Importanti Dipinti Antichi
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Lotto 201 Pittore fiorentino, primo quarto del sec. XVII
ALLEGORIA DELL''ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO CON SAN GIOVANNI BATTISTA
olio su tavola ottagonale parchettata , cm 95x77 entro elegante cornice a pastiglia dorata di epoca posteriore -
Lotto 202 Pittore fiorentino, fine sec. XVI
MINERVA E LE MUSE SUL MONTE ELICONA
olio su tavola parchettata, cm 71x44 entro antica cornice laccata e dorata
sul retro vecchia etichetta iscritta Monte dei Paschi di Siena" ed altre due etichette, di cui una iscritta "n.73. Zucchi / Concerto di Muse"
Provenienza
collezione privata, Firenze
La tavola qui presentata raffigura la visita di Minerva alle nove Muse sul monte Elicona,
narrata da Ovidio nel libro V delle Metamorfosi : “Alle mie orecchie è giunta notizia di una nuova
fonte, fatta scaturire dal duro zoccolo di Pegaso. Per questo sono qui: volevo visitare questa
meraviglia, perché ho visto nascere il cavallo alato dal sangue di Medusa”. Minerva viene infatti
rappresentata al cospetto delle Muse mentre una di esse le racconta della gara canora tra le
dee e le Pieridi, figlie del macedone Pierio, che osarono sfidare le Muse nel canto.
Il dipinto, proveniente da una collezione privata fiorentina, fu acquistato negli anni Settanta
dagli eredi con un riferimento di attribuzione al pittore tedesco Hans Rottenhammer (Monaco
di Baviera 1564-Augusta 1625) che fu attivo in Italia fino al 1606, sia a Roma che a Venezia,
e che ricevette importanti commissioni per la corte rudolfina. Benchè il soggetto di Minerva
e le Muse sul monte Elicona fu più volte affrontato da pittori fiamminghi, tra cui lo stesso
Rottenhammer, il nostro dipinto sembrerebbe tuttavia meglio riconducibile all’ambiente di
Jacopo Zucchi (Firenze 1541 circa-Roma1596), nella cui direzione ci porterebbero anche le
iscrizioni riportate sul retro della tavola. -
Lotto 203 Carlo Dolci
(Firenze 1616 – Firenze1686)
ECCE HOMO
olio su tavola, cm 30x22
sul retro numero 12 a bistro e l''iscrizione IHS/ NOSTRA REDEN/ZIO/AMOR ET DESIDE/RIUM/ AS 1681/IO CARLO DOLCI MIA ETA'' SESSAN.SEST"
Provenienza
già collezione Casali, Trieste
Bibliografia
F. Baldassari, Carlo Dolci, Complete Catalogue of the Paintings , Firenze, 2015, p.165, fig. 71 a
Francesca Baldassari pubblica il dipinto ricordandone l''esecuzione nello stesso anno dell'' Ecce Homo della Galleria Corsini di Firenze.
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Lotto 204 Giacomo Francia
(Bologna 1486-1567)
MATRIMONIO MISTICO DI SANTA CATERINA E I SANTI GIOVANNINO E FRANCESCO
olio su tavola parchettata, cm 63x53 entro cornice a edicola di epoca posteriore intagliata, dipinta e dorata, cm 94,5x83,5
Su retro etichetta iscritta “Cleveland Museum”
Provenienza:
Collezione Thaw, New York, 1927;
Van Diemen Gallery, New York, 1929;
Parke-Bernet, vendita Schinasi, New York, 3-4 novembre 1944, lotto 319;
Sotheby’s, Firenze, 6 maggio 1980, lotto 555
collezione privata
Bibliografia:
N. Clerici Bagnozzi, in Dizionario Bibliografico Bolaffi , V, Torino 1974, p.139 (indicato come Madonna col Bambino e santi); N. Roio, Giacomo e Giulio Raibolini detti i Francia (Bologna 1486 ca. – Bologna 1557; Bologna 1487 – Bologna 1545) in Pittura bolognese del ‘500 , a cura di V. Fortunati Pietrantonio, 1, Bologna 1986, pp.32,37,51; E. Negro - N. Roio, Francesco Francia e la sua scuola , Modena 1998, p.304 Cat. 286 ill.
Già in occasione della vendita Schinasi tenutasi nel novembre del 1944 a New York, l’opera, raffigurante il Matrimonio mistico di Santa Caterina e i Santi Giovannino e Francesco, era stata riferita con pareri scritti di Wilhelm Von Bode e W.R. Valentiner a Giacomo Francia. Tale attribuzione venne successivamente confermata nel 1986 da Nicosetta Roio in Pittura bolognese del ‘500 ed ancora nel 1998 da E. Negro e N. Roio nel più completo e recente studio dedicato ai Francia (Francesco Francia e la sua scuola) .
La tavola che qui presentiamo è da annoverarsi tra gli esempi migliori per la qualità esecutiva e la raffinatezza delle forme, all’interno del numeroso repertorio di opere eseguito durante la sua attività e copiosamente rappresentato nel testo di E. Negro e N. Roio. Inoltre, le peculiarità stilistiche dell’opera dichiarano l’autografia del pittore bolognese, verosimilmente negli anni Trenta, così come le corrispondenze formali con altre dipinti che affrontano il medesimo tema, certamente a lui molto caro.
Tra le opere che presentano affinità stilistiche con la nostra tavola citiamo la Madonna con Bambino che offre una mela appoggiato a un cuscino su un parapetto e San Francesco della pinacoteca comunale di Faenza, assegnata al solo Giacomo e il Matrimonio mistico di Santa Caterina e San Giuseppe, quest’ultima eseguita in collaborazione con il fratello Giulio, (cfr. Negro e N. Roio,1998, cat. n. 239, p. 289; cat. n. 290, p. 305), nelle quali si rilevano affinità nella resa delicata dei lineamenti del volto della Vergine e della Santa Caterina e nella consueta brillantezza dei colori, in particolar modo i rossi e i verdi, che sfumano nei morbidi cangiantismi delle pieghe delle vesti. -
Lotto 205 Filippo Lauri
(Roma 1623 – 1694)
OMAGGIO A PAN
olio su tela, cm 43,5x57
siglato F. L . sulla base del piedistallo
“1680. Feci un quadro all’Ill.mo Sig. r Abbate francescho Maroscielli, da misura più grande che da mezza testa, con dentro un Baccanale con Sateri e baccante che ballano atorno alla Statua del Dio delli Orti, et con putti che ornano de fiori e frutti la detta Statua, e con paesino”.
Così Filippo Lauri nella “Nota de diversi quadri fatti da me… i quali sono a mio giudizio i migliori che abbia fatto….” redatta il 19 febbraio 1687 per Filippo Baldinucci e pubblicata dal figlio, Francesco Saverio, in appendice alla circostanziata biografia dell’artista romano (F.S. Baldinucci, Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII. A cura di Anna Matteoli, Roma 1975, pp. 167-78). Non sappiamo in realtà se il dipinto eseguito per l’Abate Marucelli, raffinato collezionista e bibliofilo, attento agli episodi più raffinati e curiosi della pittura romana del suo tempo, sia proprio quello che qui si presenta: il successo di questa invenzione, testimoniato da un certo numero di repliche, è documentato dallo stesso Lauri che nella nota citata ricorda anche “un quadro in tela da tre palmi bislungo per un Cavaliere di Sassonia con dentro un Bacanale con Satiri e bacante e fauni con il paese di bon gusto” eseguito nel 1685. Lo farebbero supporre però le iniziali apposte dall’artista sulla base dell’ara che, decorata con un rilievo classico raffigurante una scena sacrificale, allude scherzosamente alla parodia di sacrificio che costituisce il tema del dipinto. Solo eccezionalmente, infatti, Filippo Lauri siglò le sue opere destinate al collezionismo privato, peraltro inconfondibili nella raffinatezza della loro esecuzione. Ricercate dai principali collezionisti italiani e stranieri (molte sono citate ad esempio negli inventari della collezione Colonna) ed estremamente costose (fino a 100 scudi per un quadretto di un palmo e mezzo, e 160 per quelli che fossero arrivati a quattro palmi, poco più di ottanta centimetri) le opere a piccole figure dipinte su tela o, più raramente, su rame raggiunsero un tale successo da suggerire all’artista di abbandonare l’attività di frescante che fino ai primi anni Settanta aveva praticato nei palazzi e nei casini di campagna dei principi romani, dai Borghese ai Farnese, e addirittura nella galleria voluta da Alessandro VII nel palazzo del Quirinale.
