ASTA 256 - DIPINTI E DISEGNI DAL XIV AL XIX SECOLO Con una selezione di sculture e cornici
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Lotto 194 JEAN-VICTOR BERTIN (Parigi, 1767 - 1842), ATTRIBUITO
a) Paesaggio con lavandaia, armenti, corso d'acqua e fattoria con voliera sullo sfondo; b) Paesaggio con lavandaie, pastori e fattoria con voliera sullo sfondo. Coppia di dipinti
Olio su tela, cm. 34,5x45,5. Con cornice, cad. -
Lotto 195 FRANCESCO MANCINI (Sant'Angelo in Vado, 1679 - Roma, 1758)
La Castità che fustiga Amore
Olio su tela, cm. 131x99. Con cornice
Il dipinto reca firma a pennello in basso a destra: "F. MANCINI".
Questo bel dipinto costituisce una prova eloquente del raffinato bagaglio tecnico e della vasta cultura figurativa di Francesco Mancini. In questa felice composizione allegorica si intrecciano, infatti, elementi legati alla grnde tradizione bolognese (Reni, Franceschini e soprattutto il suo maestro Carlo Cignani) con le recenti tendenze della pittura romana (da Maratti a Trevisani da Luti a Conca). Ammiriamo in questa tela le brillanti qualità di colorista e di paesaggista di Mancini, nonché la sua alta padronanza degli effetti di panneggio. La plastica classicità del gruppo delle due figure, la purezza degli incarnati, la delicatezza della corona di gigli che cinge la testa della figura allegorica ci ricordano il ruolo esemplare che su Mancini avrebbe duraturamente esercitato l'esempio della pittura di Cignani.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma. -
Lotto 196 FRANCESCO FOSCHI (Ancona, 1710 - Roma, 1780)
Paesaggio invernale con viandante e ponte sullo sfondo
Olio su tela, cm. 61,5x72. Con cornice
L’anconetano Francesco Foschi fu il maggiore interprete in Italia del genere spiccatamente nordico del Paesaggio invernale. I suoi scenari innevati punteggiati di alberi spogli, rustici caseggiati, scarni borghi montani, laghi ghiacciati e radi viandanti sono intrisi di un intenso lirismo e di una visione malinconica della natura che si può ben definire pre-romantica. Il repertorio figurativo di Foschi si compone di pochi ingredienti che ricorrono quasi serialmente, senza che ciò determini, peraltro, un affievolirsi dell’espressione in senso puramente ripetitivo o uno scadere a maniera della sua vena poetica. La tela che qui si presenta esemplifica al più alto grado le qualità di paesaggista e l’estrema sapienza coloristica di Foschi, virtù qui esaltate dall’ammirevole essenzialità e limpidezza della composizione, con quell’unica figura al centro di un crocevia di sentieri, che s’incammina verso una meta misteriosa immerso in una natura grandiosa e inospitale. La nostra tela può essere utilmente confrontata con opere di Foschi come i Viaggiatori lungo la sponda di un lago, già in collezione Fritz Heinemann (Vinci-Corsini, n. 32, p. 51), la Veduta di un cottage da una grotta (Ibid., n. 34, p. 53), Paesaggio con stazione di posta e osteria del Musée des Beaux-arts di Lille (Ibid.,n. 109, p. 114).
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma. -
Lotto 197 FILIPPO LAURI (Roma, 1623 - 1694) E LOUIS COUSIN (Brussels, 1606 ca. - 1667 ca.)
Ercole saetta Nesso
Olio su tela, cm. 51,5x79. Con cornice
Questa interessante tela, che raffigura un episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (IX, 101-133) ovvero l’uccisione del centauro Nesso per mano di Ercole, è stata riconosciuta da Giancarlo Sestieri come opera a due mani eseguita da Filippo Lauri e dal poco noto pittore fiammingo Louis Cousin. Sestieri riconduce le fisionomie dei protagonisti, le tipologie del Cupido arciere e degli amorini, che si agitano nella boscaglia, alla cifra stilistica di Filippo Lauri, notoriamente molto richiesto per questi soggetti mitologici. Nella resa del paesaggio, a differenza della più consueta produzione del Lauri, si percepisce un forte influsso fiammingo direttamente discendente dalla lezione dei fratelli Brill a Roma tra la fine del XVI e i primi decenni del XVII secolo.
PROVENIENZA:
Galleria Giamblanco, Torino;
collezione privata europea.
BIBLIOGRAFIA:
G. Sestieri in "Galleria Giamblanco: dipinti antichi. Pittura italiana dal Seicento al Novecento", a cura di A. Cifani, Torino 2013, pp. 24-25; De Arte Gymnastica, cat. della mostra, Pinacoteca Albertina, Torino 2015, n. 7. -
Lotto 198 ANDREA LOCATELLI (Roma, 1695 - 1741)
a) Paesaggio con corso d'acqua, figure e villaggio sullo sfondo; b)Paesaggio con figure e fattoria sullo sfondo. Coppia di dipinti
Olio su tela, a) cm. 38,5x63,5; b) cm. 40x65. Con cornice, cad.
