risulta coerente con l’epoca indicata», cioè «il XV secolo, seconda metà».
    La stessa resa pittorica, spigliata e sicura, indice di una velocità di pensiero, accostata a un disegno costruito sia a mano libera sia molto dettagliatamente, unitamente all'uso di una "tecnica mista" pone la tavola nel pieno dell’umanesimo attardato della ricca provincia veneta. Tra i segnali di questa cultura, oltre ai richiami classici e alla stessa morfologia del paesaggio e delle montagne in particolare - che agiscono come fattori innovatori rispetto alla impostazione tardo-gotica del corteo - sono le pareidolie inserite tra i reperti archeologici antichi murati nell’architettura: per esempio, la pietra angolare (a destra del ginocchio della statua di profilo al primo piano, al centro del dipinto), di ascendenza mantegnesca (si veda, ex multis, la conformazione delle nuvole nel "San Sebastiano" del Musée du Louvre, inv. RF 1766) e frequente anche in pittori coevi come Giorgione o Pinturicchio ("Martirio di San Sebastiano", Appartamento Borgia, Città del Vaticano).


    Ringraziamo il Dottor Gianluca Poldi per il prezioso supporto dato alla catalogazione dell'opera.

  • Enrico Baj (1924 - 2003) 
Profilo sinistro, 1980
    Lotto 285

    Enrico Baj (1924 - 2003)
    Profilo sinistro, 1980
    Tecnica mista (tessuto, pittura, ready made in plastica)
    24,4 x 18,3 cm
    Firma: "baj" al recto
    Altre iscrizioni: "NERO SATINATO", con riguardo alla finitura della cornice
    Bibliografia: Martina Corgnati, Roberta Cerini, “Catalogo generale delle opere di Enrico Baj dal 1972 al 1996”, Milano 1997, p. 242 n. 1989
    Stato di conservazione. Supporto: 95%
    Stato di conservazione. Superficie: 95%

  • Beppe Ciardi (1875 - 1932) 
Bambine nella barca (La riparazione delle reti), 1911
    Lotto 286

    Beppe Ciardi (1875 - 1932)
    Bambine nella barca (La riparazione delle reti), 1911
    Olio su tela
    70,9 x 58,8 cm
    Firma: "Beppe Ciardi" al recto in basso a destra
    Data: "1911"
    Altre iscrizioni: firma per autentica al verso della tela "Siro Durini" (a penna o a matita)
    Elementi distintivi: sul telaio, numero di inventario a pastello al retro del telaio "362-02"; timbro Galleria Carini sottoscritto "Siro Carini"; sulla tela firma "Siro Carini"; timbro non ben riconoscibile "GALLERIA D'ARTE Edizioni..."
    Provenienza: Galleria Carini, Milano
    Bibliografia: “Catalogo Mostra d’Arte”, catalogo della mostra, Milano, 1931, n. 8; Antonio Parronchi, “Beppe Ciardi. Catalogo ragionato dei dipinti”, Torino, 2019, tav. a colori n. 24, p. 112, n. 90
    Esposizioni: “Mostra d’Arte”, Montecatini, Locanda Maggiore, giugno-ottobre 1931
    Stato di conservazione. Supporto: 90%
    Stato di conservazione. Superficie: 80% (cadute di colore e ridipinture)

  • Maurizio D'Agostini (1946) 
Saturno (il portatore di vecchiaia, o saggezza), 2002
    Lotto 287

    Maurizio D'Agostini (1946)
    Saturno (il portatore di vecchiaia, o saggezza), 2002
    Terracotta semire dipinta
    50 x 42,6 x 48,2 cm
    Firma: “M D” inciso su una falda
    Data: “2002” inciso su una falda
    Altre iscrizioni: titolo inciso sulla base (“IL TEMPIO DI SATURNO”)

    Provenienza: Veneto Banca SpA in LCA
    Bibliografia: D. Gegghele, a cura di, Maurizio D'Agostini, Scuptures, Cornuda, 2005, p. 52 (ill.)
    B. Buscaroli, a cura di, Maurizio D'Agostini. Immaginazione, materia e sentimento, Vicenza, 2006, p. 27
    M. Rossi, Materia e sentimento riuniti da Maurizio D'Agostini. 40 opere di scultura e pastelli al LAMeC, Basilica Palladiana, in Il Giornale di Vicenza, 17.06.2006
    M. Rossi, Un artista che traduce nella forma ciò che sogna. Al LAMeC l'antologica a cura di Beatrice Buscaroli, in La Voce dei Berici, 09.07.2006
    R. Amaglio, D'Agostini. Il fantasticare diventa scultura, in La domenica di Vicenza, 27.07.2006
    F. Girardello, I Pianeti, l'invenzione cosmica di Maurizio D'Agostini, in Catalogo della mostra alla Fondazione G. B. Cima da Conegliano, 2009
    G. Grossato, D'Agostini sulle tracce di Holst, e i pianeti diventano sculture, in Il Giornale di Vicenza, 9 luglio 2009
    M. Valediano, Un argonauta lungo rotte enigmatiche, in Il Giornale di Vicenza, 18 novembre 2009
    C. Franchetti, a cura di, I pianeti di Maurizio D'Agostini. Omaggio a Gustav Holst, Sondrio, 2011, pp, 32-33 (ill.)
    G. Grossato, I pianeti di Maurizio D'Agostini, in Artantis, Palermo, luglio-agosto 2011
    G. Grossato, I pianeti di Maurizio D'Agostini a casa dell'astronomo Piazzi, in Il Giornale di Vicenza", 11 maggio 2011
    Aa. Vv., Enciclopedia Artisti contemporanei, Roma, 2013, pp. 128-129
    B. Buscaroli e P. Levi, testi di, I pianeti di Maurizio D'Agostini. Omaggio a Gustav Holst, Costa di Mezzate, 2016, pp. 9, 11, 16-17 (ill,)
    D. Radini Tedeschi e S. Pieralice, "Atlante dell'Arte", Novara, 2020, sub vocem
    M. Veladiano, Maurizio D'Agostini nell'"Atlante dell'Arte, in Il Giornale di Vicenza, 28.07.2020, p. 39
    A. Keran, I pianeti di Maurizio D'Agostini. La chiave metafisica della Materia, in Amedit, autunno 2020
    Esposizioni: B. Buscaroli, a cura di, Maurizio D'Agostini, Immaginazione, materia e sentimento, LAMeC Basilica Palladiana, Vicenza, 17 giugno - 27 agosto 2006
    F. Girardello, a cura di, I Pianeti. L'invenzione cosmica di Maurizio D'Agostini, Fondazione Giovanni Battista Cima, Conegliano, 1 maggio - 14 giugno 2009
    C. Franchetti, a cura di, I pianeti di Maurizio D'Agostini. Omaggio a Gustav Holst, Teatro Comunale Giuseppe Piazzi, Sondrio, 24 aprile - 15 maggio 2011
    Aa. Vv., "I sette pianeti. Omaggio a Gustav Holst", mostra itinerante nelle sedi di Veneto Banca di Bari (Palazzo Barone Ferrara), Fabriano, Verona, Verbania, 2014
    B. Buscaroli e P. Levi, a cura di, I pianeti di Maurizio D'Agostini. Omaggio a Gustav Holst, Veneto Banca, 2016

    Stato di conservazione. Supporto: 85% (danni minori)
    Stato di conservazione. Superficie: 90%

    L'opera fa parte di una serie realizzata da D'Agostini nei primi anni 2000 sui pianeti, dedicata a Gustav Holst (1874-1934), che ebbe successo mondiale con la suite "The Planets". «Mi appassionai - racconta l'artista, che già nel 1999 aveva tratteggiato a pastello l'Uomo degli astri (Buscaroli e Levi 2016, p. 11) - alla suite musicale de "I sette pianeti" di Gustav Holst a casa di amici, i coniugi Borgato. Paola e Luigi Borgato sono costruttori di pianoforti. Quella sera mi invitarono a cena. Con noi c'era anche il pianista Igor Roma. Era una bellissima serata d'Autunno del 2001 e dopo cena, per concludere quel caloroso e gioviale incontro, Igor si accomodò al pianoforte (un pianoforte Borgato a coda, naturalmente!), un eccezionale strumento nero come la notte e lucido come uno specchio. E lì, con le sue dita che correvano furiosamente sulla tastiera, Igor mi fece conoscere Marte portatore di guerra di Gustav Holst. L'impatto fu immediato, rimasi letteralmente catturato da quei suoni potenti, che in parte già conoscevo per averli sentiti in alcune colonne sonore di film d'azione. Confesso che non conoscevo Holst, il compositore, ma la sua musica, un po', sì! Stavo trascorrendo un periodo di crisi creativa, come mi è sempre accaduto, a fasi alterne. Mi trovavo in una situazione in cui avevo grande necessità, assoluto bisogno di una scintilla che accendesse la miccia della mia fantasia creativa e Marte portatore di guerra fu vera dinamite! Quella famosa sera, rincasando, la mia anima stava meravigliosamente bene. Mi venne in mente un progetto ambizioso, superbo: avrei realizzato i miei sette pianeti sulla base delle musiche di Gustav Holst. Ascoltando il divino Holst nacquero nell'arco di sette anni i miei personaggi. Ero inebriato da quelle musiche. Il mio scopo consisteva nel materializzare quei suoni secondo le mie visioni, riuscire a creare delle sculture che fossero in grado di rappresentare le musiche che ascoltavo. Fu una impresa di cui vado molto fiero, una ricerca e una sperimentazione che mi ha portato molto lontano, nel mondo esaltante del mistero e dell'inconscio. E così nacquero in ordine temporale Giove, Saturno, Marte, Venere, Nettuno, Mercurio e Urano.» (M. D'Agostini, estratto dal Carnet de voyage, in Buscaroli e Levi 2016, p. 11). La portata allegorica di ogni pianeta è ben sintetizzata da Beatrice Buscaroli nella introduzione alla mostra del 2016 (p. 9): «la seduzione di Venere, la regalità musicale di Giove, l'assolutezza imperativa di Marte, la fluidità turbinosa di Saturno, la dimensione proteiforme e vibratile di Mercurio, la gravità mistica di Nettuno, la struttura labirintica di Urano».
    Il ciclo - nel suo svolgersi negli anni - consente a D'Agostini di richiamare la memoria del proprio apprendistato nell'incisione, nello sbalzo e nel disegno presso la Scuola d'Arte e Mestieri di Vicenza, unendoli all'esperienza della scultura monumentale, ed all'approfondimento della ceramica, che dal 2004 inizia a dipingere con oli e acrilici al modo degli antichi (Buscaroli e Levi 2016, p. 37). Nasce così un modo di fare scultura che dichiara il proprio legame con la musica, ma che è prima di tutto di impronta teatrale, con il definirsi di personaggi che sono in realtà maschere e abiti almeno quanto idee.
    Di ogni scultura della serie esistono diversi disegni preparatori, che ne rivelano la genesi: Saturno è originariamente immaginato come un uomo che del suo enorme mantello fa un vero e proprio edificio a cui si accede da scale, mentre gli anelli derivano sembrano derivare dalla progressiva modificazione della tesa di un cappello. (Franchetti 2011, p. 30; Buscaroli e Levi 2016, p. 16).
    Del ciclo D'Agostini ha realizzato, a richiesta, esemplari in bronzo.