Di raffinatissima esecuzione, il nostro dipinto dà conto altresì dell’abilità di Filippo Lauri nel genere della natura morta, attualmente documentato da rare composizioni di frutta firmate per esteso recentemente emerse in collezioni private ma non ricordate dalle fonti coeve all’artista.
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Lotto 206 Andrea Scacciati
(Firenze,1642-1710)
COMPOSIZIONI DI FIORI ENTRO VASI IN METALLO SBALZATO
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 38x29 ciascuno (2)
Attribuzione confermata da Alberto Cottino ai proprietari -
Lotto 207 Girolamo Marchesi da Cotignola
(Cotignola 1471 circa- Roma 1540 circa)
VERGINE, SAN GIUSEPPE E SANTA CATERINA ADORANTI IL BAMBINO
olio su tavola, cm 64x51,5
Il dipinto qui proposto è stato tradizionalmente riferito dalla proprietà a Bartolomeo Rameghi detto il Bagnacavallo, secondo una attribuzione formulata, come per altre simili composizioni, sulla base probabilmente di coordinate stilistiche, come il dilagante raffaellismo che interessò Bologna intorno ai primi anni Venti, condivise anche da Cotignola al quale la nostra opera è stata più correttamente ricondotta, come confermato anche da Carla Bernardini, autrice della monografia di Bagnacavallo (cfr. C. Bernardini, Il Bagnacavallo senior. Bartolomeo Ramenghi, pittore (1484-1542). Catalogo generale , Rimini 1990).
La tavola presenta infatti strettissime analogie stilistiche e compositive con talune opere di Girolamo da Cotignola inserendosi in un gruppo di Sacre Famiglie le cui variate composizioni si ampliano alla presenza di San Giovannino o di Santa Caterina. Le figure si pongono dinanzi ad una tenda che chiude lo spazio sul fondo per dare rilievo al primo piano, riservando sempre una piccola quinta laterale al paesaggio, solitamente collocato sulla sinistra.
In particolare sembra interessante il confronto della nostra tavola con il dipinto di collezione privata, già Sotheby''s Parke Bernet, 16 novembre 1979 lotto 13, riprodotto nel catalogo del pittore (cfr. R. Zama, Girolamo Marchesi da Cotignola, pittore. Catalogo generale , Rimini 2007, n. 71 tav. XX). Il nostro dipinto presenta infatti una composizione quasi sovrapponibile a quella dell''opera appena citata, pur presentando tuttavia alcune differenze come ad esempio nell''atteggiamento del Bambino, nella presenza di un panneggio bianco al di sotto di esso e nella diversa posizione della mano del San Giuseppe. Particolarmente evidenti le analogie stilistiche tra le figure dove anche la figura della Vergine, nel suo atteggiamento a mani giunte, si ripete puntuale. Ulteriori confronti si possono inoltre effettuare con altre opere dell''artista come la Sacra Famiglia e Sposalizio mistico di Santa Caterina di collezione privata milanese (cfr. Zama 2007, n. 60 tav. XVIII).
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Lotto 208 Scultore senese, primo/secondo decennio del XIV secolo ca.
MADONNA COL BAMBINO
legno policromato, argentatura a mecca e dorature, cm 90 × 38 × 24
Bibliografia
L. Mor, in Antiqua res. Secoli XIII-XVI , a cura di F. Gualandi, con contributi di G. Gentilini e L. Mor, Bologna 2011, pp. 8-15, n. 3 (con bibliografia di riferimento e immagini di confronto)
Questa Madonna col Bambino in legno si aggiunge al corpus superstite della scultura gotica senese. Il nobile portamento frontale della Vergine lascia ipotizzare che in origine l’opera fosse stata concepita a figura intera: ciò sarebbe avvalorato sia dalla accentuata sporgenza del capo, destinata a compensare una visione prospettica dal basso, sia dal lieve incedere della gamba destra e dall’assenza di tracce che presuppongano l’antica presenza di un basamento. In ambito senese sono del resto più di qualcuna le statue lignee trecentesche conformate in modo simile durante epoche successive, verosimilmente per rispondere a nuove esigenze funzionali o liturgiche. In proposito citiamo il noto busto di San Cerbone (secondo decennio ca.) già nell’omonima cattedrale di Massa Marittima (ora al Museo d’Arte Sacra), nel quale ritorna anche l’analogo aggetto della testa, e quello della Madonna col Bambino (terzo decennio ca.) già nella collezione von Hirsch a Basilea. Nella nostra Madonna il compatto altorilievo del torso è scavato sul retro fino alle spalle e sigillato con due pannelli accostati. Ulteriori assemblaggi riguardano l’avambraccio destro, la cui mano trattiene un piccolo fuso o stelo (forse per un disperso Giglio a innesto), nonché l’avambraccio benedicente del Fanciullo e le falde del manto con ampi risvolti dipinti. Tale decorazione consiste in un vaio stilizzato a bande regolari che ricorda quella dell’imponente San Cristoforo in legno (ultimo quarto ca. del XIII secolo) nell’omonima chiesa di Barga, mentre sulla veste materna persiste un’argentatura a mecca, ornata con una teoria dipinta di pietre sulla bocchetta della scollatura. Il Figlioletto sorretto sulla sinistra indossa invece una tunica di pigmento rosso impreziosita da corolle vegetali dorate. L’opera, del resto, si caratterizza per l’attenzione sensibile al dato naturale - anche nella posa disinvolta delle mani e nei sinuosi capelli dorati - fino ad addolcire quasi pittoricamente la saldezza costruttiva dei volumi di eco ancora arnolfiana. -
Lotto 209 Bartolomeo Neroni detto il Riccio
(Siena 1505/10-1571)
SAN PIETRO MARTIRE, SANTA CATERINA DA SIENA DINANZI AL PONTEFICE, SAN GIROLAMO, CRISTO E LA SAMARITANA AL POZZO, SANTO STEFANO
SAN LORENZO, NOLI ME TANGERE, SAN GREGORIO MAGNO, DISPUTA DI SANTA CATERINA D''ALESSANDRIA, SAN TOMMASO D''AQUINO
dipinti a tempera e olio magro su tavola, cm 37, 5x1 17,5 ciascuno (2)
tavole provenienti da un gradino d''altare
Provenienza
collezione privata, Bologna
Bibliografia di riferimento
G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti , ed. e commento a cura di G. Milanesi, Firenze 1906, voll. IV e VI.
P. Torriti, La Pinacoteca Nazionale di Siena i dipinti dal XV al XVIII secolo , Genova 1978.
A. Cornice, Bartolomeo Neroni detto il Riccio , in L’Arte a Siena sotto i Medici 1555-1609 , catalogo della mostra a cura di Fiorella Sricchia Santoro, Siena, Palazzo Pubblico, Magazzini del Sale, 3 maggio-15 settembre 1980, Roma, 1980, pp. 27-47.
M. Ciampolini, Neroni, Bartolomeo detto il Riccio , in La Pittura in Italia, il Cinquecento , Milano, 1988, p. 782.
A. De Marchi, Bartolomeo Neroni detto il “Riccio” , in Domenico Beccafumi e il suo tempo , catalogo della mostra, Siena, Pinacoteca Nazionale e Chiesa di S. Agostino, 16 giugno - 4 novembre 1990, Milano 1990, pp. 366-375.
A. De Marchi, Bartolomeo Neroni detto il “Riccio” , in Da Sodoma a Marco Pino, pittori a Siena nella prima metà del Cinquecento , catalogo della mostra a cura di Fiorella Sricchia Santoro, Siena, Palazzo Chigi Saracini, Firenze, 1988, pp. 147-169.
R. Bartalini-A. Zombardo, Giovanni Antonio Bazzi, il Sodoma, fonti documentarie e letterarie. Con un saggio di Cinzia Lacchia sulla mostra al Museo Borgogna del 1950 , Vercelli 2012, passim .
I due dipinti presentano, rispettivamente, tre figure di santi che accompagnano due riquadri istoriati, uno con un episodio evangelico, l''altro con la storia di una santa. Esistono delle precise rispondenze fra santi e scenette dei due pannelli, tanto da non lasciar dubbi al fatto che in origine fossero montati assieme, ai lati di un elemento centrale, probabilmente un tabernacolo eucaristico, oggi disperso.