Il Prof. Giancarlo Sestieri ha confermato l'attribuzione ad Andrea Locatelli a seguito della visione diretta di questi dipinti.
Questa deliziosa coppia di dipinti, in origine presumibilmente soprapporta di una dimora nobiliare, rientra nella produzione di Locatelli che traduce in composizioni mirabilmente equilibrate le sua virtù di specialista nella pittura di paesaggio, di vedute e di capricci di fantasia. Il vasto orizzonte, la trasparenza del cielo, la rusticità pittoresca dei caseggiati che punteggiano il paesaggio, la serenità bucolica delle figure in primo piano, riflettono la poetica arcadica del pittore che conferisce alla campagna laziale un carattere serenamente idilliaco e sottratto al corso della storia. Come termini di confronto possiamo qui limitarci a segnalare le stringenti affinità con opere di Locatelli quali il Paesaggio con pastori e armenti già nella collezione Colombo di Milano (Busiri Vici, n. 63) o i due Paesaggi laziali con figure della Galleria Pallavicini a Roma (Ibid., nn. 135-136).
BIBLIOGRAFIA DI CONFRONTO:
A. Busiri Vici, Andrea Locatelli, Roma 1976. -
Lotto 199 ARTISTA VENETO, XVIII SECOLO
Veduta di Castel Sant'Angelo con San Pietro sullo sfondo
Olio su tela, cm. 57,3x92. Con cornice
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma -
Lotto 200 FLAMINIO TORRI (Bologna, 1620 - Modena, 1661)
San Girolamo penitente
Olio su tavola, cm. 50,5x39. Con cornice
Il dipinto è accompagnato da un'expertise del Prof. Massimo Pulini.
Al retro una tela antica applicata a supporto della tavola reca antica iscrizione a pennello: "GUIDO RENO".
Alle origini di questo dipinto, magistrale per energia espressiva e qualità pittorica, si pone una superba invenzione di Guido Reni, che fissa il momento in cui il santo penitente si percuote il petto con una pietra, fissando urlante, in uno stato di estasi quasi selvaggia, il crocifisso che regge con la mano sinistra. Più volte replicato all’interno della bottega reniana, la redazione del tema generalmente ritenuta del tutto autografa, e quindi presumibilmente il prototipo della composizione intorno al 1625, si conserva oggi presso la National Gallery di Londra. Nel suo studio sul dipinto qui in oggetto, Massimo Pulini rileva come il modello reniano presenti un intenso naturalismo e da marcati contrasti chiaroscurali che fecero scuola nella pittura bolognese del Seicento.
Flaminio Torri, in modo particolare, si mostrò impressionato dall’invenzione reniana, come dimostra la versione a lui concordemente ricondotta oggi conservata nella Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma e come conferma ora questo dipinto inedito di formato ovale. Torri fornisce qui un’interpretazione drammatica e intensamente patetica del soggetto, che esaspera gli effetti pittorici in chiave naturalista della tela di Reni, amplificando i contrasti cromatici e la matericità della pennellata. -
Lotto 201 FRANCESCO DAL PONTE DETTO BASSANO (Bassano del Grappa, 1549 - Venezia, 1592)
Annuncio ai pastori
Olio su tela, cm. 101x138. Con cornice
Il dipinto è accompagnato da un'expertise del Prof. Ferdinando Bologna (Disponibile in fotocopia).
L’Annuncio ai pastori - al pari del soggetto che narrativamente ne costituisce il seguito, l’Adorazione dei pastori - fu un soggetto caro a Jacopo Bassano, che ebbe occasione di cimentarsi con esso in tutte le fasi della sua attività, caratterizzata, com’è noto, da una continua metamorfosi ed evoluzione stilistica. Nel periodo tardo del pittore, caratterizzata da un’estrema vicinanza espressiva all’ultimo Tiziano e da una predilezione per le ambientazioni notturne, il tema dell’Annuncio ai pastori fu oggetto di una traduzione pittorica autografa, oggi nella Nàrodni Galerie di Praga, databile all’incirca nel 1575. Si può dire, anzi, che il dipinto di Praga - in cui talora si è ritenuto di ipotizzare un intervento anche da parte di Francesco, il maggiore e più dotato dei quattro figli pittori di Jacopo - costituì proprio una sorta di “annuncio” della sua ultima maniera. Di certo esso si situa nell’epoca in cui prende corpo la sempre più attiva presenza di Francesco all’interno della bottega bassanesca e in cui massima è la mimesi stilistica del figlio nei confronti del padre. La redazione notturna del soggetto, con l’angelo avvolto nella luce posto in alto al centro della rappresentazione, che illumina (fisicamente e spiritualmente) il gruppo degli ignari pastori a riposo, si rivelò particolarmente riuscita e ebbe notevole fortuna, dapprima attraverso le repliche di mano di Francesco e poi nelle ulteriori versioni realizzate dalla bottega.