  • Federico Barocci (1535 - 1612) , ambito di
Sacra Famiglia
    Lotto 289

    Federico Barocci (1535 - 1612) , ambito di
    Sacra Famiglia
    Inchiostro, matita, biacca e gessi su carta, applicata su foglio di rifodero in adesione a cartoncino
    32,7 x 26,5
    Altre iscrizioni: al verso della cornice, iscrizione a inchiostro nero "Morichi" (?)
    Elementi distintivi: a lato della cornice una targhetta di collezione con recante il riferimento di inventario "241"
    Provenienza: Conti Morichi, Macerata (possibile); Toraldo d'Aragnona, baroni di Badolato e principi di Massa Lubrense, per discendenza
    Stato di conservazione. Supporto: 65% (rifodero, perdita di porzioni della carta, danni da tarli, umidità, roditori e sovraesposizione luminosa)
    Stato di conservazione. Superficie: 75% (abrasioni, ondulature, danni da umidità, ritocchi e integrazioni)

    La Madonna, coronata, sfoglia il Sacro Libro, tenendo Gesù al petto: Giuseppe ed un profeta (o un evangelista) osservano, con distanza emotiva - che suggerisce contemplazione e interrogazione - assai maggiore dello spazio fisico che li divide dall'evento. La scena è inquadrata da una tenda, secondo un espediente di derivazione veneta, mentre lo sfondo accenna alla scalinata di un tempio in via di costruzione. La venuta di Cristo, il legame della Madre e del Bambino e la fondazione della Chiesa sono proposti dal pittore come un fatto solo. Il tratto è efficace, la suggestione del movimento è ovunque, a partire da Maria che appare quasi sollevarsi, anche grazie alle abili lumeggiature a gessetto.
    L'invenzione è certamente originale, come suggeriscono i numerosi pentimenti (tra tutti, la testa del Bambino e il piede del Santo), e la quadrettatura indica la destinazione in grande formato, verosimilmente per una pala d'altare.
    Il foglio, anche nelle fisionomie, ricorda i modi di Federico Barocci - ecco l'impostazione della "Madonna col Bambino tra i Santi Geronzio e Maria Maddalena e una famiglia di devoti (Pio Sodalizio dei Piceni, Roma) -, ma se ne distanzia sul piano esecutivo, per la minore vaporosità e velocità, suggerendo una collocazione prossima alla prima attività del maestro, se non nella generazione precedente di artisti, fioriti tra Romagna e Marche.
    Rilevante la annotazione "Morichi", al verso della cornice, che può rimandare alla famiglia comitale Morichi di San Ginesio, presso Macerata, fiorita intorno al 1520, quando la città divenne il principale centro politico e amministrativo delle Marche. Si ricordano almeno due soggiorni di Barocci a Macerata, il primo verso il 1585 ed il secondo, intorno al 1605, cui risale, secondo Bellori, una grande tela per l'altare maggiore della chiesa dei cappuccini, con la "Concezione, con gloria di angeli, San Francesco, San Giovanni Battista, San Bonaventura e San'Antonio da Padova (Giovanni Spadoni, "Federico Barocci a Macerata e il bozzetto di un quadro incendiato dai Francesi nel 1799", pp. 86-92, in "Studi e notizie di Federico Barocci", a cura della Brigata urbinate degli amici dei monumenti, Firenze, 1913).

  • Tommaso Manzuoli, detto Maso da San Friano (1531 - 1571) 
San Sebastiano
    Lotto 290

    Tommaso Manzuoli, detto Maso da San Friano (1531 - 1571)
    San Sebastiano
    Olio su tavola
    98,4 x 73,5 cm
    Altre iscrizioni: al verso, in inchiostro nero «9», a seguire più in basso «GIOV. ANT. BAZZI DETTO IL SODOMA FECE ANNO 1527 SIENA».
    Elementi distintivi: tracce di un sigillo in ceralacca e di un timbro a inchiostro con stemma arcivescovile scudato; una etichetta con iscrizione «92» a penna; tre etichette moderne con numero «256376» dattiloscritto; una etichetta moderna con «CALABRESE» a penna.
    Provenienza: Cambi, Genova, 15.6.2022, l. 315 (“Scuola italiana del XVI secolo, San Sebastiano”, € 15.100)
    Vincoli: Certificato di libera esportazione (2022), «Scuola italiana del XVI secolo, San Sebastiano...»Stato di conservazione. Supporto: 90%
    Stato di conservazione. Superficie: 80% (cadute di colore e ridipinture sparse, forse anche ulteriori a quelle visibili in UV)

    L’opera è stata restituita, con certezza, al manierista fiorentino Tommaso Manzuoli, detto Maso da San Friano, da Carlo Falciani (comunicazione del 18 settembre 2023). In passato, come si nota osservando l’antica iscrizione su retro, la tavola era stata erroneamente attribuita a Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma (1477-1549), per poi passare recentemente in asta con un’indicazione più generica ("Scuola italiana del XVI secolo"). Maso da San Friano, è stato un vivace interprete del tardo manierismo nella Firenze della seconda metà del Cinquecento. Stando alle parole del Vasari, è stato allievo di Pier Francesco Foschi; eccellente copista dei grandi maestri come Pontormo e Andrea del Sarto, e in particolar modo Michelangelo, seppe evolversi in esiti autonomi e originali.
    Sebbene la sua esistenza sia stata breve - morì sulla soglia dei quaranta anni - lo vediamo attivo nella decorazione artistica delle più prestigiose chiese cittadine, tra cui San Pier Maggiore, Santa Felicita e Ognissanti, partecipando, nel 1571, anche alla decorazione del celebre Studiolo di Francesco I a Palazzo Pitti.
    Il soggetto è san Sebastiano, giovane militare romano vissuto nella seconda metà del III secolo, come illustrato dagli attributi iconografici della freccia impugnata con la mano sinistra e dalla palma del martirio brandita dalla destra, a immortalarne la gloria eterna.

    Ringraziamo il Professor Carlo Falciani per il supporto nella catalogazione dell’opera.

  • Arturo Faldi (1856 - 1911) 
Giovane di profilo
    Lotto 291

    Arturo Faldi (1856 - 1911)
    Giovane di profilo
    Olio su cartoncino compresso
    26,4 x 18 cm
    Firma: "A. Faldi" al recto
    Altre iscrizioni: al verso, annotazione di inizio novecento, forse in relazione al soggetto dell'opera; annotazione per la cessione dell'opera datata "05/07/2016" da parte di "Marco Peritore"
    Elementi distintivi: cinque etichette di inventario
    Provenienza: Collezione Peritore, Catania
    Stato di conservazione. Supporto: 90% (leggeri danni ai margini, scivolamento dell'opera rispetto alla luce della cornice)
    Stato di conservazione. Superficie: 90%

    Il fiorentino Faldi studiò alla cittadina Accademia di belle arti, dove ebbe come maestri Giovanni Muzzioli e Michele Gordigiani. Intorno ai 25, ormai ben formato sulla pittura di soggetto storico e mitologico che allora occupava grande parte dell'insegnamento, si avvicina ai Macchiaioli. Incoraggiato dal successo di una sua opera, "Paysanne d'Italie", esposta al Salon di Parigi, si concentra su soggetti realistici, di vita quotidiana, ed in particolare sul rapporto tra attività contadina e natura.
    Due suoi dipinti ebbero l'onore di essere acquistati da Re Umberto I: "Luna di miele", donato dalla Corona al Galleria civica d'arte moderna e contemporanea di Torino, e "Dio li accompagni", donato alla Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea di Roma ed oggi nello studio del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
    Ormai acclamato pittore, molto ricercato dalle élite toscane, Faldi divenne professore e poi presidente dell'Accademia di belle arti di Firenze.
    Di questa capacità di unire eleganza e realismo è testimonianza il ritratto su tavola in asta, una giovanissima e bella ragazza di profilo, di cui si legge anche il leggero imbarazzo, proiettata contro la compagna.

  • Antonio Mancini (1852 - 1930) 
Innamorata, 1910
    Lotto 292

    Antonio Mancini (1852 - 1930)
    Innamorata, 1910
    Olio su tela
    132 x 133 cm
    Firma: "A Mancini" al recto
    Data: "1910" al recto
    Altre iscrizioni: "München", al recto
    Elementi distintivi: al verso, su etichetta lacerata "127"; a pennello sul telaio "40"; altre tre etichette bianche o con numero di inventario
    Provenienza: collezione Otto Messinger, Roma; collezione Alberto Fassini, Roma
    Bibliografia: Monaco di Baviera, 1910 ca (La collezione Messinger), cat. non ill.; L. Ozzola, "Artisti contemporanei: Antonio Mancini", in "Emporium", vol. XXXIII, n. 198, giugno 1911, p. 420, ill., e p. 428; L. Ozzola, "L'arte contemporanea alla esposizione di Roma del 1911", Roma, 1911, p. 22; "Esposizione internazionale di Roma. Catalogo della mostra di Belle Arti Roma 1911", Bergamo, 1911, p. 12, n. 91; E. Giannelli, "Artisti napoletani viventi. Pittori, scultori, incisori, architetti", Napoli, 1916, p. 310; Catálogo del tercer Salón de Otoño Fundado por la Asociación de Pintores y Esclultores, Madrid, ottobre 1922, p. 32, n. 403 ("Enamorada"); G. Gatti, "Pittori italiani dall'800 a oggi", Roma, 1925, p. 114; P. A. Corna, "Dizionario della Storia dell'Arte in Italia", vol. II, Piacenza, 1930 (ed. or. 1911), p. 76; A. Lancellotti, "Le mostre romane del cinquantenario", Roma s.d. ma post 1930 ( ed. or. 1911 ), p. 76; Emilio Cecchi, "La collezione d'Arte del Barone Alberto Fassini. Vol. III, Pitture del secolo XIX e del secolo corrente", Milano-Roma, 1931, s.n.p., ripr. tav. LXXIX; A. Lancellotti, "Antonio Mancini" in "Les Hirondelles. Art - Coutumes - Paysages", a. IX, n. 8, agosto 1931, p. 163, ill.; A. M. Comanducci, "I pittori italiani dell'Ottocento", Milano, 1934, p. 389; A. Schettini, 1953, p. 235; M. Borghi, "Galleria d'artisti italiani. Antonio Mancini", in "Rivista delle province", a cura dell'Unione delle Province d'Italia, Roma, 1960, p. 47; D. Cecchi, "Antonio Mancini", Torino, 1966, pp. 241 e 248; Don Riccardo, "Artecatalogo dell'Ottocento. "Vesuvio" dei pittori napoletani", vol. II, Roma, 1973, p. 294; Don Riccardo, " '800'. Profilo storico della Pittura Italiana, Roma, 1975, p. 93; C. Virno, "Antonio Mancini. Catalogo ragionato dell'opera", vol. I,"La pittura a olio su tela, tavola, carta e specchio", Roma, 2019, cat. 653, pp. 376-377, ill. 653
    Esposizioni: Amatori e Cultori, Roma, 1910; Salòn de Otoño, 1931; Prima Quadriennale, Roma, 1931

    Stato di conservazione. Supporto: 85% (rifodero)
    Stato di conservazione. Superficie: 85%