San Pietro Martire, figura rappresentativa del sacrificio di un domenicano per la fede, è posto all''estremità sinistra del primo pannello. Ad esso si contrappone il protomartire Stefano, all''estremità destra. La scenetta della ''moderna'' santa domenicana Caterina da Siena, che nel 1376 disputa col papa ad Avignone, è confrontata con l''omonima antica santa Caterina d''Alessandria che disputa con i cinquanta oratori in presenza dell''imperatore Massenzio, episodio degli esordi del IV secolo. -
Lotto 210 Barnaba da Modena
(documentato a Genova dal 1361 – 1386)
MADONNA COL BAMBINO
tempera e oro su tavola, cm 24 x 15,5
Provenienza
Collezione privata, Milano
La tavola, opera ancora inedita di Barnaba, è stata tagliata in maniera irregolare. In origine doveva chiudere in alto con una centina a cinque archetti, sottolineati dalla ricca punzonatura ad archetti trilobati: rimangono le tracce del primo e del quinto, mentre la forma degli altri tre superiori può essere ricostruita confrontando la Madonna allattante del Museo nazionale di San Matteo a Pisa, che presenta gli archetti allineati entro un’ogiva appena pronunciata, a sua volta riquadrata con l’aggiunta dell’Annunciazione entro oculi, nei pennacchi di risulta. I pennacchi tra gli archetti erano però riempiti da decori a granitura, di cui rimangono i frammenti estremi, e non già profilati da cornicette rilevate. Molte tavole di Barnaba hanno questa struttura, con arco inquadrato e oculi negli angoli. Non dissimile poteva essere la foggia di questa anconetta mariana, con le figure a mezzo busto, in un taglio ravvicinato, che con l’intensità degli sguardi punta al coinvolgimento emotivo di chi guarda.
Nel nimbo della Vergine sono inscritte le parole “ave gratia plena dom[inus tecum]”, in minuscola libraria, mentre in altre Madonne il pittore preferì eleganti capitali gotiche. Tutte le vesti erano sommerse dalla minuta crisografia bizantineggiante, più abrasa nel mantello azzurro della Madonna, estesa in origine anche sulla sua tunica rosa/rossa, più conservata sulla tunica azzurra chiara (ora deturpata da qualche ritocco verde) e sul mantello arancio risvoltato di rosa/rosso del Bambino.
Il confronto più parlante è con l’intensa Madonna col Bambino del Santuario della Rocchetta a Lerma, nell’alessandrino (E.Rossetti Brezzi, in Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte , a cura di G.Romano, Torino 1997, pp.31-32), dove troviamo gli stessi tratti delicati e lo stesso volto gonfio del Bambino, tornito da ombre soffuse, diverso da quelli più vivaci e chiaroscurati, memori di Ambrogio Lorenzetti, consueti al pittore. In queste opere iniziali Barnaba, che pur dovette avere radici nel mondo vitalesco, sembra intercettare qualcosa di simoniano, dal Maestro della Madonna di Palazzo Venezia o da Naddo Ceccarelli, via Avignone. Sicuramente siamo ben a monte delle più sontuose e magniloquenti Madonne già nel Kaiser Friedrich Museum di Berlino (1369) e della Galleria Sabauda (1370): qui prevale il tono più intimo, nella delicatezza degli sguardi e nei gesti accennati. -
Lotto 211 Pittore fiorentino, metà sec. XV
SAN FRANCESCO, SANTO VESCOVO (SAN NICOLA DI BARI?), SANTA LUCIA
tempera su tavola cuspidata, fondo oro, cm 4 2,5 x28
Provenienza
Collezione privata, Milano
Già riferita nella collezione di provenienza, per tradizione orale, al pittore senese Sano di Pietro, la pregevole tavola fondo oro cuspidata, raffigurante San Francesco d’Assisi, un Santo Vescovo, probabilmente S. Nicola di Bari, e Santa Lucia, impreziosita da una fine punzonatura, è per ragioni stilistiche piuttosto riconducibile all’ambiente artistico fiorentino intorno alla metà del Quattrocento. L’opera è avvicinabile a personalità artistiche come Domenico di Michelino (Firenze 1417/18-1491), pittore e miniaturista formatosi nella cerchia dell’Angelico e di Zanobi Strozzi, poi influenzato anche da Filippo Lippi. Nell’opera si riscontrano talune affinità con questo artista, come nella costruzione dei panneggi, risolti con un tenero cromatismo arricchito di cangiantismi di derivazione angelichiana, nelle peculiari fisionomie dei santi, come nel volto di Santa Lucia e in generale nell’espressione un po’ attonita delle figure, sebbene declinate con cadenze maggiormente goticheggianti.
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Lotto 212 Pier Antonio Michi
(Michi, Chiesina Uzzanese primo decennio del XVII secolo – Firenze, 1656)
SALOMONE RICEVE LA REGINA DI SABA
olio su tela, cm 207x256,5
Provenienza
Villa Lupezzinghi Ceoli, Titignano, Cascina di Pisa
L’opera, di provenienza ab antiquo oggi sconosciuta, raffigura una scena ricca di personaggi, tra i quali un re e una regina, ambientata all’interno di una costruzione in pietra in stile classico. Grazie alla lettura dei personaggi e delle loro pose è possibile riconoscere nell’episodio illustrato l’incontro di Salomone con la regina di Saba. La storia, narrata con dovizia di dettagli nel libro biblico de I Re (10, 1-13), ricorda che la regina dei sabei, il cui nome secondo antiche tradizioni era Machedà o Bilqis, dopo aver appreso della grande saggezza di Salomone decise di recarsi con il suo seguito alla corte del re di Israele. L’incontro tra i due sovrani avvenne nella reggia di Gerusalemme e fu accompagnato da doni provenienti dall’Africa, portati appositamente dalla regina. In cambio dei doni, Salomone dette alla sovrana “quanto ella desiderava e aveva domandato, oltre a quanto le aveva dato con mano regale”. Secondo il Kebra Nagast , antico testo etiope la cui traduzione letterale significa Gloria dei Re, tra Salomone e la regina nacque una breve ma intensa storia d’amore che portò alla nascita di un figlio, Menelich I, futuro sovrano d’Etiopia.
La tela, finora inedita e anonima, rappresenta, a un esame critico circostanziato, un’acquisizione importante al catalogo autografo di Pier Antonio Michi, interessante pittore toscano riscattato nei testi storico-artistici solo in tempi relativamente recenti.
Originario con probabilità di Michi, piccola frazione nel comune pistoiese di Chiesina Uzzanese, dove nacque nei primi anni del Seicento, l’artista, del quale ignoriamo al momento l’ambito formativo di appartenenza, giunse in giovane età a Firenze, dove nel 1633 si iscrisse all’Accademia del Disegno. Dopo opere realizzate per il capoluogo toscano, tra le quali abbiamo memoria oggi soltanto di un interessante affresco con il Trionfo della Verità incoronata da Giove eseguito nel 1638 in Palazzo Pitti, Michi operò soprattutto per le città di Pistoia e Prato, dove nel corso di vari anni realizzò dipinti degni di nota, in gran parte firmati o documentati. Aderente strettamente alla corrente naturalistica fiorentina e legato stilisticamente a maestri come Vincenzo Dandini, Lorenzo Lippi e Giovanni Martinelli, l’artista morì nella città del Giglio nel 1656 (per una traccia biografica e un elenco delle opere dell’artista si veda S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere , 3 voll., Firenze, 2009, I, pp. 202-203 e III, figg. 1086-1088; con bibliografia precedente). -
Lotto 213 Bartolomeo Bimbi
(Firenze 1648 – 1730)
Vaso di fiori all’aperto, con conchiglie, frutta e un uccellino
Olio su tela, cm 78x86,5
Firmato e datato “1721/BIMBI/….” al centro, sul piedistallo
Inedito
Provenienza: collezione privata
Sconosciuto alla letteratura artistica come al recente mercato dell’arte, lo splendido dipinto qui presentato costituisce un’aggiunta importante al pur ricco catalogo di Bartolomeo Bimbi.
Sebbene infatti la sua produzione ufficiale per la corte medicea – il Gran Principe Ferdinando e il Granduca Cosimo III – sia documentata dalle celebri tele oggi in gran parte riunite nel Museo della Natura Morta nella villa di Poggio a Caiano, i numerosi dipinti eseguiti per i collezionisti italiani e stranieri che, ci dice Baldinucci, ricercavano con passione le opere dell’artista fiorentino, sono riemerse solo parzialmente dalle raccolte che li conservavano.
La nostra composizione si pone dunque come saggio esauriente della capacità straordinaria del Bimbi nel riprodurre i diversi esemplari della vita naturale accostandoli altresì con intenti di raffinata, per quanto esuberante decorazione. La tela riunisce infatti in una combinazione rara e suggestiva le conchiglie e i fiori diversi altre volte oggetto di raffigurazione esclusiva, e li presenta all’aperto in un contesto almeno all’apparenza naturale: un insieme che non trova riscontro nel catalogo del Bimbi attualmente noto.
