Asta 37: 15 aprile 2023 ore 15:00 "Monti e Colli" - Auction 37: 15 April 2023 at 15.00 "Mountains and Hills" 19th and 20th century Italian paintings
Saturday 15 April 2023 hours 15:00 (UTC +01:00)
Filippo Vacchetti Carru (CN) 1873-1945 Paesaggio montano
Filippo Vacchetti Carru (CN) 1873-1945 Paesaggio montano Olio su tavola cm 49x49.
Filippo Tommaso Emilio Vacchetti (Pippo) terzogenito di otto tra maschi e femmine, nacque a Carrù in provincia di Cuneo, il 28 maggio 1873 da Giuseppe, maestro elementare e organista della locale parrocchiale, che era sposo di Lucia Francesca Beccaria, donna di carattere e dedita alla famiglia. Negli anni successivi, la famiglia Vacchetti, sarà allietata da altri sei nascituri tra i quali: Emilio e Sandro che per strade diverse si faranno largo anche loro nel mondo dell’arte. Alla frequentazione della scuola elementare, Pippo ebbe a compagno Luigi Einaudi che diventerà il II° Presidente della Repubblica Italiana. A undici anni, terminata la scuola dell’obbligo, Pippo andò garzone in una pasticceria del suo paese e a diciotto partì per Genova in cerca di fortuna (lavoro) ma non trovando sistemazione, nel 1891 sottoscrisse la ferma militare volontaria. Per cinque anni, passò da una caserma all’altra del cuneese, ottenendo il grado di sergente maggiore. Fu tra i sorteggiati per le truppe di rinforzo nella guerra d’Abissinia ma la sconfitta di Adua (1° marzo 1896) mise fine temporaneamente alle ambizioni colonialiste italiane. Pippo amava recitare, suonava la chitarra e il mandolino ed era bravo nel disegno, ma raggiunta l’età di ventitré anni, non aveva ancora ben chiaro cosa fare da grande. Su sollecitazione del fratello maggiore Angelo, che suonava quasi come un rimprovero, Pippo si decise per la frequentazione dell’Accademia Albertina di Torino, grazie anche al mecenatismo del Commendatore Reyneri, amico del padre che gli garantì un contributo di uno scudo al mese. L’iscrizione avvenne il 16 dicembre del 1896; pochi giorni prima si era iscritto Matteo Olivero di Acceglio (Cuneo) che dal grande Pellizza da Volpedo, mutuerà la passione per la tecnica divisa e con il quale intesserà rapporti epistolari. Tra i due s’instaurò un’amicizia che si consolidò nel tempo e si protrasse per tutta la vita. L’iscrizione fu accompagnata da un certificato di buona condotta redatto dal comune di Carrù, nel quale si certificava che: “Il signor Filippo Vacchetti non è rissoso o dedito al vino o all’ozio ed è tenuto in estimazione di probo e onesto”. All’Albertina ebbe a maestri, Pier Celestino Gilardi, Paolo Gaidano, Andrea Marchisio, Andrea Tavernier e Giacomo Grosso. A Torino andò ad abitare in una soffitta di piazza Carlina (Piazza Vittorio Emanuele II), dove negli anni successivi fu raggiunto dal fratello Emilio (Carrù 1880 – 1964) litografo e pittore e più tardi ancora dal fratello Sandro (Carrù 1889 – 1974) ceramista e pittore. La sua prima uscita pubblica, avvenne nel 1907 alla Promotrice di Torino, con l’opera: “Ritratto di contadina”. Il Grosso che era chiamato il “Despota della pittura” ma che era sempre prodigo di consigli verso i suoi allievi considerati più meritevoli lo invitò a dedicarsi alla natura morta e Pippo accolse l’invito del maestro, diventando così un bravo naturamortista, pur non disdegnando il ritratto e il paesaggio. Diplomatosi con merito dopo sette anni di studio, per mantenersi dipinse su ordinazione: sopra porte, paesaggi, ritratti spesso ricavati da fotografie ed eseguì lavori di restauro e opere di decorazione. Luigi Morgari (Torino 1857 -1935) appartenente a una famiglia che da quattro generazioni era dedita alla pittura e all’affresco, lo volle con sé nei suoi “tour” di lavoro in tutto il Piemonte: furono questi i suoi primi veri guadagni. In una lettera all’amico Matteo Olivero, sicuramente prima della grande notorietà acquisita da quest’ultimo, scrisse: “Carissimo Matteo, spero che di salute starai ottimamente come pure tua mamma. Non ti domando dell’arte perché quella va quasi sempre male”. Nel 1915, alla non più tenera età di quarantadue anni, convolò a nozze con Caterina Caramagna (sua compaesana) fissando il domicilio a Torino in corso S. Maurizio. Da questa loro unione nasceranno nel 1915 Elena Lenci (Lencina) e nel 1922 Francesco (Franco). Alla Promotrice di Torino, dove aveva esordito nel 1907, ritornò nel 1920 con Funghi; Natura morta (tre studi); Fiori e frutta; Ampolle e uva. Nel 1922 con “Natura morta”, concorse al Premio Antonio Fontanesi col n° XL. Da quel momento fu sempre presente sino al 1941, esponendo le sue nature morte che si estrinsecavano in fiori, uva, mele, meloni, cavoli, rape, fragole, funghi, peperoni, cipolle; in sostanza tutti i frutti dell’orto e del frutteto erano rappresentati e poi scarpe spesso spaiate, vecchie valige di cartone, bronzi di cucina, terrine e pentolame di ogni genere. In