    Tra il 1910 e il 1911, Antonio Mancini realizzò per il barone Otto Messinger, collezionista di antichità e mercante d'arte, cinque dipinti di analoghe dimensioni, di forma quadrata, raffiguranti una figura femminile seduta: "Liutista" (Virno 2019, cat. 632), "Rococò" (cat. 654), "Suonatrice" (cat. 655), "Geltrude" (652) e, appunto, "Innamorata" (cat. 653).
    Per lo meno per tre di questi dipinti (catt. 652, 653, 655), posa la stessa modella e in due di essi (cat. 652, 653) sostanzialmente ripetendo la posizione: seduta, una mano sfiora il viso, l'altra tiene dei fiori ed un vaso domina la parte destra. Si tratta di una signorina tedesca, tale Gertrude, che compare a Monaco di Baviera insieme a Mancini in una foto pubblicata da Emilio Cecchi nel 1931 (fig. 39, p. 522). Entrambe le tele ebbero notevole fortuna.
    La prima venne acquistata dal Museo Revoltella, Trieste, nel 1911, all'Esposizione universale di Roma. Oltre dieci anni dopo, nell'ottobre del 1922, Mancini scrive a Messinger, che si trova a Madrid: «Vidi la Geltrude al Museo Rivoltella [sic] e bene collocata è la pittura. A Trieste vi conobbi il direttore dell'elegante museo Rivoltella che mi dava varie notizie del prezzo della Geltrude (L. 25.000) e come fu ben pagata ne sono contento. La tela piace e mi rallegrava molto».
    Le nostre tela rimase invece nella collezione Messinger, da cui passò al barone Alberto Fassini: ben due delle maggiori raccolte manciniane. Esibita all'Esposizione internazionale del 1911 a Roma, colpì la critica per l'attitudine pensosa. Il Lancellotti la descrisse come «una donna che guarda lontano come assorta». Più severo il successivo giudizio di Emilio Cecchi, che, nel catalogo della collezione Fassini, la considera meno riuscita degli altri ritratti femminili della serie.
    In realtà, Mancini sperimenta, nelle cinque tele soluzioni cromatiche piuttosto differenti. Il nostro dipinto è giocato su una ambientazione scura, accentuata anche dalla scelta della veste, per far risaltare l'incarnato della fanciulla, anche attraverso l'accostamento di giallo e di rosso nel bel vaso, nei fiori sparsi sul mobile e nel collegamento visivo con quelli tenuti in mano dalla ragazza. Molto notevole anche il gioco della cornice alle sue spalle, che apre uno spazio analogo a quello in cui si trova l'osservatore: realizzando, per così dire, un raddoppiamento al centro dei quali è la sontuosa scena borghese: la elegante cornice reale sembra richiamare il decoro di quella dipinta, in una assonanza probabilmente voluta. L'espediente è utilizzato, ma con un taglio prospettico meno audace, anche nella tela triestina.
    Un dipinto, quindi, compositivamente molto riuscito e di grande difficoltà cromatica, per l'obiettivo di far emergere la figura da un interno in ombra che si anima di accesi riflessi.

    I contenuti della scheda sono largamente dovuti alle ricerche svolte per il catalogo ragionato dell'artista da Cinzia Virno (in particolare, schede 632, 652-655). Ringraziamo Cinzia Virno per aver confermato la autenticità dell'opera su base fotografica (comunicazione dell'8 agosto 2023).

  • Francesco Fanelli (1869 - 1924) 
Il lago di Massaciuccoli, 1896
    Lotto 296

    Francesco Fanelli (1869 - 1924)
    Il lago di Massaciuccoli, 1896
    Olio su tavola
    48,9 x 111,8 cm
    Firma: "F. Fanelli" al recto
    Data: "96"
    Altre iscrizioni: "Torre del lago" al recto
    Bibliografia: G. Bacci di Capaci, a cura di, "Francesco Fanelli, Trasparenze solari", Lucca 2012, p. 46
    Esposizioni: Lucca 2012
    Stato di conservazione. Supporto: 90%
    Stato di conservazione. Superficie: 85% (riprese pittoriche, in particolare nelle nuvole)

    «Dipinge con la schiettezza che è propria della sua scuola, non preoccupandosi di tecniche e di teorie. Predilige della natura gli aspetti tenui e malinconici» (Fiorentina Primaverile - 1922)

    Fanelli muove i primi passi in sintonia con la tradizione pittorica livornese, in particolare sotto l'influenza di Silvestro Lega e degli artisti Macchiaioli fiorentini, per poi deviare verso le nuove impressioni francesi, importate in Toscana da Alfredo Müller. Nel 1892 frequenta la Scuola libera del Nudo presso l'Accademia di belle arti di Firenze con l'amico Ferruccio Pagni e partecipa a mostre ed esposizioni nazionali con quadri riprodotti dal vero nell'area di Torre del Lago (Acque ferme, In Capanna, Padule di Massaciuccoli); con lo stesso Pagni, Guglielmo Amedeo Lori, Raffaello Gambogi, i fratelli Angiolo e Ludovico Tommasi e Plinio Nomellini fonda presso villa Orlando di Torre del Lago un cenacolo artistico-musicale e ricreativo ribattezzato Club La Bohème in onore dell'opera di Giacomo Puccini.
    Soggetti preferiti e fonti di ispirazione sono i paesaggi del Lago di Massaciuccoli - di cui è in asta una delle migliori versioni - e i colori suggestivi della costa tirrenica livornese, sempre rappresentati con notevole aderenza al vero.

  • Oscar Ghiglia (1876 - 1945) 
Natura morta, 1936-1937
    Lotto 298

    Oscar Ghiglia (1876 - 1945)
    Natura morta, 1936-1937
    Olio su cartone
    32,8 x 37,4 cm
    Firma: in alto a destra, “O. Ghiglia”
    Bibliografia: L. Ghiglia e S. Zampieri, a cura di, "Oscar Ghiglia. Catalogo generale", Cinisello Balsamo, 2022, p. 418, n. 723
    Stato di conservazione. Supporto: 95%
    Stato di conservazione. Superficie: 90%

    Allievo di Giovanni Fattori, amico e sodale di Llewelyn Lloyd e Amedeo Modigliani, collaboratore della rivista “Leonardo” di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, Oscar Ghiglia è uno dei maggiori artisti post-macchiaioli. Il costante legame con Ugo Ojetti e con il collezionista Gustavo Sforni, che aveva contribuito alla diffusione in Italia dell’opera di Paul Cézanne, lo colloca nell’ambito di una modernità lontana dalle avanguardie e in tale veste nel primo dopoguerra affronta il dibattito sul “ritorno all’ordine” e partecipa nel 1921 alla mostra “Arte Italiana contemporanea” curata da Ojetti alla Galleria Pesaro e nel 1923 alla Prima Mostra del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti. Il rapporto con la realtà, indagata attraverso il paesaggio, il ritratto e la natura morta, è 'conditio sine qua non' della sua produzione. Erede della tradizione macchiaiola nell’introduzione alla prima monografia su Fattori, da lui stesso redatta, afferma: «la pittura è fondata unicamente sulla legge del saper trovare il tono giusto d’un colore e costringerlo nel suo giusto spazio» (Oscar Ghiglia, “L’opera di Giovanni Fattori, Firenze, 1913). Gli fa eco nel 1920 Ojetti: «la pittura è, infatti per lui non un modo d’inventare o sognare, ma un modo di capire, ordinare, dominare, godere il vero e renderlo con l’arte prezioso, durevole e desiderabile» (Ugo Ojetti, “Il pittore Oscar Ghiglia”, in “Dedalo”, I, 1920, 1, pp. 114-132, pp. 116-117). Isolatosi progressivamente con l’avvento del fascismo, attorno alla metà degli anni Trenta «dopo anni di dialogo serrato tra oggetto e sfondo, decide di ‘emancipare’», nelle nature morte, «l’oggetto per renderlo interprete assoluto della figurazione» (Stefano Zampieri, “L’opera pittorica di Oscar Ghiglia”, in Leonardo Ghiglia e Stefano Zampieri, a cura di, "Oscar Ghiglia. Catalogo generale", cit., pp. 17-69, p. 58). In queste opere, dal formato spesso quadrato per meglio esaltare l’oggetto, che costituiscono una sorta di ritmata meditazione sulla forma, lo sfondo è ridotto a panni accesi o a pareti azzurre bicolori e gli oggetti sono spinti in primo piano per favorire una visione ravvicinata e fotografica come nel caso di queste mele dalla superficie tanto lucida da apparire riflettente. Si tratta di un «faticoso tentativo di far coincidere visione interiore e immagine reale» (Leonardo Ghiglia, “'È musica la pittura...musica grande’. Fortuna e sfortuna critica di un elusivo compositore figurativo” in Leonardo Ghiglia e Stefano Zampieri, a cura di, "Oscar Ghiglia., cit., pp. 71-, p. 96) in cui il tema perde progressivamente importanza a favore della pittura come atto puro.

    Teresa Sacchi Lodispoto

  • Fiorenzo Tomea (1910 - 1960) 
Lago d'Iseo, 1947
    Lotto 301

    Fiorenzo Tomea (1910 - 1960)
    Lago d'Iseo, 1947
    Olio su tela
    70 x 90 cm
    Firma: “Tomea” al recto
    Altre iscrizioni: "Beatrice d'Este 17" al verso della cornice, con riferimento all'indirizzo dove Tomea vive, a Milano, dal 1935
    Provenienza: lo studio dell'artista; Veneto Banca SpA in LCA
    Esposizioni: Premio Iseo, estate 1947 (?)
    Stato di conservazione. Supporto: 85% (macchie)
    Stato di conservazione. Superficie: 95%

    Originario di un piccolo borgo del Cadore, dopo aver lavorato giovanissimo come venditore ambulante Fiorenzo Tomea frequenta a Verona tra il 1926 e il 1928 i corsi di disegno e pittura dell'Accademia Cignaroli, dove stringe amicizia con Giacomo Manzù e Renato Birolli. Trasferitosi a Milano nel 1928, attraverso Manzù e Birolli entra in contatto con la cerchia dei giovani artisti più aperti verso le esperienze dell'arte europea (Francesco Messina, Aligi Sassu, Bruno Cassinari, Domenico Cantatore) e l'anno seguente conosce il critico Edoardo Persico, che nel 1931 lo invita a esporre in una collettiva da lui organizzata alla Galleria Il Milione, seguita poi da una mostra personale nel 1934. L'incontro con Persico è determinante nel rafforzare l'indirizzo anticlassicista e antinovecentista dell'artista, orientandolo verso la pittura impressionista e postimpressionista. Proprio nell'urgenza di approfondire la conoscenza dei maestri dell'arte francese e delle più recenti tendenze artistiche, nell'autunno del 1934 Tomea con l'amico Sassu si reca a Parigi, dove vi rimane per sei mesi frequentando la comunità degli artisti italiani lì residenti (Giorgio De Chirico, Gino Severini, Filippo De Pisis, Massimo Campigli). Rientrato a Milano, l'artista definisce i caratteri fondamentali della sua pittura in cui una serie di temi di ispirazione metafisica e surreale (candele, maschere, scheletri, scelti come inquiete metafore della condizione umana) si alternano a paesaggi e nature morte in cui la semplificazione formale di ispirazione primitivista (da Giotto a Carrà) si associa a un uso libero del colore di chiara matrice francese.
    Tali aspetti, a cui Tomea rimarrà sostanzialmente fedele lungo il corso della sua vicenda artistica, che si intreccerà in seguito anche con il movimento di "Corrente", sono ben evidenti in questo dipinto, la cui autenticità è stata confermata dal figlio dell'artista, il prof. Paolo Tomea (comunicazione scritta del 2 giugno 2021 ). Si tratta di una veduta del lago di Iseo, realizzata con molta probabilità in occasione della sua partecipazione fuori concorso al Premio Iseo nell'estate del 1947 (ipotesi confermata da Paolo Tomea, comunicazione scritta del 12 giugno 2021). L'opera, insieme a quella molto simile ma di dimensioni minori esposta nella retrospettiva del 2002 (Rossana Bossaglia, Antonella Alban, "Fiorenzo Tomea opere 1934-1959", Mel, Palazzo delle Contesse, 14 dicembre 2002-9 febbraio 2003, p. 136), rappresenta una parentesi nella produzione paesistica di Tomea, per lo più centrata a ritrarre la natia Zoppè di Cadore e i suoi dintorni dolomitici. Non dissimile è tuttavia il linguaggio pittorico: la cittadina di Iseo, affacciata sul lago e affiancata dal Monte Isola, è infatti restituita nei suoi tratti essenziali, con pennellata larga e sommaria che rende mobili i profili degli edifici e degli alberi e vibrante la luce perlacea che dal cielo striato di nubi si riflette sull'acqua. Una maniera lirica in grado di conferire al paesaggio un tocco di incantata spiritualità che l'artista, nel corso degli anni Cinquanta volgerà, nel segno della massima purezza primitiva, verso un registro meno atmosferico e più essenziale e geometrizzante.
    Il dipinto è conservato nella cornice originale, scelta dall'artista, come si rileva da un appunto al verso: "Via Beatrice d'Este, 17", a Milano, dove l'artista si era trasferito nel 1935.