Il dipinto che qui si illustra costituisce forse la migliore fra le versioni del tema eseguite pienamente da Francesco. In essa ritroviamo tutte le migliori qualità dell’artista, a partite dalla padronanza degli effetti di chiaroscuro e dei riflessi del lume artificiale, o più propriamente soprannaturale, che squarcia il buio della notte andando a colpire dall’alto le parti delle figure e del paesaggio esposte direttamente ai suoi raggi. La composizione si conforma fedelmente alla potente invenzione paterna riuscendone a restituire l’atmosfera mistica, il senso di mistero e il significato di rivelazione di cui essa era così profondamente pervasa.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma -
Lotto 202 ARTISTA FIAMMINGO, SECONDA METÀ XVII SECOLO
Natura morta di cacciagione con gatto e vasellame
Olio su tela, cm. 96,5x82. Con cornice
Questa natura morta di grande qualità mostra una composizione particolarmente elaborata. La scena combina così la selvaggina distesa su un ripiano, che presenta una variegata fauna volatile e un leprotto, una serie di raffinati recipianti metallici e un gatto ingolosito che fa capolino dalla finestra aperta sullo sfondo, che illumina gli oggetti in primo piano e permette di apprezzare uno spicchio di cielo. Il dipinto rientra nella tipologia della natura morta di caccia, originaria e diffusa soprattutto nell'area dei Paesi Bassi (Frans Snyders, Jan Fyt, Adriaen van Utrecht), ma presto di successo anche in Italia. La nostra bella tela sembra da ricondurre a un pittore di formazione nordica temperata però da un'esperienza italiana, attivo nella seconda metà del Seicento. Il dipinto può essere così avvicinato ad artisti accomunati da questa doppia radice, quali Johannes Hermans detto "Monsù Aurora", Jacob van de Kerckhoven detto Giacomo da Castello e soprattutto Jacobus Victor.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma. -
Lotto 203 CARLO SELLITTO (Napoli, 1580 - 1614), ATTRIBUITO
San Giovanni Battista
Olio su tela, cm. 130x99. Con cornice
Il dipinto è accompagnato da un'expertise del Prof. Ferdinando Bologna datata 31 dicembre 1980 (disponibile in fotocopia).
Ferdinando Bologna, all’epoca fresco curatore assieme a Raffaello Causa della storica “Mostra didattica di Carlo Sellitto. Primo caravaggesco napoletano” svoltasi nel 1977 al Museo di Capodimonte, non esitò a riferire allo stesso Sellitto questa notevole effige del Battista adolescente, raffigurato seduto a figura intera. Nel rilevarne la franca e repentina adesione ai modi del Caravaggio, registrati si può dire in tempo reale a seguito del soggiorno napoletano dell’artista, Bologna segnalava le marcate affinità col David con la testa di Golia della National Gallery of Zimbabwe, Harare, al quale si può affiancare il “gemello” oggi a Palermo, Giulio Torta Antichità, che include la presenza di una seconda figura. Oltre a costituire “un’aggiunta di rilievo per la migliore conoscenza di Carlo Sellitto”, lo studioso giudicava la tela “di rara potenza nell’impasto monumentale della figura e nella funzione semplificante – quasi geometrica – del giuoco della luce”.
I più di quarant’anni trascorsi dallo scritto di Bologna non sembrano aver tolto veridicità alle sue considerazioni, nonostante gli innumerevoli studi e approfondimenti che si sono succeduti da allora sulla pittura napoletana di impronta naturalista e anche sullo stesso Sellitto, sino alla recente esaustiva monografia di Giuseppe Porzio. Molteplici ulteriori termini di confronto possono essere rilevati fra la nostra tela e opere di Sellitto: in particolare si segnalano le affinità con il San Carlo Borromeo in adorazione della croce, soprattutto la versione nella chiesa di S. Giovanni di Dio a Troia, l’angelo reggi-corona della Visione di Santa Candida iuniore, in Sant’Angelo a Nilo a Napoli, e il Sant’Antonio da Padova della basilica dell’Incoronata Madre del Buonconsiglio a Napoli.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma -
Lotto 204 JUSTUS SUSTERMANS (Anversa, 1597 - Firenze, 1681)
Ritratto del Cardinal Leopoldo de' Medici
Olio su tela, cm. 71,5x52. Con cornice
È sufficiente paragonare il nostro dipinto agli altri ritratti noti del cardinale Leopoldo de’ Medici, personalità di assoluto spicco della cultura fiorentina del Seicento, per individuare senza esitazioni il personaggio effigiato. Come rileva giustamente Francesco Petrucci, sono soprattutto due incisioni a porsi strettamente in rapporto con la nostra tela: quella eseguita da Albert Clouwet e stampata da Giovan Giacomo de Rossi, in cui il busto del cardinale, in controparte rispetto al nostro dipinto, è inserito in una cornice ovale che reca sulla targa in basso il nome del ritrattato con l’indicazione “Iustus Sertemanni pinx"; e quella siglata "Adriano Haluech sculp.”, pure in controparte rispetto al prototipo pittorico, in cui il cardinale stringe una missiva nella mano sinistra, in una posa pressoché identica al nostro dipinto. Le due incisioni sono quindi chiaramente ricavate dallo stesso ritratto opera di Giusto Sustermans (o Suttermans), che fissa l’effigie ufficiale di Leopoldo de’ Medici nelle sue vesti cardinalizie e che persuasivamente Petrucci riconosce nella tela qui in oggetto (o in una sua replica). Sustermans raffigurò più volte Leopoldo, ma negli esemplari sin qui noti sempre precedentemente alla nomina cardinalizia, effettuata da Clemente IX il 12 settembre 1667. D’accordo con Petrucci, è opportuno sottolineare come il pittore fiammingo, all’incirca settantenne, abbia saputo recepire fertilmente la suggestione più marcatamente barocca e in senso lato berniniana dei ritratti di porporati eseguiti dal Baciccio, in primis, ovviamente, proprio quello del cardinale Leopoldo conservato agli Uffizi.