Nell’esauriente biografia dell’artista, peraltro suo contemporaneo, Francesco Saverio Baldinucci ( Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII . Edizione a cura di Anna Matteoli, Roma 1975, pp. 239-253 “Vita del pittore Bartolomeo del Bimbo”) ricorda però (p. 244) “un quadro di bellissimi fiori per un forestiero, con i quali pittorescamente dispose alcuni nicchi di varie sorti”: un dipinto che saremmo fortemente tentati di identificare col nostro se la data del 1721 appostavi dal pittore fiorentino non fosse in contrasto con la sequenza cronologica proposta dal biografo.
Baldinucci prosegue infatti ricordando quattro tele di sole conchiglie richieste al Bimbi dal cavalier Ferdinando Ridolfi che aveva appunto ammirato quel quadro, e soprattutto quelle commissionate dal Gran Principe Ferdinando (morto, come si sa, nel 1713) per documentare una selezione delle conchiglie rare presenti nelle commissioni medicee. -
Lotto 214 Intagliatore attivo nella bottega di Filippo Calendario, ultimo quarto sec. XIV
SAN BARTOLOMEO APOSTOLO
scultura in legno intagliato e policromato, cm 140 × 35 ca.
La statua lignea qui presentata è di eccellente qualità, appena intaccata da perdite non gravi di policromia e di materia lignea. E’ scavata sul retro e denuncia una tenuta coerente anche nella visione laterale, confortando l’ipotesi che sia in origine appartenuta ad un tramezzo oppure ad un manufatto altaristico. L’identificazione del santo come san Bartolomeo è garantita dal frammento di manico che egli impugna nella mano destra, di forma cilindrica e che presenta l’alveo dove era poi inserita la lama del coltello – di cui restano alcuni segni - usato per martirizzarlo.
La statica della figura vuol suggerire un lievissimo moto del corpo che prevede un appoggio maggiore sulla gamba destra, consentendo così di accentuare, sempre in termini minimi, sia un retrocedere serpentinato del busto, sia un gioco delle pieghe morbidamente discendenti a sinistra, sia l’accento sull’attributo del libro delle Sacre Scritture tenuto nella mano sinistra. Il vocabolario del panneggio è debitore degli stilemi dell’ultimo quarto del XIV secolo: sciolto, cadenzato e rilevato considerevolmente sul davanti del manto, racchiude un abile e sottile gioco di bilanciamento tra superfici lisce, ove la luce possa cadere ed espandersi, e zone di pieghe ove poter addensarsi. Le caratteristiche formali dell’ apostolo Bartolomeo , insomma , indicano una cronologia tutta gotico-internazionale. Altre utili indicazioni possono venirci dall’osservazione del volto. Mentre la capigliatura mostra un intaglio – credo volutamente - poco dettagliato, sensibile e raffinata si rivela la definizione del volto, con quello scivolare attento dei piani volumetrici tanto da segnalare il serrarsi inconsapevole della mascella e lo sporgere del labbro inferiore. L’intero volto ci appare così come sprofondato in una meditazione severa e pacata al tempo stesso. La sicurezza del procedimento d’intaglio presuppone indubbiamente il riferimento a un modello su cui ci si è a lungo addestrati, ma molto raro da incontrare se non nella produzione di Filippo Calendario.
Va valutato poi il peso che sul modellato rivela avere avuto la stesura pittorica: negli incarnati, in gran parte originali, essa ricopre infatti un ruolo essenziale: l’asciutta determinazione del volto intellettuale del Santo , così come la direzione bassa del suo sguardo quasi risucchiato dall’imponderabile, e il serrarsi volitivo delle piccole labbra sono tutte frutto dell’interpretazione pittorica (NOTA1). -
Lotto 215 Jacopo di Cione
(Firenze, attivo dal 1362 – 1398)
NATIVITA'' DI CRISTO
tempera e oro su tavola, cm 36 x 15,7
Provenienza
collezione privata, Milano
La tavola è ritagliata dall’anta sinistra di un trittichetto di devozione, che al centro doveva avere la Madonna col Bambino con eventuale contorno di altri santi, nell’anta di destra la Crocefissione, nelle cuspidi delle due ante in linea di massima l’Annunciazione. Il modello più autorevole per questo genere di trittici venne fornito da Bernardo Daddi e da Taddeo Gaddi nei due trittici rispettivamente del Museo del Bigallo (1333) e degli Staatliche Museen di Berlino (1334). Sul retro è dipinto in maniera sommaria un decoro a finto marmo, con losanga inscritta in un clipeo di gusto cosmatesco: si capisce che la tavoletta è stata resecata da una parte, corrispondente al lato destro della fronte, dove c’erano le cerniere di connessione col pannello centrale del trittico (ponendo il compasso al centro si può ipotizzare che manchino circa 2,5 cm); dall’altra parte la battuta ha probabilmente causato la perdita di un centimetro di pittura, che è stata reintegrata; in basso la resecazione ha rifilato i piedi di San Giuseppe; in alto si conserva il fregio punzonato che doveva delimitare dalla cuspide, dalla probabile raffigurazione dell’arcangelo Gabriele.
L’autore è riconoscibile in Jacopo di Cione, verso il 1375, al tempo dell’ Incoronazione della Vergine della Zecca (Firenze, Galleria dell’Accademia, 1372-1373), o poco oltre. Il volto di San Giuseppe, dalle ombre marcate, dal taglio lungo delle palpebre e dalla minuta resa calligrafica di barba e capigliatura, si confronta bene con i volti dei santi nella pala della Zecca. Il formato verticale di questi sportelli aveva indotto ad organizzare la composizione su più piani, partendo dal San Giuseppe pensoso, accoccolato a terra, in primo piano, risalendo su una scoscesa balza rocciosa al gruppo della Madonna col Bambino, alla mangiatoia con la capanna, alla roccia al fondo e in questo caso ad un edificio ad archi, rosa e luminoso, quale riempitivo al posto dell’annuncio ai pastori.
Nelle anconette fiorentine più diffusa è la composizione con la Vergine di profilo che adora il Bambino nella mangiatoia o ve lo sta riponendo, disponendo la capanna in maniera parallela al piano. Qui invece figure ed oggetti sono slegati, disposti per diagonali, accentuando l’indugio su dettagli più aneddotici, come tipico della pittura fiorentina del secondo Trecento. La Madonna, inoltre, è seduta a terra e tiene in braccio il Bambino, strettamente avvolto in una coperta giallo-aranciata, col dito proteso della mano destra per indicarlo o per fargli il solletico. -
Lotto 216 Jacques Courtois
(Saint-Hyppolite 1621-Roma 1675)
IL PASSAGGIO DEL MAR ROSSO
olio su tela, cm 12 8 x174
Provenienza
collezione Gerini, Firenze;
Finarte, Roma, asta 663 del 22 novembre 1988, n. 185;
Christie’s, Milano, asta del 26 maggio 2009, n. 16;
collezione privata, Roma
Bibliografia
Raccolta di ottanta stampe rappresentante i quadri più scelti de’ Signori Marchesi Gerini , 1759. II edizione, Firenze 1786, I, tav. XXXVIII; Catalogo e stima de’ quadri e bronzi esistenti nella Galleria del Sig. Marchese Giovanni Gerini a Firenze , Firenze 1825, n. 33; L. Trezzani, Quadri romani in una raccolta fiorentina: dipinti inediti dalla collezione Gerini, in “Paragone” LIV, 2003, n. s. 47/48, pp. 162-64 e p. 167, nota 19; fig. 22.
Inciso da Giuseppe Zocchi per il catalogo illustrato della collezione Gerini, il dipinto compare per la prima volta nell’inventario che nel 1733, alla morte del marchese Carlo Francesco, ne descrive il palazzo gentilizio in via del Cocomero (oggi via Ricasoli) e la consistenza della raccolta. Lo riconosciamo infatti nella “prima camera passata la Galleria” dove al n. 336 è descritto “un quadro del Borgognone entrovi la sommersione dell’esercito di Faraone con cornice intagliata e dorata alto br. 3 largo br. 3 e 15, sc. 130” (M. Ingendaay, La collezione Gerini a Firenze: documenti inediti relativi a quadri, disegni e incisioni , in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 51, 2007, p. 473; M.T. Di Dedda, Volterrano, Rosa, Mehus , Dolci, Borgognone e la quadreria del Marchese Carlo Gerini (1616-1673): documenti e dipinti inediti , in “Storia dell’Arte” 19, 2008, p. 66, n. 336).