    Sabrina Spinazzé

    Ringraziamo il Prof. Paolo Tomea per il prezioso supporto nella catalogazione dell'opera.

  • Guido Reni (1575 - 1642) 
San Francesco
    Lotto 302

    Guido Reni (1575 - 1642)
    San Francesco
    Olio su tela
    183,2 x 136 cm
    Elementi distintivi: sul verso, etichetta recente, con riferimento all'opera
    Provenienza: Banca Popolare di Asolo e Montebelluna (dal 1993); Veneto Banca SpA in LCA
    Certificati: certificato di Paolo Viancini, s.d.; scheda critica di Daniele Benati, del 26 luglio 2021; scheda critica di Massimo Pulini, del 7 agosto 2021
    Stato di conservazione. Supporto: 80% (reintelo)
    Stato di conservazione. Superficie: 75% (abrasioni, spuliture, integrazioni e ritocchi, anche sul viso del santo)

    Il dipinto è stato acquisito da Veneto Banca nel 1993 e da allora è stato conservato in caveau. Inedita, l'opera è stata oggetto di un'ampia indagine critica in sede di catalogazione, con un giudizio prevalentemente orientato nel riconoscervi un capolavoro di Guido Reni.
    Per Daniele Benati, che vi ha dedicato una approfondita scheda critica e intende presentare l'opera anche in sede scientifica, «Il bellissimo dipinto appartiene senza dubbio a Guido Reni, trovando immediato riscontro con altre sue opere già note non soltanto per il tipo di composizione, ma soprattutto per la suprema raffinatezza della conduzione pittorica, ineguagliata da nessuno dei suoi allievi, per quanto dotati.» Lo studioso data l'opera «agli inoltrati anni Trenta del XVII secolo» sia rapportandola al dipinto di analogo soggetto della Galleria Colonna e al Pallione della peste del 1631 (Bologna, Pinacoteca Nazionale) sia in ragione dello «addolcimento della stesura che Guido vi consegue, in ordine a quella progressiva “smaterializzazione” dell’immagine che anima tutta la sua feconda carriera», non mancando di segnalare che rispetto «alle versioni note, anche l’atteggiamento con cui il santo è raffigurato punta in direzione di una maggiore introspezione psicologica: il suo muto e addolorato colloquio con il Crocifisso è infatti cosa diversa dall’enfasi con cui, nei quadri dei Girolamini e del Louvre, egli rivolge impetuosamente lo sguardo al cielo portandosi la destra al petto. Da questo punto di vista, la soluzione proposta nel quadro in esame appare più convincente anche rispetto alla versione Colonna, addebitabile in parte agli aiuti, in cui il santo si torce le mani ripetendo alla lettera l’invenzione già utilizzata nel Pallione della peste, dove essa appariva però tanto più necessaria in relazione al tema proposto dal grande dipinto.». Sul piano virtuosistico, «Con un’economia di mezzi davvero impressionante, Reni riesce di fatto a condensare una quantità strabiliante di osservazioni naturalistiche e nello stesso tempo a proiettarle in una dimensione di perfezione ultraterrena: dai lucori degli occhi ai peli della barba sfiorata dalla luce che spiove dall’alto, dalla tessitura dell’umile saio alla superficie polita del teschio, dagli oggetti abbandonati in primo piano alla mirabile apertura di paesaggio, che sembra davvero disfarsi nella luce. Nel dipinto non c’è del resto alcuna pennellata “inutile”; e gli stessi “pentimenti” – nel dorso della mano destra, ad esempio, o nel profilo del teschio – vengono intenzionalmente lasciati a vista, per conferire alla pittura un effetto di maggiore vibrazione. Laddove la luce batte con maggiore insistenza, Guido ricorre poi a una sottile tessitura di pennellate parallele e come ravviate, così da produrre quell’effetto cristallino che gli è proprio e che i copisti cercano invano di imitare. Siamo cioè di fronte a un esito in cui Guido esplicita al grado più alto la propria propensione per un vero “ideale”, mirato ad estrarre dal dato di natura, indagato peraltro con indicibile sottigliezza, il suo valore eterno e metafisico».
    Massimo Pulini, cui si deve una ulteriore lettura critica a conferma della piena l'autografia, ha approfondito il ruolo del dipinto in asta quale prototipo, prendendo in esame tutte le altre redazioni «fino ad ora emerse» (Casa d’aste Sammarinese 25 luglio 2014, olio su tela, cm. 170x130, forse la stessa tela presso Lucas, 19 aprile 2021; Hampel 27 giugno 2019 e 2 aprile 2020, olio su tela 192,5 x 145 cm, forse la stessa tela apparsa sul mercato antiquario 28 ottobre 2010; oltre ad alcune riduzioni quali il San Francesco in meditazione presso il Musée du Colombier di Alès, olio su tela, cm. 98 x 73,5, ed una analoga già a Londra sul mercato antiquario), nessuna delle quali riusciva «a raggiungere i livelli qualitativi che merita il catalogo di un genio della pittura» mentre «l’opera in parola ha [...] caratteri di assoluta levatura, dimostrati anche nella sobrietà della tavolozza e nel rigore ascetico che dal tema si trasferisce alle scelte di stile. Una pittura priva di enfasi, ma calibrata sulle declinazioni più delicate e minimali eleva questo esemplare a modello degli altri già noti». Anche il prof. Pulini ritiene il dipinto «inoltrato oltre la metà degli anni Trenta», in ragione della «rarefazione esecutiva tipica dell’ultima stagione dell’artista, quella che precede gli incompiuti dell’estrema produzione. La stenografia pittorica con la quale è condotto il volto del santo racconta quel percorso di spoliazione di ogni enfasi a favore di una essenzialità sapiente, che permette di risolvere anche i più ardui dettagli di un viso scorciato con un’unica e vibrante pennellata. Conferma questa collocazione cronologica anche l’attenuazione della gamma cromatica a poche declinazioni di tono, che tuttavia non impediscono all’artista di esprimere tutti i valori naturali con eleganza formale».
    Il consenso alla autografia dell'opera è ampio. Erich Schleir concorda sulla piena autografia reniana («specialmente bello è anche il paesaggio», comunicazione del 28 maggio 2021). Emilio Negro lo ritiene «un bel dipinto eseguito da Guido Reni nell'ultima fase della sua straordinaria carriera» (comunicazione del 29 maggio 2021). David Ekserdjian ne ha avuta «una impressione istintivamente buona», rilevando come per un verso l'opera non mostri i tratti ovvi della copia e per l'altro l'invenzione appaia propria di Reni anche in paragone agli artisti a lui più vicini, come per esempio Cantarini (comunicazione del 17 giugno 2021). Anche Fausto Gozzi supporta la attribuzione a Guido Reni: «I migliori allievi di Reni come Sirani, padre e figlia, Cantarini, Gessi, Torre e Sementi, dipingono in modo diverso da questo, particolarmente Sirani, Cantarini e Torri. Questo san Francesco (183 x 136) ha particolari di altissima qualità: la testa del santo, il Crocifisso, la mano che tiene il teschio e le radici in basso (che ritroviamo uguali anche nella "Maddalena" di Reni della Galleria Nazionale d'Arte Antica di Roma). La luce scende diagonalmente ed ha un ruolo importante di astrazione chiara dei colori, distribuendo una luce argentea tipica dello stile di Reni. Questa gamma cromatica chiara e rarefatta, produce toni che si avvicinano alla "Pala della peste" (1631) di Reni nella Pinacoteca di Bologna.» Il dr. Gozzi qualifica, inoltre, «il formato (183 x 136)» come «tipico di una "paletta" per una cappella privata».
    In base all'esame di una immagine ad alta definizione, Bastian Eclergy, pur rilevando la qualità del dipinto, conserva dubbi sulla autografia, considerandolo un caso complicato da giudicare (comunicazione del 14 marzo 2022).
    Contrari alla attribuzione a Reni sono David M. Stone (comunicazione del 4 giugno 2021) e Angelo Mazza (comunicazione del 14 luglio 2021), che reputano la tela della bottega del maestro. Più precisamente, il dr. Mazza connette l'opera con «la tarda bottega reniana [...] senza che si possa confermare l'attribuzione a Reni stesso, neppure in parte, né meglio precisare l'autore». Marco Horak ritiene che in «particolare la resa del volto» indirizzi «verso un’ipotesi attributiva a Giovanni Andrea Sirani (Bologna, 4 settembre 1610 – Bologna, 21 maggio 1670)», unitamente a «“il particolare bagliore che circonda la testa del Santo”, che può essere considerato una sorta di “marchio di fabbrica” della bottega di Guido Reni, dove Giovanni Andrea Sirani, dopo un breve periodo di formazione presso Giacomo Cavedone, venne accolto divenendo l'allievo prediletto del maestro». Alla figlia di Andrea, Elisabetta Sirani (1638-1665) pensa invece Babette Bohn, reputando la tela un potenziale autografo della pittrice, «ispirato dai numerosi dipinti di Guido Reni che rappresentano santi nel paesaggio (Maria Maddalena, Gerolamo)», e databile a poco dopo il 1660. La paletta non risulta, comunque, nella lista delle opere della Sirani pubblicata da Malvasia nella edizione della Felsina pittrice del 1678 (comunicazioni del 14 luglio 2021).
    Daniele Benati, Massimo Pulini e Angelo Mazza hanno visto l'opera dal vero. Gli altri studiosi citati hanno espresso un parere su base fotografica.

    Ringraziamo Daniele Benati, Babette Bohn, Bastian Eclergy, David Ekserdjian, Fausto Gozzi, Marco Horak, Angelo Mazza, Emilio Negro, Massimo Pulini, Erich Schleier, David M. Stone, per il prezioso supporto nella catalogazione dell'opera.