proposito, Michele Berra su Cuneo Provincia Granda n° 3 del 2005, scrisse: “I soggetti e la tematica delle sue opere, sono apparentemente ripetitivi, se non intervenisse la personalità che distingue sempre l’artista (…) Questa personalità, Filippo l’acquisì man mano, lavorando con gioia e assiduità fino a impadronirsene con esecuzioni semplici e sincere, ma colme di umori e profumi che solo la sua terra, così intensamente amata sapeva emanare”. A proposito delle sue nature morte, soleva dire: “…Io sono un pittore fortunato: per i miei soggetti non ho neppure bisogno di uscire di casa e quando li ho dipinti, posso pure mangiarmeli”. Al Circolo degli Artisti di Torino, risultano soltanto due presenze: la prima nell’esposizione del 1915/1916 con “Paesaggio” e l’anno successivo con l’opera “Fiori e frutta”. In quegli anni fu più volte a Roma, ospite del signor Fasola di Bra, proprietario della Zizzola: un edificio a pianta ottagonale, disposto su due piani con al centro una torretta, posto sul colle di Monteguglielmo il più alto della città; edificio che oggi é il simbolo della stessa. Il signor Fasola lo presentò a ministri e uomini di cultura, i quali divennero subito suoi estimatori. Nel 1925, allestì una “personale” a Chianciano Terme, dove visto il successo ottenuto ritornò l’anno successivo. Nel 1926 all’Esposizione Provinciale di Belle Arti di Cuneo, tenutasi sotto il patrocinio della Camera di Commercio, ai fratelli Vacchetti fu riservata la sala n° V. Pippo fu presente con sei Nature morte e un paesaggio, il fratello Emilio con cinque dipinti di fiori (sua specialità) tre Interni e Bambola, mentre il più giovane dei Vacchetti, Sandro fu presente con tre paesaggi: Cascata; Notturno; Champoluc e un dipinto di figura titolato: Pensiero triste. Sempre in quegli anni, un compagno d’Accademia, un certo Sartori di Varallo Sesia, lo invitò a esporre in quella città, le tavolette appena eseguite, con la gioia per il nostro artista di vederle tutte vendute. Nel 1928 alla Promotrice di Torino, presentò due opere titolate: “Mele” a catalogo col n° 15 e “L’eredità di papà” a catalogo col n° 18, entrambe vendute a mille lire cadauna. Non ostante la pittura fosse in cima ai suoi pensieri, il tarlo della recitazione lo rodeva spesso. Rileggiamo quanto il figlio Franco scrisse in proposito: “…Non era infrequente il ritorno all’antica passione per il teatro, tanto che nel 1932 chiamato dal Direttore della Compagnia Stabile Torinese, Umberto Mozzato, si esibì con successo per quaranta serate di fila nel monologo: “El Tenor ed Busca” (Il Tenore di Busca) sul palcoscenico del Teatro Rossini, dove stava muovendo i suoi primi passi artistici Erminio Macario”. Come tutti gli attori comici anche Pippo soffriva spesso di malinconia. Il figlio Franco, ricordava in uno scritto titolato: “Pippo Vacchetti, vita da Artista” che con se stesso era spesso autocritico, malinconico e qualche volta amaro. In un diario personale datato 1903 si legge: “Spesse volte ho tanta tristezza nell’anima che a smaltirla mettendola in forma più o meno letteraria sulla carta, sarà certamente di sollievo”. Il dramma della IIa Guerra Mondiale lo fece ancora più triste e in una lettera all’amico poeta Nino Costa scrisse: “…Amo ancora i bambini, gli animali, gli alberi e i fiori ma non posso più amare gli uomini”. Nel 1942 i bombardamenti su Torino, spinsero la famiglia a rifugiarsi definitivamente a Carrù. Per i postumi di una nefrite forse malcurata, sofferta in gioventù, la sua salute si fece precaria tanto da non permettergli più di muoversi nel suo paesaggio amato. Gli ultimi tempi li trascorse a letto tra sofferenze che lui riusciva a nascondere, concedendosi brevi battute o recitando lazzi e facendo così ridere i suoi preoccupati famigliari. Leggiamo ancora quanto scrisse il figlio Franco, circa la morte del genitore; quasi un bollettino: “L’otto luglio del 1945, alle dieci del mattino Pippo Vacchetti, mio padre, si spense nel letto e nella stanza in cui aveva visto la luce settantadue anni prima. Fino alla sera precedente aveva ancora fatto ridere amici e parenti con l’imitazione, i tic e i borbottamenti dell’infermiera di notte. “L’è la rua c’a gira” (è la ruota che gira) era solito dire”. In collettive oltre che alla Promotrice di Torino e al Circolo degli Artisti, fu presente a Genova, Milano e Roma. Oggi, quando le sue opere appaiono sul mercato antiquario, sono assorbite dal collezionismo piemontese e in particolare da quello della provincia di Cuneo. Spirito indipendente, rivendicò sempre il diritto alla libera ispirazione, non soggiacendo mai a vincoli di sorta. Cantore di un mondo semplice, dipinse gli oggetti del quotidiano, i frutti della terra, i volti dei contadini anneriti dal sole e induriti dalla fatica ed il paesaggio in genere, da quello di Langa a quello dell’arco alpino piemontese.