E’ possibile tuttavia che il dipinto, riconosciuto al Courtois in occasione del passaggio in asta nel 1988 e successivamente pubblicato da Ludovica Trezzani, possa identificarsi con quello ricordato da Filippo Baldinucci nella sua biografia dell’artista come eseguito per il cardinale Carlo de’ Medici e descritto appunto come “il passaggio del popolo Ebreo nel Mar Rosso colla Sommersione del Faraone” ( Notizie de’ Professori del Disegno… (1681-1728), Firenze 1974, V, p. 215).
Numerosi e ben più importanti furono in effetti i dipinti donati dal cardinale Carlo de’ Medici al suo Gentiluomo di Camera e Cavallerizzo Maggiore, il marchese Carlo Gerini (1616-1673): tra questi opere di Pietro da Cortona, Ciro Ferri, Giovanni Bilivert e Giorgio Vasari, come risulta da documenti pubblicati da Elena Fumagalli e Martina Ingenday, mentre non vi è traccia riguardante un simile passaggio per la tela qui presentata. -
Lotto 217 Artista caravaggesco del primo quarto del XVII secolo CRISTO TRA DUE MANIGOLDI olio su tela, cm. 98,5X136,5 entro cornice “Salvator Rosa”sulla cornice, due etichette novecentesche parzialmente a stampa: “CORSINI ROMA. Numero 22. Quartier (…) Principe/Al 3° Piano d’Ingresso” e “Prop. B. PANDOLFINI/PROV. CASA CORSINI/Inv. N 293 Nota n. 39” Provenienza già collezione Corsi, Firenze;collezione privata Bibliografia D. Pegazzano, Corsi (parte prima), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento. 1, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto (Pisa) 2015, pp. 93-94, 112, fig. 5 Proveniente dalla collezione Corsi di Firenze e ora per la prima volta sul mercato dell’arte, il dipinto qui offerto è stato identificato da Donatella Pegazzano con la “Presa di Cristo di notte” citata senza indicazione di autore nell’inventario della collezione romana di Monsignor Lorenzo Corsi, redatto nel 1640 in vista del suo ritorno a Firenze; lo ritroviamo in altre descrizioni inventariali successive alla morte del prelato fiorentino (1656) e in particolare in quella redatta dal pittore Francesco Cozza nel 1659 quando, in occasione del trasferimento della raccolta nel palazzo della famiglia Corsi in via Tornabuoni a Firenze, il dipinto è ulteriormente descritto come “viene dal Caravaggio”, un’indicazione più utile a stabilirne l’orizzonte formale che l’effettivo modello, se mai ci sia stato.Come è evidente, si tratta infatti di una composizione originale per quanto strettamente legata ai capolavori della prima stagione post-caravaggesca, e in particolare a quelli di Bartolomeo Manfredi: ricordiamo come possibile precedente del nostro dipinto la bellissima Flagellazione di Cristo un tempo a Londra presso Patrick Matthiesen (Benedict Nicolson, Caravaggism in Europe. II edizione, Torino 1990, II, fig. 325).E’ in effetti a questo episodio della Passione, piuttosto che a quello raffigurato da Michelangelo Merisi nella tela già a palazzo Mattei, che il nostro dipinto si richiama nella sua composizione a sole tre figure: quella di Cristo già spogliato della tunica e coperto solo dalle pieghe annodate del perizoma richiama appunto il nudo plastico e lievemente chiaroscurato del già citato dipinto manfrediano, mentre più caricate e quasi bestiali appaiono le figure dei suoi tormentatori.Pubblicato dalla Pegazzano come possibile opera di Dirck van Baburen, il dipinto non pare, per la verità, riconducibile all’artista di Utrecht, attivo a Roma nel secondo decennio del secolo e noto in particolare per le tele documentate in San Pietro in Montorio: ed è appunto il confronto con la sua Cattura di Cristo a Roma nella Galleria Borghese a sottolineare importanti divergenze stilistiche rispetto al dipinto qui presentato.
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Lotto 218 Agnolo di Polo de’ Vetri
(Firenze, 1470 – Arezzo, 1528)
CRISTO GIOVINETTO, 1510 circa
busto ad altorilievo in stucco dipinto, cm 57,3 (50 cm senza lo zoccolo in legno)x48,5x17,5
sul retro, nel piano della base in legno, cartiglio con la seguente iscrizione: “Proprietà del Senatore Morelli 99”;
sul retro della base iscrizione a bistro su carta, solo in parte leggibile, con riferimenti alla collocazione del busto
Provenienza
già collezione senatore Giovanni Morelli;
collezione privata, Brescia
Bibliografia di riferimento
P. Bacci, Agnolo di Polo allievo del Verrocchio , in “Rivista d’Arte”, III, 9, 1905, pp. 159-171; P. Francioni, La Madonna del Presepe nella Pieve di Terranova e… Agnolo di Polo , San Giovanni Valdarno 1997; L. Lorenzi, Agnolo di Polo. Scultura in terracotta dipinta nella Firenze di fine Quattrocento, Ferrara 1998; L. Pisani, Appunti su Agnolo di Polo , in “Zbornik za umetnostno Zgodovino”, XL, 2004, pp. 114-126; P. Helas, Ondulationen zur Christusbüste in Italien (ca. 1460 - 1525) , in Kopf / Bild. Die Büste in Mittelalter und Früher Neuzeit , a cura di J. Kohl e R. Müller, München - Berlin 2007, pp. 153-209; L.A. Waldman, The terracotta sculptor Agnolo di Polo de'' Vetri: the prison, the pievano, the Pratese, and the cook , in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 51, 2007 (2009), pp. 337-350.
Questa gentile, soave effigie adolescenziale, assorta in segreti pensieri velati da una struggente malinconia, costituisce una rarissima interpretazione plastica autonoma dell’immagine di Cristo giovinetto , come si deduce dalla concezione tipologica, iconografica e formale del tutto affine ai molti busti in terracotta e in stucco dipinto raffiguranti il Redentore adulto prodotti a Firenze tra Quattro e Cinquecento da numerosi artisti di cultura verrocchiesca, nel clima di riforma spirituale e sociale promosso dalla predicazione del Savonarola che nel dicembre 1494 aveva proclamato “Gesù re di Fiorenza”. Tali affinità - che, come meglio vedremo, la imparentano in particolare con i busti di Cristo realizzati da Agnolo di Polo - sono agevolmente riscontrabili, pur nella diversa età rappresentata, in un medesimo andamento dei capelli, bipartiti sulla fronte, lisci fino alle orecchie e inanellati sulle spalle, nelle simili fattezze del volto, terso, amabile e incline a una solenne mestizia, secondo l’aspetto di Gesù tramandato da una popolare fonte apocrifa ( Epistula Lentuli ad Romanos de Christo Jesu ), e persino nella foggia della veste: una semplice tunica purpurea, impreziosita lungo lo scollo da un gallone, con un manto azzurro appoggiato sulla spalla sinistra. -
Lotto 219 Bartolomeo Bimbi
(Settignano 1648 – Firenze 1729)
FIORI IN UN VASO DI CRISTALLO, CILIEGIE E CARAMICHE
olio su tela, cm 79x133,5
Corredato da pareri scritti di Mina Gregori e Sandro Bellesi -
Lotto 220 Pittore fiorentino, metà sec. XVIII
RINALDO E ARMIDA
olio su tela, cm 2 79 x 174
Provenienza
Villa Pucci di Granaiolo (Castelfiorentino)
collezione privata, Montecatini
Secondo la tradizione fiorentina del pieno Settecento l’opera riflette un interesse marcato per la pittura bolognese contemporanea che possiamo cogliere nell’evidenza statuaria e nella resa tornita delle figure poste in primo piano, che introducono lo sfondo di paesaggio, e nei passaggi di luce ed ombra che creano volume.
La scena raffigura in primo piano Rinaldo e Armida, immersi in una vegetazione lussureggiante, sulla destra una fontana zampillante d’acqua e sulla sinistra si intravedono Carlo e Ubaldo, andati alla ricerca del loro compagno, che sorprendono i due amanti. Il giovane guerriero cristiano è trattenuto dalla maga Armida nel giardino incantato. Rinaldo volge languidamente lo sguardo verso la giovane donna che lo ha trasformato in uno schiavo d''amore.
Questa suggestiva storia d''amore e di magia, raccontata da Torquato Tasso nella “Gerusalemme liberata”, è stata fonte di ispirazione per molti artisti soprattutto di epoca barocca che hanno raffigurato l’abbandono amoroso dei due amanti.