  • Simone Cantarini (1612 - 1648) 
San Gerolamo
    Lotto 304

    Simone Cantarini (1612 - 1648)
    San Gerolamo
    Olio su tela
    158,1 x 120,6 cm
    Elementi distintivi: al verso, in gesso bianco, annotazione di passaggio d'asta («56 16 DEC 98»); inventario d'asta in stencil («RS380»); etichetta Christie's ed etichetta Gander & White per Panzironi, relativa ad un trasporto
    Provenienza: Christie's, Londra, 1998
    Bibliografia: Andrea Emiliani, scheda 19, "Simone Cantarini (il Pesarese), San Girolamo", in Yadranka Bentini, a cura di, "Percorsi del barocco. Acquisti, doni e depositi alla Pinacoteca nazionale di Bologna 1990-1999", Bologna, 1999, pp. 64-65, ill.; Massimo Pulini, "Gianandrea Sirani, una storia da riscrivere. Il “recitar dipinto” di un maestro da rivalutare: Gianandrea Sirani pittore di recitativi e rifinitore di incompiuti reniani", AboutArt, Bologna, 2020 (www.aboutartonline.com/pulini/)
    Esposizioni: Pinacoteca Nazionale di Bologna (inv. 10018)
    Stato di conservazione. Supporto: 90% (rintelo)
    Stato di conservazione. Superficie: 90% (non visibili danni rilevanti; vernice protettiva sull'intera superficie)
    Prendendo le mosse dalla testimonianza del grande biografo degli artisti emiliani, il conte Carlo Cesare Malvasia (1616-1693), quasi coetaneo e amico di Cantarini - che ricorda «come Simone si educasse soprattutto sull'ammirazione giovanile di un grande dipinto d'altare», la Pala che la famiglia pesarese degli Olivieri aveva commissionato al Reni intorno al 1632-1634 e posto sull'altar maggiore della cattedrale», oggi alla Pinacoteca Vaticana, «Disegnandola perciò più volte, e dipingendola» e di cui l'opera in asta cita la figura di San Tommaso, e dal rapporto «con la splendida "Disputa degli Apostoli" che sta oggi a San Pietroburgo [...] in quei tempi a Mantova», databile intorno al 1625, Andrea Emiliani (1999), ritiene il dipinto in asta «tipico di Simone da Pesaro giunto da poco alle soglie di quello studio famoso che Guido teneva aperto proprio nel Palazzo dei banchi, affacciato su Piazza Maggiore e a ridosso della chiesa della Madonna della Vita».
    Acquistato a trattativa privata a Christie's nel 1998, dopo puntuale restituzione a Cantarini da parte di Denis Mahon, nel 1999 fu concesso in prestito di lungo termine dalla famiglia degli attuali proprietari alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, dove fu esposto fino al 2018 (inv. 10018), nella sala 26, dedicata al Classicismo, insieme ad altri capolavori di Cantarini come il "San Gerolamo che legge" (inv. 43, olio su tela, 117x88 cm, datato 1637-1639) e la pala con la "Madonna in gloria e i Santi Giovanni Evangelista, Eufemia e Nicola da Tolentino" (inv. 435, olio su tela, 244x140 cm, 1632-1634).
    Muovendo dal paragone con una tela in collezione privata raffigurante Sant'Andrea a mezzo busto, nella identica posizione, Massimo Pulini ha proposto di identificare nella tela un'opera incompiuta dell'ultimo Guido Reni, rifinita da Gianandrea Sirani: una lettura che conferma la stretta assonanza stilistica con la produzione matura ed ultima di Guido Reni. «L’Apostolo rivolge gli occhi al cielo, aderendo a una formula votiva che è reniana per eccellenza e tutta la testa, sofficemente spettinata e barbuta, dimostra di essere stata lavorata tanto da Guido quanto da Gianandrea, stessa cosa può dirsi per la mano che tiene segno infilando le dita tra le pagine di un libro. Medesima posa, sviluppata su figura intera, la ritroviamo in un dipinto già noto, ma finora assegnato a Simone Cantarini, proprio sulla spinta di quell’incompiutezza che domina l’opera e che fu caratteristica indipendente del Pesarese. Mi riferisco a un San Girolamo conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, ed è proprio grazie al recente ritrovamento del Sant’Andrea che possiamo comprendere l’analoga duplicità di intervento, quasi un modus operandi di Sirani quando il suo pennello si innesta su un ‘primo movimento’ di Reni» (Pulini 2020).
    In effetti, la ripresa fotografica in ultravioletto, che rende anche più evidente il profilo della gamba nuda, sembra evidenziare un secondo livello di lavorazione del panneggio, che si poggia su una prima stesura più semplice e austera.

  • Edgardo Mannucci (1904 - 1986) 
Idea n .1, 1960
    Lotto 305

    Edgardo Mannucci (1904 - 1986)
    Idea n .1, 1960
    Lamina e filo di ottone, scorie di bronzo fuso, saldature e vetro colorato
    161,3 x 129,2 x 32 cm (scultura e piedistallo)
    Elementi distintivi: etichetta della Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana con riferimento inventariale; etichetta analoga con dati dell'opera, parzialmente leggibile

    Provenienza: lo studio dell'artista; Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana; Veneto Banca SpA in LCA
    Bibliografia: E. Crispolti, a cura di L'Attico, Roma, 1960 (ill.)
    E. Crispolti, "Edgardo Mannucci: sculture 1948-1960", Roma, 1961 (ill)
    E. Crispolti,a cura di, IV Biennale d'Arte del metallo, Gubbio, 1967 (cat. 19)
    "Edgardo Mannucci", Fano, 1970 (ill)
    Jesi, 1974 (ill, con data erronea, 1958)
    E. Crispolti, a cura di, "Materia e spazio: la «poetica» di Mannucci", 1979
    E. Crispolti, "Materia, Energia, Spazio: Edgardo Mannucci, un scultore postatomico", Macerata, 1981, p. 11, p. 99 (ill.)
    V. Volpini, "Mannucci", Fabriano, 1982, tavola f.t.
    G. Di Genova, 1986, p. 384
    E. Crispolti, a cura di, "Edgardo Mannucci. Anni Trenta-Ottanta", Roma, 1991, cat. III A 8, p. 37 (ill.)
    G. Di Genova, 1996, p. 469
    E. Crispolti, a cura di, "Mannucci e il novecento", Cinisello Balsamo, 2005, cat. 110
    Esposizioni: E. Crispolti, a cura di, L'Attico, Roma, 1960
    E. Crispolti, a cura di, IV Biennale d'Arte del metallo, Gubbio, 1967
    Edgardo Mannuci, Rocca Maltestiana, Fano, 1970
    Jesi, 1974
    Valerio Volpini, a cura di, “Mannucci”, Chiostro del Buon Gesù, Fabriano, 1982
    Enrico Crispolti, a cura di, "Edgardo Mannucci. Anni Trenta-Ottanta", Palazzo Braschi, Roma, 7 maggio - 2 giugno 1991

    Stato di conservazione. Supporto: 90%
    Stato di conservazione. Superficie: 90%

    «I piani matericamente differenziati: la configurazione della materia suggerisce tuttavia, già un'interna tensione dinamica, Mannucci tiene cioè a differenziare chiaramente momenti diversi della presenza materica, proprio aggettivando in modo decisamente differenziato piani diversi dell'appoggio materico; già in prove del 1949, come per esempio in "Opera n. 5", 1949, s'avverte la volontà di distinguere i piani librati strutturalmente nello spazio, che tramano quella scultura, secondo loro diversità materiologiche, e cioè piani lisci, piani a graticcio e trame reticolari; ma si veda "Opera n. 2", 1952, che è un "mobile", o ancora Idea n. 1, 1960» (Crispolti 1981, p. 11).

  • Jusepe de Ribera (1591 - 1652) , da
Giacobbe con il gregge di Labano, 1640-1660
    Lotto 306

    Jusepe de Ribera (1591 - 1652) , da
    Giacobbe con il gregge di Labano, 1640-1660
    Olio su tela
    160 x 210 cm
    Provenienza: Christie’s Londra, 1972 (?); W. Apolloni, Roma (1973); collezione privata, Roma
    Bibliografia: Alfonso E. Pérez Sánchez e Nicola Spinosa, a cura di, Jusepe de Ribera (1591-1652), 18 settembre-29 novembre 1992, The Metropolitan Museum of Art, New York, catalogo della mostra, scheda 28, pp. 99-102 (in particolare p. 102)
    Certificati: Fabrizio Apolloni (come “Scuola Napoletana della prima metà del XVII secolo, Bartolomeo Passante, 1614-1656, attr. a”), 10 marzo 1973
    Stato di conservazione. Supporto: 85% (rifodero, telaio sostituito)
    Stato di conservazione. Superficie: 90% (cadute di colore riprese, ridipinture)

    La tela in esame deriva da un dipinto di Jusepe de Ribera, conservato almeno dal 1681 al Monastero di San Lorenzo a El Escorial, nella provincia di Madrid, e datato 1632 (174x219 cm), come ci segnalano Keith Sciberras (comunicazione del 23 giugno 2023) e Nicola Spinosa (comunicazione del 30 maggio 2023). Tale composizione - messa in relazione in letteratura con l’incontro di Ribera con le novità della pittura di Velázquez e Grechetto e straordinariamente bilanciata nella opposizione spaziale, di vuoto e pieno, e cromatica, di chiaro e scuro - ebbe immediata e grande fortuna. Ne sono testimonianza sia la rielaborazione offerta dallo stesso Ribera, con notevoli cambiamenti, nel 1638 in una tela oggi alla National Gallery di Londra (inv. NG244), sia le numerose copie realizzate nel corso del Seicento e nella prima metà del Settecento, molte conservate in ambito museale (per esempio, Knowsley Hall, Liverpool; Museo de San Carlos, Città del Messico; Palazzo del Gran Maestro, La Valletta) ed almeno due apparse nel mercato d’asta, entrambe a Christie’s Londra, una il 9 dicembre 2011 (asta 3475, l. 143: https://www.christies.com/en/lot/lot-5522937) e l'altra, con cui è identificabile il quadro in esame, nel 1972 (cfr. Pérez Sánchez-Spinosa 1992, p.102).
    In linea generale, la tela in esame presenta, rispetto al modello, dimensioni analoghe (salvo la riduzione superiore derivante forse da resezione della tela in fase di restauro), la precisa riproposizione delle forme e la ricercata semplificazione dei dettagli di contro ad una compressione cromatica e della profondità (quest'ultima dovuta, tuttavia, anche al naturale scurimento dei marroni).
    L’osservazione attenta mostra una considerevole differenza di qualità tra l’esecuzione del volto e delle mani di Labano ed il resto (si confrontino, per esempio, i piedi, appena abbozzati), indicando probabilmente la collaborazione di più mani, e l'impronta generale suggerisce una datazione precoce e molto vicina all'originale riberesco, tra il 1640 e il 1660, quando il Maestro era ancora vivo o poco dopo la sua morte.
    Una prima ricerca inventariale negli archivi delle maggiori collezioni napoletane della seconda metà dei Seicento e del Settecento, condotta ipotizzando una migrazione della tela in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo, mostra le seguenti occorrenze:
    - Legato di Gaspare Sangiovanni Toffetti, I-244, p. 6, n. 75 (1 febbraio 1651, Napoli, f.419 “Un Quadro de palmi 9 in circa cornice indorata, con Giacob, che pasceva le sue pecore, copia del Spagnuolo“; 9 palmi = circa 237 cm, probabilmente con cornice)
    - Legato di Gagliano Pompilio, I-242, p. 10, n. 0050 (10 ottobre 1699, Napoli: “ Un Giacobbe con alcune pecore, mano di Gioseppe di Ribera di palmi 6”; 6 palmi = circa 158 cm, verosimilmente con riguardo all’altezza)
    - Legato di Gaetano de Blasio, I-722, p. 18, n. 0007 (17 agosto 1737, Napoli, f.I allegato “Cinque Quadri di 6 ed 8. Uno di Giuseppe ribera detto Lo Spagnoletto con Giacobbe, che guarda le pecore. (...) con cornice di varie maniere indorate” 6 e 8 palmi = circa 158x210 cm)
    - Legato di Giuseppe Maria della Leonessa, Principe di Supino, I-254, p. 12, n. 0105 (30 marzo 1772, Napoli, “f.10 Un Giobbe di lunghezza palmi 7 1/2, altezza palmi 6 autore Giuseppe di Ribera detto lo Spagnoletto”; 7 1/2 palmi = circa 195 cm).