BIBLIOGRAFIA:
F. Petrucci, Ritratto Barocco. Dipinti del '600 e '700 nelle raccolte private, catalogo della mostra, Tivoli Villa d'Este, Roma 2008, n. 6, pp. 40-42. -
Lotto 205 GIUSEPPE RECCO (Napoli, 1634 - Alicante, 1695)
Gentildonna e ragazzo nel giardino di una villa con fontana, composizioni floreali e di frutta (Flora)
Olio su tela, cm. 163,3x155. Con cornice
Il dipinto reca iniziali e data al centro del margine destro: "G.R. / 1686".
L'opera sarà oggetto di specifica trattazione da parte della Prof.ssa Valeria Di Fratta, nel suo volume di prossima pubblicazione dedicato alla dinastia dei Recco.
Giuseppe Recco, tra i maggiori e più rinomati pittori napoletani di natura morta del Seicento, combinò non di rado presenze umane, anche con funzioni allegoriche, brani architettonici e paesaggistici accanto alle sue predilette composizioni di natura morta di fiori o di frutta. In queste opere talora Recco si avvalse della collaborazione dei più eminenti specialisti nella pittura di figura, compresi, tanto per dire, Luca Giordano e Francesco Solimena. Questa monumentale e scenografica raffigurazione, in cui si può riconoscere anche una rappresentazione allegorica di Flora, esibisce tutta le qualità visive di queste rappresentazioni sontuosamente decorative. Tutti gli elementi figurativi trovano qui un brillante bilanciamento compositivo, che ben spiega la fama che accompagnò l'artista e che lo condusse nella sua fase più matura ad intraprendere il viaggio in Spagna accogliendo l'invito di Carlo II d'Asburgo. Come propone Nicola Spinosa, la nostra tela dovrebbe situarsi negli anni immediatamente precedenti il soggiorno spagnolo di Giuseppe Recco e collocarsi stilisticamente accanto a capolavori come la Terrazza con paggio, vasi all'antica, cristalli e maioliche della Fundacion Casa Ducal de Medinaceli, datato 1679, e la coppia di Vasi figurati e fiori, datata 1683, eseguiti per il Marchese di Exeter e ancora oggi conservati a Burghley House. Spinosa ipotizza, inoltre, che le due figure della nostra tela possano essere state realizzate da Angelo Solimena, padre di Francesco.
BIBLIOGRAFIA:
N. Spinosa, Pittura del Seicento a Napoli da Mattia Preti a Luca Giordano. Natura in posa, Napoli 2011, pp. 288-289, cat. n. 334. -
Lotto 206 ARTISTA ATTIVO A ROMA, SECONDA METÀ XVIII SECOLO
Veduta del Colosseo
Olio su tela, cm. 40x60,5. Con cornice -
Lotto 207 ARTISTA VENETO, SECONDA METÀ XVIII SECOLO
Antonio e Cleopatra
Olio su tela, cm. 116x91. Con cornice antica.
Questa mirabile tela, sontuosamente scenografica, esibisce senza possibili equivoci la sua appartenenza alla grande civiltà figurativa del Settecento veneziano. In particolare risulta evidente il modello della pittura di Giambattista Tiepolo, vera e inaggirabile pietra angolare per tutti gli artisti attivi in area veneta nella seconda metà del XVIII secolo. Non privo di ambiguità è il soggetto rappresentato, imperniato sulle tre figure che occupano la scena, la cui disposizione crea un effetto quasi vorticoso, accentuato dal formato ovale della tela. Nondimeno, la centralità ottica e narrativa rivestita dall’orecchino di perla che la nobildonna lussuosamente abbigliata prende con la mano destra dal vassoio sorretto dal giovane moro, come pure la tazza posta all’interno dello stesso vassoio, autorizzano, sia pur in via di ipotesi, un possibile riconoscimento della scena come Cleopatra che, durante un fastoso banchetto offerto ad Antonio nella sua reggia, scioglie una perla in una coppa di vino per dimostrare al generale romano la sua magnificenza e il suo sprezzo della ricchezza.