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Lotto 221 Vittorio Barbieri
(Firenze 1674-1775 circa)
SAN GIOVANNINO ORANTE
marmo bianco, alt. cm 86 poggiante su colonna scanalata in legno, dipinto a finto marmo, alt. 110,5 cm
Bibliografia
M. Visonà, Classicismo e sensibilità nella scultura di Vittorio Barbieri , in «Paragone», 42, 1991, pp.39-67
L''opera è pubblicata da Mara Visonà in un ampio e approfondito studio dedicato allo scultore fiorentino Vittorio Barbieri.
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Lotto 222 Onorio Marinari
(Firenze 1627 – 1715)
SANT’AGNESE
olio su tela, cm 76,5 x 65
Provenienza
già Palazzo Feroni, Firenze;
per successione ereditaria, collezione privata, Firenze
Il dipinto raffigura una giovane donna elegantemente abbigliata, facilmente identificabile in Sant''Agnese per la presenza della palma del martirio nella mano destra e dell''agnello, caratteristici attributi iconografici della giovanissima martire cristiana, uccisa a causa della propria fede durante le persecuzioni di Diocleziano all''inizio del IV secolo d.C.
La tela è riferibile per via stilistica al pittore fiorentino Onorio Marinari, cugino e allievo di Carlo Dolci, di cui egli fu indubbiamente il miglior seguace. Nella bottega del maestro dovette entrare con buona probabilità già nella prima metà degli anni Quaranta del Seicento, probabilmente continuando la collaborazione con il padre Gismondo, anch''egli pittore come da consolidata tradizione famigliare. Dopo aver a lungo affiancato il celebre cugino nel far fronte alle sempre più pressanti richieste della committenza, Marinari divenne pittore pienamente indipendente e ricercatissimo dall''aristocrazia fiorentina. Tra i suoi numerosi committenti spiccano alcuni membri della famiglia granducale: Vittoria della Rovere, Cosimo III de''Medici, il figlio di quest''ultimo, il Gran Principe Ferdinando e il cardinale Francesco Maria.
Possiamo ragionevolmente affermare di essere di fronte ad un''opera della piena maturità di Marinari: l''evidente sicurezza stilistica e compositiva acquisita dal pittore si esprime qui in un linguaggio personale che ormai, pur gemmato dalla consueta ripresa dei modelli di Dolci, non si limita alla pedissequa imitazione del maestro ma rivaleggia con la sua altissima perfezione formale. Marinari, infatti, raggiunge in questa tela un''estrema finezza tecnica, evidente nella resa quasi virtuosistica dei panneggi, nell''incarnato smaltato del volto appena acceso dal leggero rossore delle guance, dalla scelta dei sottili contrasti cromatici della veste.
Non mancano, in questa Sant''Agnese, le cifre stilistiche peculiari di Marinari: assolutamente caratteristici risultano, infatti, la tonalità bionda dei capelli della fanciulla disposti in ciocche di boccoli che in parte ricadono lungo il volto, in parte sono raccolti ai lati della testa e sulla nuca a comporre una complicata acconciatura e l''esecuzione delle mani, da considerarsi quasi una firma del pittore, con le dita dalla tipica forma conica distese sul vello dell''agnello. -
Lotto 223 Giovanni Battista Ramenghi, detto il Bagnacavallo
(Bologna, 1521 – 1601)
NOZZE MISTICHE DI SANTA CATERINA
olio su tavola, cm 84x69,5, in cornice intagliata e dorata
Provenienza
Christie’s, Londra, 9 aprile 1990, lot 59;
collezione privata
In asta a Londra con il corretto riferimento al Bagnacavallo junior, la tavola qui offerta presenta il tema preferito dal pittore bolognese, o più verosimilmente dai suoi committenti, e da lui più frequentemente proposto sebbene con invenzioni compositive sempre diverse. Tra le diverse versioni, di cui alcune commentate da Elisabetta Sambo ( In margine al Bagnacavallo junior , in “Paragone” 37, 1986, 431-33, pp. 59-65) è quella nella Gemäeldegalerie di Dresda, accompagnata da un disegno all’Albertina di Vienna, a offrire i più stretti confronti con la nostra.
Databile nella piena maturità dell’artista, tra sesto e settimo decennio del Cinquecento, l’opera compendia in sé tutti gli elementi che contribuirono a definire la cultura formale del più giovane Ramenghi, dal classicismo sotteso all’equilibrio monumentale del gruppo, alla palese citazione di Raffaello nella figura del San Giuseppe, fino alla raffinatezza della Maniera tosco-romana ispiratrice dei colori iridescenti e del ritmo flessuoso della Santa Caterina.
Elementi, questi ultimi, che ci conducono in prossimità della pala firmata per esteso nella Pinacoteca di Bologna raffigurante la Vergine in trono accompagnata da cinque santi e dal piccolo Giovanni Battista da cui ha preso le mosse la restituzione del catalogo del pittore, a lungo misconosciuto, e che nuovi elementi documentari suggeriscono oggi di datare nel 1563 (M. Danieli, Precisazioni su Giovan Battista Ramenghi detto il Bagnacavallo junior , in “Storia e Critica delle Arti” 2, 2001, pp. 162-85).
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Lotto 224 Scuola umbro-abruzzese, metà sec. XIV
MADONNA
Scultura lignea policroma, alt. cm 147
Provenienza
collezione privata, Parma
Bibliografia
E. Carli, Per il “ Maestro della Santa Caterina Gualino ”, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan , Roma 1984, I, pp. 59-63; G. Previtali, Due lezioni sulla scultura “umbra” del Trecento. II. L’Umbria alla sinistra del Tevere , in “Prospettiva”, 38, 1984, p. 41; G. Previtali, Studi sulla scultura gotica in Italia ”, Torino 1991, p. 81, nota n. 12; M. Lucco, Opere d’arte da una collezione privata , Parma 1993, p. 18-19.
La scultura è stata pubblicata per la prima volta nel 1984 da Enzo Carli (in “Studi in onore di Giulio Carlo Argan ”) proponendone l’identificazione in una Vergine annunciata in quanto priva di caratteri e attributi iconografici che consentissero di riconoscervi una santa. Carli riteneva che questa opera facesse parte di un gruppo sceltissimo di statue lignee ricostruito dal Previtali nel 1965 (“ Sulle tracce di una scultura umbra del Trecento. Il “Maestro della Santa Caterina Gualino” in “Paragone” 181, 1965) e riferito ad una personalità da lui convenzionalmente denominata “Maestro della Santa Caterina Gualino”. Carli rilevava, pur nella diversa impostazione, affinità formali tra la nostra statua e la Madonna con Bambino di collezione privata esposta nel 1961 alla Mostra dell’Antiquariato di Firenze, quali il modulo facciale allungato, il naso affilato, le labbra sottili e sensibili, le arcate orbitali rialzate e fortemente scandite. Riguardo alla provenienza, Carli propendeva per collocare la statua in ambito umbro-abruzzese, dove a seguito di movimenti di artisti, reciproci contatti e assimilazione di modelli iconografici si costituisce un’area stilistica caratterizzata da una cospicua serie di sculture dovute ad artefici diversi, tutte databili entro il secondo decennio del Trecento. La nostra opera presenta una figura altocinta, dalle spalle robustamente costruite, dai panneggi ricchi e mossi, con la serpeggiante vicenda lineare del bellissimo bordo dorato del manto. Lo studioso riteneva possibile riferire questa opera all’ultima fase del “Maestro della Santa Caterina Gualino”, proponendone una datazione intorno al 1330-1335. D’altra parte, Previtali nel 1991 fece osservare che la bella Vergine annunciata (sulla quale nutriva dubbi dal punto di vista iconografico) mostrava alcuni tratti estranei a questo gruppo, come ad esempio nell’uso dei punzoni che “non rende agevole l’inserzione nel catalogo del maestro della Santa Caterina Gualino”. In seguito la statua è stata nuovamente presa in esame da Mauro Lucco nel 1993 in un’attenta scheda specifica, nella quale lo studioso ripercorre gli studi compiuti, in particolare dal punto di vista iconografico e stilistico, riferendo l’opera ad un anonimo artista di ambito umbro-abruzzese. -
Lotto 225 Giuseppe Zais
(Forno di Canale, Belluno, 1709 – Treviso 1781)
PAESAGGIO BOSCOSO CON CONTADINI E CASE IN LONTANANZA
PAESAGGIO FLUVIALE CON GIOVANE PESCATRICE E ANIMALI
coppia di dipinti a olio su tela, cm 95,5x131 ciascuno (2)
Splendidi esempi della produzione di Giuseppe Zais, le tele qui presentate devono probabilmente situarsi negli anni della maturità del pittore agordino, intorno al settimo decennio del secolo. Ancora sensibile, nel primo dipinto, il richiamo ai modelli paesistici di Marco Ricci, in particolare nelle scelte cromatiche e nell’ambientazione agreste, mentre la tela compagna mostra la piena adesione ai motivi decisamente arcadici proposti da Francesco Zuccarelli, presente a Venezia fin dalla metà degli anni Trenta. E’ appunto sul suo esempio che Giuseppe Zais, iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani dal 1748, si allontana progressivamente dal relativo naturalismo dei giovanili paesaggi agresti per aderire alla formula decorativa e alla tavolozza chiara e luminosa con cui il maestro di Pitigliano aveva incontrato il favore dei collezionisti veneziani e di terraferma. Ai suoi modelli si deve appunto il motivo delle giovani pastorelle intente alla pesca appena sotto la cascata, come la luminosa apertura sui monti azzurrini in lontananza. Innumerevoli, e in fondo superflui, i possibili confronti con la produzione dell’artista agordino, per lo più in collezione privata oltre che all’Accademia di Venezia, che conserva altresì l’unica opera datata, del 1765.