    Ringraziamo i Professori Nicola Spinosa e Keith Sciberras, per il supporto dato nella catalogazione dell'opera.

  •  Verona. Prima metà del XVII secolo (1600 - 1650) 
Testa d'uomo
    Lotto 307

    Verona. Prima metà del XVII secolo (1600 - 1650)
    Testa d'uomo
    Olio su carta applicata su tavola
    39,5 x 26 cm
    Altre iscrizioni: numero di inventario "74" al recto
    Elementi distintivi: al recto, una etichetta con riferimento di inventario ("74")
    Stato di conservazione. Supporto: 80%
    Stato di conservazione. Superficie: 80% (integrazioni e ritocchi)

    Il dipinto, ad olio su carta, è di difficile collocazione, ma per più elementi richiama la pittura tra Bologna e Verona, nella prima metà del XVII secolo. Daniele Benati, ad un esame su base fotografica, esclude che il foglio possa essere ricondotto ai Carracci, ma coglie una assonanza, poi abbandonata, con Fra' Semplice da Verona (comunicazione del 24 luglio 2023).
    Nel solco di questa suggestione, pare di riconoscere una similitudine anche con un altro autore veronese, Pasquale Ottino (1578-1630), di cui è comparabile, per esempio, il "Ritratto di monaco olivetano", datato al 1610 e conservato al Museo di Castelvecchio, Verona. Si notino in particolare le pennellate veloci e parallele che definiscono i baffi e le labbra, le palpebre che sovrabbondano, la importante narice esterna, la tendenza alla geometrizzazione della fisionomia.

    Ringraziamo il Prof. Daniele Benati per il supporto dato alla schedatura dell'opera.

  • Caspar van Wittel, Vanvitelli (1653 - 1736) 
Veduta di Verona, l’Adige a San Giorgio in Braida, 1710-1720 ca.
    Lotto 309

    Caspar van Wittel, Vanvitelli (1653 - 1736)
    Veduta di Verona, l’Adige a San Giorgio in Braida, 1710-1720 ca.
    Olio su rame
    37,6 x 41,5 cm
    Firma: «CASPAR VAN WITTEL» su un masso in basso a sinistra
    Elementi distintivi: al verso, al centro, capovolto in inchiostro rosso «8174»; in alto a destra, in gesso bianco «OMP» e al centro "4"; scritta in corsivo di difficile interpretazione seguita da un «8»
    Provenienza: Sestieri, Roma; Collezione privata, Roma; mercato antiquario, Londra; Sotheby’s, London, 07.12.2005, l. 57 (€ 756.389); collezione privata, Londra
    Bibliografia: G. Briganti, "Gaspar van Wittel e l’origine della veduta settecentesca", Roma, 1966, p. 243, cat. 185 ill. (con supporto e dimensioni erronee); G. Briganti, "Gaspar van Wittel", a cura di L. Laureati e L. Trezzani, Milano, 1996, p. 251 cat. 323, ill. (con supporto e dimensioni erronee); G. Marini, in G. Marini a cura di, "Bernardo Bellotto un ritorno a Verona. L’immagine della città nel Settecento", catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio), Venezia, 2002, pp. 18-20 (con supporto erroneo), ill. p. 19; L. Laureati, in L. Laureati e L. Trezzani, a cura di, "Gaspare Vanvitelli e le origini del vedutismo", catalogo della mostra (Roma, Chiostro del Bramante), Roma, 2003, p. 196.
    Vincoli: l'opera è in importazione temporanea in Italia.Stato di conservazione. Supporto: 90% (lievi deformazioni e alterazioni agli angoli, in particolare nella parte destra)
    Stato di conservazione. Superficie: 90% (sporadici ritocchi a seguito di cadute e consunzione di colore, specialmente nel cielo e ai margini)

    Come ricorda Laura Laureati in un magistrale studio del 2005 su quest'opera, «Cinque, compresa questa, sono le vedute di Verona di Gaspar van Wittel (due su tela, due su rame e una su tavola), tutte diverse tra loro e tutte derivate da un unico disegno preparatorio del pittore conservato alla Biblioteca Nazionale di Roma (Briganti 1996, pp. 251-252 nn. 322-325 e pp. 407- 408 e 410 n. D344; "Bernardo Bellotto" 2002, pp. 40-43 nn.1-2; "Gaspare Vanvitelli e le origini del vedutismo", catalogo delle opere a cura di L. Laureati e L. Trezzani, Roma 2002, pp. 196-197 n. 63 scheda di Laura Laureati). Stranamente sono tutte e cinque datate, o databili, tra il primo e il secondo decennio del Settecento come se Gaspar van Wittel che pure in terra veneta doveva aver soggiornato fin dal 1694-95, in occasione del viaggio a Venezia, avesse atteso almeno un decennio per sviluppare quel disegno che probabilmente aveva già eseguito fin da allora. Il disegno preparatorio quadrettato, conservato, come tutto quell’importante nucleo di studi vanvitelliani, alla Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma, risale, quasi certamente, all’ultimo decennio del Seicento. Rispetto ai dipinti presenta una visione più ristretta del luogo raffigurato. Sul lato sinistro è tagliato all’altezza della cupola di San Giorgio in Braida e inoltre la veduta dell’Adige si interrompe sul davanti, laddove è ancorato il mulino galleggiante. Lo studio omette cioè tutto il primo piano a sinistra, la strada che parte dalle mura scaligere, prosegue fino alla casa affiancata dal bel portale d’ingresso che apre su un giardino alberato e si conclude con il muro di cinta della stessa proprietà. Possiamo quindi supporre che dal fondo fino al mulino la veduta, già tracciata dal pittore nel disegno preparatorio, sia reale e che il primo piano con il viale fiancheggiato dal muraglione sia invece frutto dell’invenzione vanvitelliana e della volontà di costruire una composizione pittoricamente equilibrata, un espediente questo frequente nell’opera del maestro olandese. Di diversa opinione è Flavia Pesci che, nella scheda di catalogo della recente mostra delle vedute veronesi di Bellotto ed altri artisti, a proposito della "Veduta di Verona" di Gaspar van Wittel conservata nella Galleria Palatina di Firenze, scrive che l’esistenza della casa a portale bugnato è confermata, in linea generale, da un gruppo di edifici documentati in stampe topografiche della città (in Bernardo Bellotto.. 2002, p.42).»
    Questa «Veduta di Verona di Gaspar van Wittel» - sottolinea la studiosa - è «documento fondamentale per un’ideale ricostruzione dell’aspetto originario della cinta delle mura, costruite da Cangrande della Scala, e precisamente per quel tratto che va dal bastione delle Boccare al bastione di San Giorgio, tratto demolito dagli austriaci alla fine dell’Ottocento. La Veduta è presa da un punto poco più a monte dell’attuale ponte Garibaldi, sulla riva sinistra dell’Adige, guardando verso oriente. Si notano, sulla sinistra, l’ultimo tratto delle mura scaligere e le due torri della porta San Giorgio che è nascosta dietro gli alberi che ombreggiavano lo spazio fuori dalle mura della città. Dietro i bastioni compare la parte superiore della facciata di San Giorgio in Braida con la cupola del Sammicheli e l’imponente annesso monastero quattrocentesco che si affaccia lungo il fiume, presente nella veduta vanvitelliana e demolito, a più riprese, nel 1816 e nel 1837. Al di là della cinta muraria si intravede, posto trasversalmente rispetto alla facciata di San Giorgio, il corpo e il campanile della perduta chiesetta del Cristo, ampliata nel Seicento con un oratorio per ospitare la Confraternita della Disciplina e distrutta nel 1832-33. Al centro, dopo il bastione delle Boccare, si vede il proseguimento delle mura che s’inerpicano su per il colle e limitano quella parte della città, sulla riva sinistra del fiume. Sul colle, a destra, compaiono le torri e le mura del castello visconteo demolito dai francesi nel 1801 e, all’estrema destra, sulla riva opposta, il corpo laterale della fabbrica del Duomo. Il mulino galleggiante sull’Adige, al centro del dipinto è preso dal vero, come mostra anche il disegno preparatorio, e appartiene a quel gruppo di mulini che caratterizzavano il paesaggio fluviale veronese fino all’inizio del Novecento. Puntuale, come scrive Flava Pesci, è... la descrizione della sequenza del tratto di case in destra d’Adige e del punto di approdo per il battello all’altezza del duomo...utilizzato almeno fino all’Ottocento inoltrato, ricordato oggi dal toponimo di riva Battello presso il ponte Garibaldi (in Bernardo Bellotto.. 2002, p. 42).»
    «Gaspar van Wittel dipinge Verona come se ritraesse Roma, la sua Roma e un tratto del Tevere. L’Adige popolato da barche e mulini, abitato da gentiluomini e popolani seduti su rocchi di colonna e frammenti lapidei di antichi edifici, potrebbe facilmente confondersi con un’ansa del Tevere, all’altezza di San Giovanni dei Fiorentini o di Castel Sant’Angelo. La vita della città lungo il fiume doveva senz’altro affascinare un pittore olandese come Gaspar van Wittel che quegli aspetti li conosceva bene e proprio su quelle immagini “acquatiche” si era, probabilmente, formato guardando, tra gli altri, i dipinti di un altro olandese, Gerrit Berkheide, che di Amsterdam amava raffigurare proprio la vita lungo i canali».
    A questo proposito, svolge una acuta osservazione Giorgio Marini, ricordando come «le versioni dipinte sono accomunate da una luce chiara mattutina che equilibra la natura e la veduta urbana ancora secondo matrici del paesaggismo "eroico" del Seicento romano. E un ricordo romano può essere anche l'inserto, arbitrario, della quinta architettonica a sinistra in primo piano, col portale in bugnato e il grande pino a ombrello, presente in tutte le redazioni. [...] la qualità pittorica risulta sempre molto elevata, come conferma anche una redazione su tela [rectius, su rame, si tratta della versione oggi in asta] firmata dall'artista dove oggi in collezione privata, dove con inusitato taglio costruttivo l'inquadratura lascia più della metà del campo a un cielo apertissimo. Piuttosto che ripetizioni seriali, le molteplici versioni, ognuna in qualche modo diversificata nell'impianto luministico o nell'inserto delle macchiette, attestano invece un allargata richiesta collezionistica di questo felice scorcio fluviale veronese. Ripresa con la visuale attenta del topografo, la veduta documenta il ruolo vitale dell'ampia via d'acqua in corrispondenza di un accesso alla città da nord e presso il punto di approdo di un battello che traversava il fiume all'altezza del duomo - ancora ricordato oltre un secolo dopo nei taccuini di Pietro Ronzoni - e il fervore dei traffici di barcaioli, pescatori, trasportatori, lavandaie e mugnai. Essa conferma il merito fondamentale di Van Wittel nell'aver ampliato, nei suoi viaggi per la penisola, il repertorio dell'Italia da vedere e da ritrarre: segno evidente di un radicale mutamento delle abitudini visive verso forme di più razionale applicazione e nel formarsi di un più promettente mercato - ma, ahimè, non ancora a Verona - per i pittori di vedute» (Marini 2002, p. 18).
    Così come Giorgio Marini, Laura Laureati segnala per la "Veduta di Verona" in asta una datazione tra il primo e il secondo decennio del Settecento: «Nonostante l’uso di questo supporto non sia frequente nell’opera dell’artista olandese, curiosamente, proprio della veduta di Verona esiste anche un’altra versione su rame, datata 1719, all’incirca delle stesse dimensioni di questa, ma diversa sia nel formato che nella scelta delle figure. A proposito dell’uso vanvitelliano di questo prezioso supporto dobbiamo ricordare che, nel 1844, nella collezione napoletana dei principi Caracciolo d’Avellino si trovavano ben nove vedute di Gaspar van Wittel su rame (tre di Roma, due di Napoli, due di Firenze, e due di Venezia) che oggi abbiamo quasi interamente identificato (Laura Laureati, Note sul collezionismo vanvitelliano, in Giuliano Briganti 1996, p.13)».
    La scheda è in larga parte estratta dallo studio dedicato da Laura Laureati all'opera nel 2005, nel quale la studiosa corregge e integra anche la bibliografia esistente che riporta l'opera come su tela e di dimensioni 50x40 cm, ripetendo a cascata un errore di catalogazione occorso nel volume di Briganti del 1966 ("Gaspar van Wittel e l’origine della veduta settecentesca", Roma 1966, p.243 n.185), tempo in cui il dipinto era conosciuto soltanto attraverso una foto in bianco e nero ancora conservata nell'archivio Briganti-Laureati.