La raffigurazione è imperniata sul contrasto fra i due personaggi principali: composta, elegante, algidamente statuaria la giovane donna; sanguigno, severo, vagamente demoniaco l’uomo barbuto, punto apicale dell’influsso di Tiepolo, di cui richiama tante tipiche teste reperibili tanto nei suoi dipinti quanto nelle sue acqueforti. Il pittore veneto in cui troviamo combinati al più alto livello artistico sciolto pittoricismo tiepolesco e ben ponderato classicismo è Francesco Lorenzi (Mazzurega, Verona, 1723 – Verona 1787), che di Tiepolo fu allievo tra i più personali e brillanti. Proprio a Lorenzi si potrebbe pensare di accostare il dipinto qui in oggetto, se il suo livello qualitativo non sembrasse perfino troppo alto rispetto allo standard dell’artista veronese. Confronti di grande interesse, per le analogie tipologiche e compositive, possono essere in ogni modo istituite con alcune tra le sue opere più felici come l’Incontro tra Antonio e Cleopatra e la Scena di sacrificio, entrambe conservate in collezioni private, o ancora la Rebecca al pozzo o il Banchetto di Ester, già Milano, collezione Cesare Jacini.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Veneto
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Lotto 208 LUCA GIORDANO (Napoli, 1632 - 1705) E AIUTI
Il mangiatore di spaghetti (Allegoria del Gusto)
Olio su tela, cm. 89,5x70. Con cornice
Il dipinto è accompagnato dall'Attestato di Libera Circolazione.
Il dipinto replica un'invenzione iconografica di Luca Giordano più strettamente influenzata all'esempio di Jusepe de Ribera. Il prototipo di piena autografia giordanesca di questo soggetto, che combina in chiave di acceso naturalismo dimensione realistica "di genere" e livello allegorico, si conserva presso il Priceton University Art Museum. -
Lotto 209 GIULIO CESARE PROCACCINI (Bologna, 1574 – Milano, 1625) E BOTTEGA
Ecce Homo
Olio su tela, cm. 148,5x117,5.
Il dipinto è accompagnato dall'Attestato di Libera Circolazione.
Soprattutto nelle opere eseguite fra il 1620 e il 1625, anno della sua morte, Giulio Cesare Procaccini sviluppò una maniera particolarmente drammatica, caratterizzata da marcati contrasti chiaroscurali, da densi impasti cromatici e da composizioni maggiormente serrate ed essenziali, che sostituiscono i predominanti schemi tardo-manieristi adottati precedentemente. Nella fase finale della sua parabola creativa Procaccini si trova così a guardare soprattutto all’esempio della maturità di Tiziano e di Caravaggio. Di questo maggiore pathos e di questa adesione a un linguaggio pittorico più intensamente naturalistico reca testimonianza la potente tela che qui si presenta, indice anche di un fertile scambio artistico con Daniele Crespi. L’opera ripropone pressoché immutata la composizione del dipinto oggi conservato presso l’istituto Barbara Melzi di Legnano (Brigstocke, D'albo, cat. 176, pp. 265 e 390-391), del quale dovrebbe costituire una replica eseguita con l’ausilio dell’atelier del pittore. Il dipinto fotografa con precisione questa fase estrema della produzione di Giulio Cesare Procaccini, ponendosi in chiara relazione stilistica ed espressiva con la Flagellazione di Cristo del Museo of Fine Art di Boston, l’Incoronazione di spine del Graves Art Gallery di Sheffield e la versione dello stesso soggetto oggi in collezione privata (Brigstocke, D'albo, cat. 177, pp. 265 e 391).
BIBLIOGRAFIA DI CONFRONTO:
H. Brigstocke, O. D'albo, Giulio Cesare Procaccini. Life and Work, Torino 2020. -
Lotto 210 GIOVANNI PAOLO PANINI (Piacenza, 1691 ca. - Roma, 1765)
Veduta di fantasia con edifici monumentali, porto e figure
Olio su tela, cm. 74,5x99. Con cornice
Il dipinto è accompagnato da un'expertise del Prof. Ferdinando Arisi.
Questa studiata composizione di fantasia, che combina brillantemente capriccio architettonico, veduta costiera o portuale e scena di genere con figure intente a svolgere attività ordinarie, rappresenta felicemente i caratteri salienti della produzione giovanile di Gian Paolo Panini. Come evidenzia Ferdinando Arisi nella sua expertise, si riconoscono qui, come in altre riuscite composizioni dell’artista eseguite nel secondo decennio del Settecento, i suoi principali debiti formali, da Codazzi a Ghisolfi, da Salucci a Carlieri, combinati, però, secondo uno stile che nelle architetture, nei brani di paesaggio e specialmente nelle colorite, vivide figurette che animano la scena, già rivela i tratti che saranno peculiari della più matura produzione del Panini. Ritroviamo molte delle figure in primo piano in svariati dipinti giovanili, quasi come marchi di autografia, come La predica di un apostolo nelle versioni della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno o dello Stadtmuseum di Oldenburg. La soluzione dei palazzi che affacciano sul mare a pochi passi dalla riva appare molto prossima nel dipinto già nella collezione Sansoni di Siena e nello Sbarco di una principessa presso un edificio dorico, in collezione privata, Piacenza: occorre peraltro rilevare che, rispetto alle opere citate, nella nostra tela la fuga delle facciate e il disegno delle architetture si caratterizzano per un grado assai maggiore di elaborazione e complessità.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Roma. -
Lotto 211 BIAGIO D'ANTONIO TUCCI (Firenze, 1445 ca. - 1510 ca.)