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Lotto 226 Francesca Volò Smiller, detta Francesca Vicenzina
(Milano 1657 – 1700)
ROSE, UVA E GELSOMINI ALL''APERTO
olio su tela, cm 73x94
Provenienza
collezione privata, Brescia
Bibliografia
G. e U. Bocchi, Naturaliter. Nuovi contributi alla natura morta in Italia settentrionale e Toscana tra XVII e XVIII secolo, Casalmaggiore 1998, pp. 104 e 106, fig. 104; A. Cottino, I fiori di Francesca , Legnano (VA) 2007, p.17.
L''attribuzione è confermata anche da un parere scritto di Alberto Cottino
Citato nel 1983 da Ferdinando Bologna, e pubblicato per la prima volta da Ulisse e Gianluca Bocchi, il dipinto qui offerto è da considerarsi pendant di una composizione firmata per esteso “FRANCESCA VICENZINA FECIT” (Bocchi, 1998, fig. 103): insieme a quella costituisce dunque uno dei rari punti di partenza per la ricostruzione del catalogo dell’artista milanese. La sua appartenenza alla famiglia del francese italianizzato Vincenzo Volò, detto Vincenzino dei Fiori, padre di Margherita Caffi e del più giovane e noto Giuseppe Vicenzino oltre che della stessa Francesca, aveva reso difficile fino a quel momento identificare il suo contributo alla produzione di quella fiorente bottega. Come Margherita, infatti, Francesca dispone all’aperto e con grande libertà compositiva fiori recisi o disposti in vaso i cui colori scintillanti (prediletti il rosa, il bianco e il giallo) emergono dal fondo scuro. Rispetto a quelli della Caffi, i fiori di Francesca Vincenzina, talvolta accompagnati da verdure, risaltano per la loro precisa definizione, come poi quelli del più famoso Giuseppe, e sono appunto questi i dati che emergono dall’esame dello splendido dipinto qui proposto, importante anche per dimensioni.
Priva di date certe, l’attività dell’artista si svolse a Milano per almeno due decenni, riscuotendo ampio successo presso il collezionismo locale, come indicano le citazioni inventariali. Inaugurata dalle ricerche di Ferdinando Bologna in occasione di una mostra romana, la restituzione di questa importante personalità artistica ha avuto il suo culmine nell’esposizione I fiori di Francesca tenuta nell’autunno 2007 presso la Galleria Romigioli a Legnano, a cura di Alberto Cottino.
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Lotto 227 Artista attivo a Roma alla metà del XVIII secolo
CAPRICCI ARCHITETTONICI CON FIGURE
coppia di dipinti a olio su tela, cm 98x73 (2)
Ispirati a edifici di età imperiale – un arco trionfale con un tratto di mura e la piramide Cestia sullo sfondo; una facciata monumentale di ordine corinzio ornata da statue di barbari prigionieri, quali le sculture di età traianea riutilizzate per l’arco di Costantino – i capricci architettonici qui presentati si iscrivono nel clima fervido della Roma di metà Settecento quando, nell’ambiente internazionale richiamato dal Grand Tour, architetti e disegnatori si dedicano al rilievo dei monumenti antichi della città e dei dintorni, spingendosi peraltro nell’Italia meridionale e ben oltre i confini della penisola per documentare le vestigia del passato, ad uso dei viaggiatori stranieri ma anche nella ricerca di modelli architettonici inediti e filologicamente corretti per le dimore aristocratiche da progettare nel gusto più moderno e aggiornato.
Tra i protagonisti di questo momento, è senza dubbio Jean-Louis Clérisseau (Parigi 1721- Auteuil 1820) a Roma dal 1749 presso l’Accademia di Francia, e dal 1755 responsabile dell’équipe di disegnatori ingaggiati da James Adam per riprodurre i complessi termali romani e, nel 1757, le rovine imperiali di Spalato pubblicate a Londra nel 1764. Accanto a lui, Antonio Zucchi (Venezia 1726- Roma 1795) che nel 1766 si trasferisce in Inghilterra per collaborare con gli architetti Robert e James Adam alla decorazione di interno delle residenze ispirate all’antico da loro progettate per l’aristocrazia inglese. Ed è appunto alle straordinarie tempere dell’artista francese, spesso completate dalle “macchiette” del veneziano e alle tele eseguite da quest’ultimo per i nobili committenti dello studio Adam (si vedano quelle per Osterley Park, del 1767) che le tele qui presentate, veri e propri capricci vedutistici su basi archeologiche, si accostano nella precisa definizione degli elementi architettonici che compongono l’ordine dorico dell’arco trionfale e lo scenografico frontespizio corinzio in parziale rovina coronato dalle statue dei barbari.
Lo stile delle nostre macchiette, ancora legato al lontano modello ghisolfiano e comunque di gusto tipicamente romano non consente tuttavia di avanzare il nome di Antonio Zucchi, qui richiamato solo per evidenziare una singolare coincidenza di gusto, fondamentalmente diverso e più moderno di quello, fino allora imperante, di Giovanni Paolo Panini.
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Lotto 228 Michele Antonio Rapous
(Torino 1730 - 1819)
FIORI E FRUTTA ALL''APERTO
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 61x105 ciascuno (2)
Provenienza
Ferdinando di Savoia, Duca di Genova;
collezione privata;
Falanga Antichità, Milano;
collezione privata -
Lotto 229 Michele Antonio Rapous
(Torino 1730 - 1819)
FIORI E FRUTTA ALL''APERTO
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 61x105 ciascuno (2)
Provenienza
Ferdinando di Savoia, Duca di Genova;
collezione privata;
Falanga Antichità, Milano;
collezione privata
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Lotto 230
GIOVANNI MARTINELLI
(Montevarchi, Arezzo 1600-1604 – Firenze, 1659)
ANGELICA E MEDORO
olio su tela, cm 155,5x181 entro antica cornice con intagli dorati a motivi fogliati e classici, laccata color ocra-rosato
Provenienza
Villa Lupezzinghi Ceoli, Titignano, Cascina di Pisa
La tela presenta una scena idilliaca, ambientata in un ameno sfondo paesistico prossimo all’imbrunire, con un giovane uomo e un’avvenente figura femminile accompagnata da due coppie di putti, tutti raffigurati in primissimo piano. In base alla particolarità della posa dell’uomo intento a scrivere con una penna o stilo qualcosa sulla corteccia di un albero è possibile identificare nei due protagonisti del dipinto Angelica e Medoro, coppia di innamorati resa celebre da Lodovico Ariosto nel suo Orlando furioso . In base a questo poema apprendiamo che Medoro, soldato saraceno, per rendere noto al mondo intero il suo amore per Angelica, principessa del Catai, scrive i propri nomi sulla corteccia di un albero. Il tema, apprezzato in ambito artistico italiano soprattutto in età barocca, sottolinea, paradigmaticamente, il successo e la diffusione del poema ariostesco, dal quale furono tratte, insieme a episodi della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, numerose redazioni pittoriche e scultoree. Interessanti alternative ai più correnti soggetti storici o mitologici, le scene ispirate ai poemi cavallereschi italiani incrementarono notevolmente il panorama artistico-iconografico seicentesco, alla costante ricerca di nuove fonti tematiche di rappresentazione.
I caratteri stilistici e la particolarità tipologica delle figure inducono ad ascrivere convincentemente il dipinto a Giovanni Martinelli, figura di punta della corrente naturalistica fiorentina, al quale è stata dedicata nel 2011 una mostra monografica nella sua cittadina di origine, Montevarchi ( Giovanni Martinelli pittore di Montevarchi. Maestro del Seicento fiorentino , catalogo della mostra a cura di A. Baldinotti, B. Santi e R. Spinelli, Montevarchi, Firenze, 2011).