    La Professoressa Laureati, che ringraziamo per il prezioso supporto, ha riconfermato i contenuti dello studio con comunicazione del 25 ottobre 2023.

  • Lino Bianchi Barriviera (1906 - 1985) 
Lalibelà. Medani Alem
    Lotto 311

    Lino Bianchi Barriviera (1906 - 1985)
    Lalibelà. Medani Alem
    Inchiostro su carta
    46 x 49 cm
    Altre iscrizioni: “Lalibelà. Medani Alem” al recto
    Provenienza: Veneto Banca SpA in LCA
    Bibliografia: Silvia Bianchi con Francesca Ghersetti, a cura di, “Paesaggi Africani, 1937-1939. Disegni e incisioni di Lino Bianchi Barriviera”, Treviso, 2010, cat. 77, p. 75 (ill.)
    Esposizioni: Silvia Bianchi con Francesca Ghersetti, a cura di, “Paesaggi Africani, 1937-1939. Disegni e incisioni di Lino Bianchi Barriviera”, Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso, 13 febbraio – 4 aprile 2010

    Stato di conservazione. Supporto: 95%
    Stato di conservazione. Superficie: 95%

    L'opera, studio per l'incisione di eguale soggetto (“Paesaggi Africani, 1937-1939. Disegni e incisioni di Lino Bianchi Barriviera”, cat. 78), appartiene al nucleo di opere grafiche - incisioni e disegni - realizzate da Bianchi Barriviera durante la sua permanenza in Libia e nell'Africa Orientale Italiana, tra il 1937 e il 1939. Come ricorda Silvia Bianchi, nella introduzione alla mostra monografica tenuta a Treviso nel 2010 (pp. 6-8), "I disegni e le incisioni africane costituiscono una presenza importante nella vasta opera grafica di Lino Bianchi Barriviera - un artista che nella scelta dei soggetti ha sempre prediletto la veduta e il paesaggio - sia per il loro inconfutabile pregio artistico sia in quanto testimonianza di un capitolo fondamentale nell'esperienza di vita del maestro (...) un vero e proprio diario di viaggio". "Bianchi Barriviera si era recato una prima volta in Libia nel 1927 al termine degli studi superiori, dopo aver conseguito il diploma di perito e ragioniere commerciale". "Nella primavera del 1937 Bianchi Barriviera effettuò una seconda, più lunga, escursione in Libia spingendosi nell'interno, lungo la fascia occidentale della Tripolitania al confine con la Tunisia, sino alla città-oasi di Gadàmes alle soglie del deserto, quindi lungo la costa fino al sito archeologico di Leptis Magna. Da questo viaggio riportò un gruppo di disegni, alcuni più finiti, altri più nudi e schematici, fatti esclusivamente per essere tradotti in acquaforte, dai quali al ritorno ricavò una cartella di tredici incisioni condotte con raffinata e sapiente tecnica, dedicata al governatore di Libia, Italo Balbo, che aveva favorito e sostenuto il progetto. Nel dicembre del 1938, dietro invito del duca d'Aosta, viceré d'Etiopia, l'artista si recò nell'Africa Orientale Italiana dove fino al luglio del 1939 percorse l'Eritrea dalla costa sul mar Rosso fino alle regioni dell'interno al confine col Sudan, e parte dell'Etiopia giungendo ad Addis Abeba". "Dal viaggio nell'Africa Orientale l'artista riportò oltre trecento disegni e una trentina di rami incisi: i disegni per la maggior parte condotti a fondo, fine a se stessi, le lastre incise direttamente sul posto con la punta sulla matrice incerata e trattate con la morsura all'acquaforte in occasione del ritorno alla base provvisoria. In queste opere si avvicendano esattezza descrittiva e concisione interpretativa: vi sono puntuali descrizioni di monumenti, di villaggi tipici a volte animati dalla presenza degli indigeni e vi sono paesaggi sconfinati dove tutto è riassunto in sintesi che paiono non indagare, non indugiare nella ricerca di particolari per aumentare il mistero e la vastità del paese". "Tra le prime mostre che hanno ospitato opere africane di Bianchi Barriviera vanno ricordate la XXI Biennale di Venezia del 1938, la mostra personale allestita dall'artista stesso ad Asmara nel giugno 1939, la III Quadriennale di Roma del 1939, la Prima Mostra Triennale d'Oltremare di Napoli del 1940, la XXII Biennale di Venezia del 1940, la XXIX mostra della Galleria di Roma del 1942".

  • Federico Zandomeneghi (1841 - 1917) 
Al bagno
    Lotto 312

    Federico Zandomeneghi (1841 - 1917)
    Al bagno
    Pastelli e carboncino su carta applicata su tela
    55,1 x 46,1 cm
    Firma: al recto a pastello “Zandomeneghi”
    Elementi distintivi: sul retro del telaio etichetta della galleria d’arte Edmondo Sacerdoti (Milano) e seconda etichetta anonima con riferimento a Zandomeneghi e numeri di inventario e forse posizione; stampigliatura con numero “10”. Sul verso della tela lettera “P”.
    Provenienza: collezione privata, Parigi; collezione Luigi Bordoli, Milano; Galleria d’Arte Edmondo Sacerdoti, Milano; collezione privata, Milano; Porro & C. (Milano, 30.10.2007, lotto 73, € 28.000); collezione privata, Motta di Livenza; Veneto Banca SpA in LCA
    Bibliografia: Dipinti dell’Ottocento, catalogo della mostra, Milano, 1953, tav. 10 (ill.); Enrico Piceni, Zandomeneghi. Catalogo ragionato dell’opera, Milano, 1967, s. p. n. 56 (ill.); Enrico Piceni, Zandomeneghi, 1990 s. p. n. 56 (ill.); Fondazione Enrico Piceni, Federico Zandomeneghi. Catalogo Generale. Nuova edizione aggiornata e ampliata, Milano, 2006, p. 333, tav. 623 (ill.)
    Esposizioni: Dipinti dell’Ottocento, Galleria Carini, Milano ottobre 1953
    Stato di conservazione. Supporto: 80% (rifodero, lacerazioni ricomposte; importanti danni alla cornice)
    Stato di conservazione. Superficie: 85%

    Figlio d’arte, il padre e il nonno erano scultori neoclassici, la formazione di Federico Zandomeneghi (Venezia 1841- Parigi 1917) avvenne tra la natia Venezia e Firenze, dove giunse nel 1862 e restò per cinque anni venendo a contatto con i Macchiaioli, e poi ancora a Roma prima di rientrare a Venezia. Partito improvvisamente l’1 giugno 1874 per Parigi non fece mai più ritorno in Italia. Nella capitale francese divenne assiduo del Caffè Nouvelle Athènes, locale frequentato dagli artisti più all’avanguardia, nonché del salotto di Giuseppe De Nittis. Strinse amicizia con Pisarro e Degas e conobbe Manet e il critico Louis Edmond Duranty, fino ad esporre nel 1879 per la prima volta con il gruppo degli impressionisti, mettendo a frutto quanto appreso negli anni delle ricerche macchiaiole e preservando così, come osservato da Francesca Dini (Per il centenario di Zandomeneghi (Venezia 1841 - Parigi 1917), in L’impressionismo di Zandomeneghi, Venezia 2016, pp. 23-35, p. 27), la propria identità linguistica pur nella programmatica adesione al movimento impressionista. La sua produzione conobbe un vertiginoso incremento dopo il 1894, quando si legò con il mercante Durand-Ruel. Temi predominanti per oltre un decennio sono le piazze parigine, scene di vita cittadina e soprattutto la figura femminile in interno o immersa nella natura come nel caso dell’opera in esame, realizzata a pastello, la tecnica attraverso cui l’artista dava forma alle immagini rese con il «rispetto per la forma, la nitida chiusura del contorno», che «rendono possibile quel tratto un po’ spezzato, divisionistico, della pennellata o del pastello e che sostituiscono al fluido scorrere della materia pittorica una più frizzante ricerca tonale», più vicina a Rosalba Carriera che a Degas, a Pietro Longhi che a Renoir, «alla classicità senza orpelli […] d’un Silvestro Lega o d’un Giovanni Fattori» (Enrico Piceni. Federico Zandomeneghi, in Fondazione Enrico Piceni, Federico Zandomeneghi. Catalogo generale. Nuova edizione aggiornata e ampliata, Milano, 2006, pp. 23-40, p. 29). Proprio un’eleganza settecentesca, a cui appare chiaramente ispirata la scelta della gamma cromatica giocata sui gialli e gli azzurri, traspira da questo elegante nudo femminile accovacciato accanto allo specchio d’acqua di una fontana immersa nel verde di un parco. I contorni delineati della figura e del bordo della fontana contrastano con la vegetazione e l’acqua resi con un segno divisionista, steso con meticolosa precisione in cui a linea parallela fa da contrappunto linea obliqua e a colori caldi fanno da contrappunto colori freddi.