Madonna in trono col Bambino, San Giovannino e due cherubini
Olio su tavola, Ø cm. 85. Con cornice “a tondo” di legno dorato decorata con motivi di frutta, fiori e foglie.
Il dipinto è accompagnato da un'expertise del Prof. Giuliano Briganti, datata 5 maggio 1980.
L’occhio sapiente di Giuliano Briganti non ebbe dubbi nel riconoscere in questo magnifico tondo su tavola, frutto inconfondibile della pittura fiorentina dell’ultimo quarto del Quattrocento, un’opera sicura di Biagio d’Antonio. Probabile allievo e poi socio di Cosimo Rosselli, sodale per un certo tempo di Jacopo del Sellaio, con specializzazione nella pittura di arredi domestici (cassoni e spalliere), nel 1481-82 Biagio fu attivo nel grande cantiere romano degli affreschi della Cappella Sistina accanto al Rosselli e costantemente operoso a Faenza, città che ne conserva un gran numero di opere.
Il dipinto che qui si presenta, da oltre quarant’anni nella stessa collezione privata, si colloca negli anni più felici dell'attività di Biagio d'Antonio, fra il 1480 e il 1490 circa, quando le principali influenze che ne segnano la traiettoria artistica e la maturazione stilistica (Baldovinetti e Filippo Lippi, Verrocchio e Pollaiolo, Ghirlandaio e Botticelli) giungono al punto massimo di equilibrio, dando vita a un linguaggio pittorico di delicato lirismo, eleganza formale, luminosa spazialità e grazia decorativa. Il tondo si inserisce così con perfetta coerenza nella sequenza di Madonne con Bambino che costituiscono una sorta di marchio di fabbrica del pittore e si colloca in totale assonanza di stile con altri tondi raffiguranti il medesimo tema: basti pensare a quello oggi presso la Galleria Franchetti alla Ca’ d’oro, a quello conservato nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara o a quello in collezione privata a Lugano, oltre a un buon numero di tavole sul più canonico formato rettangolare, a partire dalla Madonna con Bambino già nella collezione Corcos a Roma, che ripropone, con piccole varianti, il gruppo centrale del nostro tondo.
Si ammirano in modo speciale nel dipinto, rispetto agli altri citati, il limpido e morbido paesaggio appenninico, scandito con pierfrancescana accuratezza prospettica, e l’incantevole brano dei fiori dentro un recipiente di cristallo poggiato in primo piano sulla balaustra, giusto dirimpetto allo spettatore: rose e gigli mariani, a sancire l’armoniosa coesistenza tra l’esibizione di virtuosismo illusionistico e luministico, la piacevolezza ornamentale “naturamortistica” e l’inequivocabile funzionalità iconografica, in ossequio alla natura devozionale del dipinto.
Il dipinto presenta uno stato di conservazione molto buono.
PROVENIENZA:
Asta Finarte Milano 1981; da allora nella stessa collezione privata, Lombardia.
BIBLIOGRAFIA:
R. Bartoli, Biagio d'Antonio, Milano 1999, pp. 92, 96 (riprodotto a colori) e 211, n. 72. -
Lotto 212 GIROLAMO ROMANINO (Brescia, 1484 ca. - 1566 ca.)
Deposizione di Cristo nel sepolcro
Olio su tela, cm. 102x80. Con importante cornice antica in legno scolpito e dorato.
Il dipinto è accompagnato dall'Attestato di Libera Circolazione.
A seguito dell'analisi diretta il dipinto è stato riconosciuto indipendentemente sia dal Prof. Alessandro Nova, sia dal Prof. Francesco Frangi come un capolavoro inedito di Girolamo Romanino. L'opera sarà oggetto di uno studio da parte del Prof. Frangi.
L’impressionante dipinto inedito che qui si illustra rappresenta una clamorosa aggiunta al corpus di Girolamo Romanino, come hanno rilevato, indipendentemente, il Prof. Alessandro Nova e il prof. Francesco Frangi dopo l'analisi dal vivo della tela.
L’opera si mostra, in effetti, come un apice nell’intera produzione del pittore quanto a intensità emotiva e pathos tragico. La composizione si presenta serrata e sin quasi compressa, dominata dalla figura del Cristo morto che occupa tutto il primissimo piano della scena, con le tre teste appena retrostanti a fargli da dolorosa corona. Le due mani di Maria fanno drammaticamente capolino da tergo, la sinistra sorreggendo la testa abbandonata del Salvatore, la destra poggiata sul costato, poco sopra il taglio della ferita ancora sanguinante. Particolarmente drammatica l’espressione del volto della Vergine, con la fronte corrugata, gli occhi sbarrati e la bocca semi-aperta, a suggerire, più che un urlo, una sorta di sibilo o di rantolo che racchiude tutto lo strazio, la compassione e l’intima, fisica condivisione del destino del figlio, morto come uomo. Le figure di Giovanni Evangelista e Giuseppe d’Arimatea chiudono ai lati la scena, contrappuntando l’esplicita sofferenza di Maria con meste espressioni di muta rassegnazione. Al margine inferiore dell’immagine, il sepolcro di pietra e la corona di spine costituiscono, al di là della loro coerenza narrativa, stimoli visivi che spingono il riguardante verso un’ulteriore stadio di personale partecipazione affettiva.