Nato tra il 1600 e il 1604, Martinelli compì i suoi studi artistici a Firenze, dove all’inizio degli anni venti è documentato nella scuola di Jacopo Ligozzi, pittore al quale rimase legato per vari anni. Poco dopo aver dato inizio a un’attività indipendente, l’artista si recò con probabilità a Roma, città nella quale ebbe modo di accostarsi alla corrente post-caravaggesca di chiara impronta naturalistica legata, in quel tempo, a vari artisti italiani e d’oltralpe. Al rientro in patria dette il via a una serrata attività segnata da dipinti su tela e ad affresco che sancirono entro breve tempo la sua affermazione professionale, testimoniata dall’acquisizione del titolo di accademico nel 1637 all’Accademia del Disegno a Firenze, onorificenza conferita solo agli artisti più importanti. -
Lotto 231 Denijs Calvaert
(Anversa, c. 1540 – Bologna 1619)
NOZZE MISTICHE DI SANTA CATERINA
olio su tavola, cm 72x54, in cornice intagliata e dorata
Provenienza
collezione privata, Bologna
Tradizionalmente riferita a Calvaert nella raccolta di provenienza, e forse identificabile (per motivi di discendenza familiare) con un dipinto di tale soggetto descritto nel Seicento in casa Angelelli a Bologna, la tavola qui presentata offre numerosi confronti con la produzione pubblica dell’artista anversese, più che con i preziosi rametti a piccole figure e colori squillanti da lui destinati alla devozione domestica dei suoi concittadini d’adozione, o più semplicemente al collezionismo privato.
Sono però inconfondibili le fisionomie dei sacri personaggi, protagonisti di un evento domestico e quasi familiare che riunisce, in maniera un po’ incongrua, la Sacra Famiglia completata dal precursore bambino, e lo sposalizio mistico della giovane santa: documento di quella affettuosa devozione domestica che caratterizza tanta parte della pittura controriformata del secondo Cinquecento bolognese.
I maggiori punti di contatto sono offerti da pale eseguite da Calvaert nell’ultimo periodo della sua attività pubblica, quali la Madonna e Santi nel convento di San Luca a Bologna, del 1606, e soprattutto la Madonna col Bambino e San Francesco eseguita nel 1607 e ora Greenville (South Carolina, Bob Jones University, Collection of Sacred Art), accompagnata dal disegno un tempo a Londra presso Yvonne Tan Bunzl (1970).
Ben leggibili sotto la vernice ingiallita, i riccioli d’oro filato della giovane santa coronata di nastri e gioielli lasciano intuire la tecnica magistrale del pittore fiammingo, così felicemente italianizzato da accogliere quale maestro nella sua bottega un’intera generazione di pittori bolognesi.
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Lotto 232 Giuseppe Zais
(Forno di Canale, Belluno 1709 – Treviso 1781)
PAESAGGIO CON PASTORE E PASTORELLE PRESSO UN FIUME
PAESAGGIO CON PASTORI E UN BIMBO, CON PONTE IN LONTANANZA
Coppia di dipinti a olio su tela, cm 38,5x45,5 ciascuno (2)
Provenienza
collezione privata Vicenza;
collezione privata, Roma
Bibliografia
E. Martini, La pittura del Settecento veneto , Udine 1982, fig. 257 (il primo dipinto).
Corredati da paperi scritti di Egidio Martini, Rodolfo Pallucchini, Carlo Volpe e brevi indicazioni attribuitive di Giuliano Briganti
Riferiti nel 1978 al catalogo dell’artista agordino in una comunicazione privata al proprietario, i dipinti pendants qui offerti sono stati pubblicati da Egidio Martini nella seconda e più ricca edizione della sua opera fondamentale dedicata alla pittura veneziana del Settecento. La sua opinione era stata peraltro condivisa dai maggiori specialisti di pittura italiana del secolo scorso, tra cui Rodolfo Pallucchini e Carlo Volpe, che ne scrissero diffusamente per quanto in forma privata.
Nella difficoltà di stabilire una cronologia sia pure approssimativa del ricco catalogo di Giuseppe Zais, di cui solo il Paesaggio con fontana classica nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, offerto nel 1765 quale pièce de réception reca una data certa, tutti gli studiosi citati concordano nel riferire i dipinti ad una fase matura dell’attività dell’artista, ormai indipendente dai suoi primi possibili maestri, Francesco Simonini e, più specificamente per quel che attiene al paesaggio, Francesco Zuccarelli.
E’ in effetti negli anni del soggiorno inglese di quest’ultimo, fra il 1752 e il 1762, che Giuseppe Zais, privo di un concorrente diretto in patria, raggiunse il successo presso i collezionisti veneziani e lo stesso console Smith. Fu tuttavia negli anni Sessanta, periodo a cui queste tele sono state riferite, che Zais diede le prove più felici della sua attività, schiarendo la sua tavolozza e proponendo quella sua personale forma di Arcadia di cui anche la coppia di tele qui esaminata offre una precisa testimonianza, nella commistione di motivi ideali e realistici.
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Lotto 233 Famiglia Crespi
(Bologna, sec. XVIII)
FUGA IN EGITTO
olio su tela, cm 9 4,5X74,5
Provenienza
collezione privata, Bologna
collezione privata, Roma
In un bosco buio appaiono d’un tratto tre figure, anzi quattro. Sono un giovane angelo scalzo, che conduce per le redini l’asino su cui siede Maria col Bimbo in braccio. Il fianco lo guarda Giuseppe, che avanza aiutandosi con un bastone. Non si ode un rumore, Maria porta l’indice alle labbra, per invitare tutti a tacere e non svegliare il piccolo che dorme, gli occhi chiusi, il capo poggiato sopra la spalla nuda. Incedono lentamente, sotto lo sguardo supino di un bove pasciuto e di qualche pecora (si direbbe, appena accennata a risparmio sulla tela). Ma cala la sera, la luce lontana che filtra tra i rami e le frasche comincia ad ingiallire e bisognerà trovare un riparo per la notte. La storia è raccontata nella parte iniziale nel solo Vangelo di Matteo, ed è detta “Vangelo dell’infanzia” (Mt 1-2). Fuggivano quei tre dalla persecuzione ordita da Erode Ascalonita detto Il Grande, re della Giudea sotto il protettorato romano che, per eliminare il messia annunciato dall’arrivo dei Magi a Gerusalemme, ordinò lo sterminio di tutti i neonati maschi nel territorio di Betlemme. Avvisato in sogno da un angelo, Giuseppe radunò in fretta la famiglia e pochi averi e fuggì in Egitto. La strada per arrivarci dalla Galilea è oggi piuttosto asciutta e desertica salvo, forse, il tratto iniziale e, sospetto, lo era anche ai tempi dello Spagnuolo, come era noto Crespi a Bologna. I rari alberi lungo quel cammino li si troverebbero deviando verso Gerusalemme, ma quella era proprio la direzione da evitare. Ma il bosco immaginato è quello di grandi querce, con le siepi di prugnolo e biancospino, proprio della collina bolognese e la parete sulla destra è di argilla scagliosa, l’arenaria friosa di un calanco. I placidi armenti che assistono impassibili al passaggio del grupo sacro pascolano anche in altre tele dello Spagnuolo e della sua cerchia, vendute alla Fiera di Poggio a Caiano degli Uffizi (nota1). Tanto affollato era quel mercato ed altri, assieme a quello (come la Scena di Mercato della Pinacoteca Nazionale di Bologna) (nota2) , che allo Spagnuolo vennero attribuiti anche alcuni disegni fiorentini con mucche, pecore e cani a matita rossa (nota3) , ché certo aveva pur dovuto ben guardare e forse anche studiare, seppure non su quei fogli. Alcuni fragili, altri tra i quali una Fuga in Egitto (nota4) , abili ma troppo precisi per la mano guizzante e il segno pastoso di Crespi, testimoniano del lavorio della sua larga bottega, quella che andrà chiamata “Famiglia Crespi” e che comprendeva, oltre agli alunni, inizialmente numerosi, anche i suoi non pochi figli ed il famiglio Ludovico Mattioli. -
Lotto 234 Maestro dei Vasi a Grottesche
(attivo tra il XVI e il XVII secolo)
GRANDI VASI IN METALLO SBALZATO CON ANSE A FORMA DI SATIRO
c oppia di dipinti ad olio su tela, cm 94x116 ciascuno (2)
Provenienza
collezione privata, Bologna