    Teresa Sacchi Lodispoto

  • Tommaso Porta (1686 - 1768) 
Paesaggio fluviale con arco roccioso, 1755 circa
    Lotto 313

    Tommaso Porta (1686 - 1768)
    Paesaggio fluviale con arco roccioso, 1755 circa
    Olio su tela
    95 x 120 cm
    Elementi distintivi: al verso, cartellino incastrato tra tela e asse inferiore, «TOMMASO PORTA (1686-1766) ...»
    Provenienza: Collezione privata
    Bibliografia: F. Spadotto, "Paesaggisti veneti del '700", Rovigo 2014, p. 220, ill. 334
    Stato di conservazione. Supporto: 85% (reintelo)
    Stato di conservazione. Superficie: 85% (cadute di colore e ritocchi limitati)

    Allievo di Pieter Mulier detto il Tempesta (1637-1701), Tommaso Porta, detto anche il Bresciano, è tra i principali vedutisti veneti "d'entroterra" del settecento, produzione che affianca a quella di tema religioso, soprattutto scene dal Vecchio Testamento, ben rappresentata in Musei e Chiese.
    Scarne sono le notizie sulla sua vita e rastremato il catalogo. Nativo di Brescia, si trasferisce a Verona entro il 1718, anno in cui sposa Elisabetta Tranquillini in una chiesa della città scaligera, dedicata ai Santi Quirico e Giulitta, soppressa nel 1846. Qui il pittore seppe mettere a frutto il proprio talento diventando presto un prolifico e celebre paesaggista, genere decorativo particolarmente apprezzato dalla committenza locale. Prendendo le mosse dalla esperienza di Giuseppe Zais e Sebastiano Ricci, ma con occhio attento anche ad Antonio Joli e Luca Carlevarijs, Porta dipinge paesaggi arcadici, giocati sui toni del verde e del marrone, a restituire un effetto complessivo di gradevole pacatezza su cui innesta bianchi e rossi accesi, guarniti di particolari come casolari turriti, armenti accompagnati da pastori da pastorelle e da viandanti, boschetti, uomini che cacciano l'orso o che si divertono a giocare a palla, borghi e antichi edifici, contadini in sosta in riva a un lago, ponti lanciati attraverso fiumiciattoli, sullo sfondo azzurrino delle Prealpi. È stato anche fortunato frescante di pareti e soffitti di settecentesche ville e palazzi veneti, tra cui Villa Trissino Marzotto a Trissino, Villa Pompei Carlotti ad Illasi, Villa Pellegrini Marioni Pullè a Chievo e il Palazzo Serpini Salvetti Paletta Dai Pre a Verona.
    La "Veduta" in asta è esemplare rispetto alla produzione paesistica del Porta ed appare nella selezione - di nove tele soltanto - operata da Federica Spadotto per il volume "Paesaggisti veneti del '700" (2014, p. 220, ill. 334). La studiosa lega il dipinto ad un gruppo caratterizzato da «grandi alberi composti da due tronchi affiancati con le chiome disomogenee, i personaggi sinuosi, gli ampi sfondi dilatati che ospitano spesso vedute urbane connotanti l'hic et nunc e si avvicendano su cieli di volta in volta sempre più luminosi: unici indicatori di una cronologia tutt'oggi molto delicata da definire» (Spadotto 2014, p. 212).
    Anche Paola Betti, specialista del Porta, conferma l’autografia del pittore bresciano, «artista assai ineffabile»: «il trattamento del paesaggio e degli effetti atmosferici collima con quanto si riscontra nelle sue opere certe, al momento molto scarse. Le figurine rese con velocità e tratto approssimativo (...) sono invece prossime a quelle visibili nei dipinti della Narodna Galerija di Lubiana» (comunicazione del 26.10.2023). Tra queste, tre presentano al verso la firma dell'artista e la data "1755", offrendo, quindi, anche un sicuro riferimento per la datazione della tela in asta alla età avanzata dell'artista ormai settantenne: il che testimonia per un verso la longevità del successo sociale di Porta - al solo considerare che appunto la datazione è offerta da un compatto nucleo museale - e per l'altro i classici tratti pittorici di una mano esperta e anziana.

    Ringraziamo la Professoressa Paola Betti per il prezioso supporto nella catalogazione dell'opera.

  • Andrea Casali (1705 - 1784) , attribuito a
Madonna con Bambino (da Guido Reni)
    Lotto 314

    Andrea Casali (1705 - 1784) , attribuito a
    Madonna con Bambino (da Guido Reni)
    Olio su rame
    23,7 x 31,5 cm
    Elementi distintivi: sul retro della cornice una scritta "4415" (?); al verso del rame nastro adesivo con appuntato il nome dell'autore ("Andrea Casali")
    Stato di conservazione. Supporto: 90%
    Stato di conservazione. Superficie: 80% (ritocchi, anche sul volto del Bambino e sul tendaggio)

    Di origini romane, Andrea Casali ha mosso i primi passi presso la bottega di Sebastiano Conca, riuscendo a entrare, dopo le prime commissioni pubbliche tra Roma e Rieti, all’interno del prestigioso cenacolo artistico del cardinal Ottoboni, dove divenne allievo di Francesco Trevisani. La fama di Casali lo porterà a inserirsi nel panorama internazionale, realizzando opere per il Palazzo Reale di Madrid e l’Accademia Albertina di Torino, e ad affinare il proprio stile anche con soggiorni a Parigi e Londra. Qui ebbe modo di sviluppare generi diversi tra loro, come temi sacri, storico-mitologico e la ritrattistica.
    Grande è stata la fortuna della celebre e “perfetta” iconografia di questa Madonna che adora il Bambino, conosciuta anche come “Madonna del sonno”.
    Il soggetto è stato in origine ideato da Guido Reni, di cui è nota una versione conservata a Roma presso la Galleria Doria Pamphilij (inv. 288) e successivamente replicato, con varianti, numerose volte dal Sassoferrato (A. Bardelli, scheda in "Il Sassoferrato: la devota bellezza: con i disegni della Collezione Reale Britannica", a cura di F. Macé de Lépinay, Cinisello Balsamo 2017, pp. 234-235 cat. 53, p. 273).
    L’enorme successo e interesse nei confronti di questo tema sacro, profondo sul piano esistenziale e al contempo intimo nella sua domestica serenità, continua a distanza di un secolo dalla sua creazione, nel corso del Settecento, come testimonia proprio il raro rame in asta.
    Massimo Francucci, che conosce l’opera già da tempo, ne conferma l’attribuzione ad Andrea Casali (comunicazione del 27 settembre 2023). Di diverso avviso Angela Negro che, esaminata l'opera attraverso una riproduzione in alta definizione, ne rileva il "sicuro ascendente trevisanesco", ma non ne condivide l’attribuzione (comunicazione del 26 settembre 2023).

    Ringraziamo i dottori Massimo Francucci e Angela Negro per il prezioso supporto nella schedatura dell’opera.

Lotti dal 1 al 24 di 82
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LA GIOIA A COLORI. VENETO BANCA ATTO II - I CAPOLAVORI

È, questa sezione, ad un tempo un viaggio di cinque secoli nell’arte europea e la parte terza e fondamentale dell’asta "La Gioia a Colori. Meraviglie Atto II", una strepitosa vendita con opere in parte dal patrimonio di Veneto Banca, in parte da altre prestigiose provenienze.

Si compone di 100 lotti qui sotto catalogati, tra i quali alcuni capolavori, come la inedita pala di Guido Reni, raffigurante “San Francesco in meditazione”, la straordinaria “Veduta di Verona” di Vanvitelli – documento non solo artistico, ma anche topografico sulla “forma urbis” di Verona nei primi anni del XVIII secolo –, una “Allegoria della Giustizia e della Pace” tra i capolavori di Antiveduto Gramatica (connesso negli studi alle collezioni sabaude), ben due opere di Carlo Saraceni, entrambe in bibliografia come prototipi di invenzioni tra le più fortunate del primo caravaggismo. E ancora, due capolavori di Luigi Nono, tra cui il dipinto già record mondiale d’asta per l’artista (“Il bambino malato”); e poi Favretto, ben tre opere presentate da Ettore Tito alla Biennale di Venezia, Cabianca (artista fresco del risultato prossimo al milione di euro ottenuto da pochi mesi a Sotheby’s Londra), il record mondiale d’asta di Raffaello Sorbi (“I musicanti”), una selezione museale di opere della famiglia Ciardi, compresa la strepitosa “Aratura dei campi” di Guglielmo, con varianti sul paesaggio di Venezia e della Terraferma vista sia da grandturisti come l’inglese William Henry Haines sia da virtuosi del pennello, come Rubens Santoro (di cui compare una strepitosa veduta dello “Squero di San Trovaso”) e del disegno come Toulouse-Lautrec e Federico Zandomeneghi (con una sensuale e aggiornata rappresentazione della Venere al bagno). E poi una selezione di opere di Mancini, tra cui forse la più bella tela della serie “Al mio Signore” ed un ritratto di cui si erano a lungo perse le tracce, dell’esploratore Guido Boggiani. Ci si muove, tra carte, tavole e tele, dal Quattrocento e Cinquecento veneto (Rocco Marconi, i Vivarini, Domenico Morone, Palma il Giovane, sulla linea di Mantegna, Bellini, Giorgione, Tiziano) al Cinque e Seicento Lombardo (Maineri), toscano (Michele di Ridolfo del Ghirlandaio, Marinari), romano (Trevisani, con un’altra versione dello “Autoritratto” agli Uffizi), bolognese (Carracci, Cantarini). Poi, nuovamente si approfondisce il ‘700 e ‘800 Veneto, con un rarissimo rame del veronese Agostino Ugolini, le magnifiche scene di vita di Milesi e Bordignon.

Non mancano dipinti anonimi, anche di ambito tizianesco e caravaggesco e di strepitosa qualità, tra cui una teletta dalla Collezione di Edouard Safarik, che la attribuiva ad una rarissima artista, Marietta, la figlia di Tintoretto – oggi al centro della ricerca accademica sulla pittura al femminile – ed una seconda tela di piccole dimensioni, opera romana, di confine tra Francia e Italia, come fu la misteriosa personalità del Pensionante del Saraceni, ed altre opere che richiamano alla memoria il mondo di Dosso Dossi, Girolamo da Carpi, Fra’ Semplice da Verona.

Volgendo lo sguardo al Novecento, ecco la Parigi affettuosa di Maurice Utrillo, il revival neo settecentesco di Federigo Andreotti, Damien Hirst con uno “Spot painting” di grande formato (175×160 cm), Shōzō Shimamoto, con una delle sue tele più iconiche dell’ultima produzione, due Mattia Moreni provenienti da una collezione storica, due straordinarie sculture di Edgardo Mannucci, degli anni Sessanta e Settanta, monumento dell’arte al confronto con l’apocalisse nucleare; Lucio Fontana con una carta che ha la stessa potenza spaziale delle sue tele; Anton Zoran Music con i suoi pensieri sulle notti istriane; ed ancora la giocosità di Baj, la armonia di Julio Le Parc, la sculture di Maurizio D’Agostini ispirata a Holst, le geometrie di Uncini, la ritrattistica di Guttuso e i giochi enigmistici di Tadini, la vitalità di Morlotti e Schifano, le sperimentazioni tra lettere e immagini di Enrico Benetta.


Il catalogo è disponibile in versione pdf leggera e cartacea tramite le icone a lato. Se si desidera il catalogo pdf in alta risoluzione, usare il link https://goforarts.com/doc/VB_IT_2_2/Meraviglie_Atto_II_HR.pdf.

*** Il catalogo pdf contiene anche opere di cui non è autorizzata la pubblicazione sui motori di ricerca ***

Sessioni

  • 29 febbraio 2024 ore 18:00 Sessione unica (279 - 379)

Esposizione

Presso la sede di Bonino in Vicenza (Via Vecchia Ferriera 70), su appuntamento da prendere alla email matteo.smolizza@bonino.us

Pagamenti e Spedizioni

I lotti devono essere ritirati a cura ed onere dell'acquirente presso la sede di esposizione, previo appuntamento da prendersi scrivendo a matteo.smolizza@bonino.us

Condizioni di vendita

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Commissioni

per la parte del prezzo di aggiudicazione da € 0 fino a € 50.000, 26,64% + IVA;

per la parte del prezzo di aggiudicazione da € 50.000 fino a € 1.600.000, 23,37% + IVA;

per la parte del prezzo di aggiudicazione oltre € 1.600.000, 16,80% + IVA

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Per partecipare all'asta è necessario comunicare alla casa d'aste:

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Per assistenza, telefonare al 346 12 999 80.

Rilanci

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  • da 400000 a 800000 rilancio di 40000
  • da 800000 a 1000000 rilancio di 50000
  • da 1000000 in avanti rilancio di 75000