La piena autografia romaniniana di questa tela superba trova conforto da un gran numero di evidenze stilistiche. La composizione, le soluzioni espressive, la materia pittorica, il magistero coloristico, parlano di un artista di prima grandezza, che guarda con speciale attenzione alla coeva pittura veneta, soprattutto Tiziano e Giorgione, e a quella lombarda, in primis Savoldo, senza trascurare Lorenzo Lotto, sorta di cerniera ideale fra le due scuole, in effetti in quei decenni vicinissime. Pur tuttavia, nonostante questa vasta e aggiornata cultura figurativa, il linguaggio di Romanino presenta caratteri stilistici potentemente peculiari, capaci di far confluire la trama articolata dei suoi riferimenti all’interno di una pittura di realismo scabro, priva di accenti aulici ma non popolaresca: una pittura che trova il suo terreno più idoneo proprio nel registro tragico che ammiriamo nel presente dipinto, diretto, energico, essenziale ed emotivamente catturante.
Anche la composizione, il modo di panneggiare, la paletta cromatica, le posture, in primo luogo di braccia e mani, e le fisionomie dei personaggi trovano stringenti termini di confronti all’interno del corpus di Romanino: i più evidenti, anche per ragioni di contiguità iconografica e di clima espressivo, si riconoscono nel Cristo morto fra la Vergine e San Giovanni Evangelista, già in collezione privata fiorentina e oggi di ubicazione ignota (Nova, pp. 248-250, fig. 78), che presenta chiare analogie nel busto e nel perizoma di Cristo, nella fisionomia della Vergine e nell’accostamento delle loro teste. Non meno limpide le similitudini con il Compianto già nel Kaiser-Friedrich Museum di Berlino, perduto nel 1945 durante i bombardamenti alla fine della seconda guerra mondiale (Nova, pp. 266-267, fig. 116), che riguardano in primo luogo il volto di Cristo, ma anche le altre tre teste protagoniste del nostro dipinto.
La tela presenta un ottimo stato di conservazione.
PROVENIENZA:
Collezione privata, Lombardia.
BIBLIOGRAFIA DI CONFRONTO:
A. Nova, Romanino, Torino 1994. -
Lotto 213 MICHELANGELO CERQUOZZI (Roma, 1602 - 1660), ATTRIBUITO
Natura morta con uva, zucche, pesche, azzeruoli, fichi e more in un paesaggio
Olio su tela, cm. 95x67. Con cornice.
Il dipinto è pubblicato nel catalogo della Fototeca Federico Zeri come opera attribuita a Michelangelo Cerquozzi con nota autografa di F. Zeri sul verso della fotografia (n. 93378).
Questa superba natura morta di frutta e ortaggi, scenograficamente ambientati en plein air, fu attribuita da Federico Zeri a Michelangelo Cerquozzi. Accanto alla sua più idiomatica e abbondante produzione di bambocciate e di battaglie (quest’ultima, com’è noto, gli valse il soprannome di Michelangelo delle Battaglie), l’attività come naturamortista, per quanto più esigua, assegna al pittore un ruolo fondamentale negli sviluppi del genere a Roma dopo l’esaurimento della stagione legata alle suggestioni caravaggesche e verso le nuove tendenze più specificamente barocche, che si affermano nei decenni centrali del secolo. Le più celebri incursioni di Cerquozzi in questo genere (che stando alle fonti e agli inventari romani secenteschi non furono comunque sparute) prevedono la presenza di figure (si pensi alle Raccolta di fichi del Museo del Prado, o alla raccolta delle melograne del Museum Boymans Van Beuninigen di Rotterdam: per le quali, infatti, non si può propriamente parlare di nature morte). Sappiamo però per certo che il pittore si cimentò spesso anche nella natura morta pura, di fiori ma soprattutto di frutta. Tra le candidature più autorevoli all’attribuzione a Cerquozzi va annoverato senz’altro, auspice Zeri, l’esemplare che qui si presenta, come testimoniano i bellissimi grappoli di uva nera, i fichi smaglianti sull’alzata e le tre grandi zucche in primo piano, che rimandano a quelle della Raccolta dell’uva già in collezione Gasparrini, Roma, e del Satiro che coglie l’uva, già Colnaghi, Londra.
PROVENIENZA:
Mercato antiquario, Firenze, 1989; collezione privata, centro-Italia. -
Lotto 214 PAOLO DE MATTEIS (Piano Vetrale, 1662 - Napoli, 1728)
Cacciata dei progenitori dal Paradiso Terrestre
Olio su tela, cm 104x74. Con cornice
Questa equilibrata composizione permette di cogliere i caratteri più tipici della maturità di Paolo de Matteis, al principio del Settecento. L’influsso inevitabile di Luca Giordano risulta qui temperato da una vena classicista mutuata dall’esempio di Guido Reni e Carlo Maratti. La tela, infatti, riduce al minimo la dimensione tragica dell’evento raffigurato, in favore di accenti narrativi assai composti. Particolarmente riuscito risulta l’innesto del coro d’angeli avvolto in una calda luce dorata, col bel brano di paesaggio che si sviluppa luminoso ai lati del gruppo dei tre protagonisti. Ben congegnata appare anche la posa di Adamo, che dà le spalle all’angelo con la spada infuocata coprendosi il volto in gesto di vergogna.
I riscontri con altri esempi della produzione di De Matteis fra la fine del XVII e il primo decennio del XVII secolo appaiono del tutto palmari: basti citare l'Adamo ed Eva piangono Abele ucciso, dello Statens Museen di Copenhagen, Apollo e Dafne, in collezione privata a Berkeley, la Venere dormiente in collezione privata romana e La cacciata dei progenitori già sul mercato antiquario londinese (per tutte queste opere vedi N. Spinosa, Pittura napoletana del Settecento, I, Dal Barocco al Rococò, Napoli 1999, nn. 111, 114, 119, 126, pp. 129-133).
BIBLIOGRAFIA:
V. Pacelli in "Paolo de Matteis un cilentano in Europa", cat. della mostra, Vallo della Lucania, Museo Diocesano, 2013, n. 12, pp. 58-59. -
Lotto 215 FRIEDRICH NERLY IL GIOVANE (Venezia, 1842 - Lucerna, 1919)
Veduta di Punta della Dogana dal bacino di San Marco con la basilica della Salute
Olio su tela, cm. 89,5x174. Con cornice
La tela reca firma in basso a destra: "F. NERLY" -
Lotto 216 AMBITO DI GAETANO GIULIO ZUMBO (Siracusa, 1656 – Parigi, 1701)
Scheletro e teschi
Scultura in ceroplastica entro teca lignea, cm. 23x36x17.
La ceroplastica, l’antica arte di lavorare la cera, fu usata fin dall’antichità in ambito funerario e dal XVII secolo fu largamente impiegata anche per la riproduzione a scopo didattico di modelli anatomici, zoologici e botanici. Nel corso del tempo, anzi, la ceroplastica fu impiegata soprattutto per le sue rappresentazioni in ambito anatomico.
Questi manufatti non si limitavano a riprodurre la realtà, ma erano spesso ispirati a una visione di essa particolarmente drammatica e grottesca. Tali rappresentazioni avevano la funzione di esorcizzare la malattia, il dolore e la pestilenza che dilagava a quel tempo. La teca qui in oggetto si può collocare nell’ambito della produzione dell'abate Giulio Gaetano Zumbo, principale esponente della ceraplastica seicentesca.
La scena è incastonata all’interno di una teca lignea trapezoidale. Il racconto si presenta essenziale ma ricco di particolari: un uomo giace semisdraiato al centro, appoggiato su una roccia cll capo reclinato indietro e il volto segnato dalla sofferenza. Il corpo corrotto dalla decomposizione emerge in uno scenario disgustoso, in cui animali si accaniscono contro la carne putrescente.
La scena si completa con teschi ed ossa: un accostamento strettamente legato al tema del memento mori, largamente indagato nel Seicento e ovviamente connesso alla meditazione sulla caducità della vita e l'effimera transitorietà della fortuna. -
Lotto 217 GAETANO GIULIO ZUMBO (Siracusa, 1656 - Parigi, 1701)
Busto anatomico con verminaio
Scultura in ceroplastica entro teca lignea,
cm. 60x38x25.
L'opera è accompagnata da un'expertise del Prof. Paolo Giansiracusa.
Gaetano Zumbo nutrì una predilezione particolare per il racconto figurativo del corpo umano in disfacimento, come testimonia la presente scultura di cera, di fortissimo e sin quasi scioccante impatto emotivo. Il corpo corrotto dalla decomposizione è incastonato all’interno di una teca lignea con tre aperture di impianto trapezoidale.
Il volto del giovane suggerisce una morte violenta, considerate le ferite multiple nel viso, nel cranio e nel collo. Le orbite degli occhi sono rovesciate verso l’alto e descrivono l'anelito a un al di là sollevato dalle sofferenze terrene. L’identificazione del giovane non è sicura, ma le fonti ci suggeriscono che nel suo soggiorno francese Zumbo conobbe il “Generale delle Galere”, per il quale eseguì una testa anatomica. Probabilmente questo Busto anatomico con verminaio risale a quel tempo e potrebbe identificare il giovane come un galeotto che aveva al collo una corda o una catena, come suggerisce lo squarcio in gola. L’opera non manca di elementi simbolici, rappresentati dal ratto e dallo scarafaggio, ma anche dalla falena, che nell’immaginario cristiano è emblema di resurrezione e salvezza.
L'opera presenta uno stato di conservazione eccellente.
BIBLIOGRAFIA:
P. Giansiracusa, Arte e scienza in una ritrovata cera di Gaetano Giulio Zumbo, ed. Longari Arte Milano, 2016.