90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE

Pandolfini Casa d'Aste - Borgo degli Albizi (Palazzo Ramirez-Montalvo) 26, 50122 Firenze

90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE

martedì 28 ottobre 2014 ore 19:00 (UTC +01:00)
Lotti dal 1 al 35 di 35
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  • COPPA BACCELLATAVenezia, 1500 ca. Rame con smalto dipinto a strati;...
    Lotto 1

    COPPA BACCELLATA
    Venezia, 1500 ca.
     
    Rame con smalto dipinto a strati; dorature
    alt. cm 5,1; diam. 27,7 cm; diam. piede cm 11,1
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
     
    Scalloped Bowl, copper with enamel painted in layers; gildings
    H. 5.1 cm; diam. 27.7 cm; foot diam. 11.1 cm
     
    An export licence is available for this lot
     
     
    € 50.000/70.000 - $ 65.000/91.000 - £ 40.000/56.000
     
     
    La coppa in rame umbonata ha forma circolare con voluta centrale a baccellature rilevate e arcuate disposte attorno al centro, delimitato da una cornice a rilievo d’ispirazione ispano-moresca. La tesa mostra una fascia a baccellature concave delimitate da parti a rilievo in una generale disposizione che alterna pieni e vuoti. Le volute bianche, anch’esse con forma incurvata, si estendono sulla superficie incorniciate da una serie di petali dalla forma a larga goccia, che adornano l’orlo alto con labbro arrotondato, su smalto verde scuro. Il centro, incorniciato di blu, reca la scritta dorata “MONTES” su fondo bianco. Le baccellature arcuate della tesa, a imitazione delle penne di pavone, mostrano il colore di fondo bianco con lumeggiature blu e sottili tocchi d’oro disposti a piccoli fiorellini. La forma è sottolineata dallo smalto verde, che prosegue fino a riempire l’ultima fascia di baccellature, dove il decoro in oro assume le sembianze di un piccolo cespuglio centrato da un tocco di rosso. Il blu conclude l’ornato sull’orlo, mostrando tracce della doratura originaria.
    Il retro della coppa è interamente ricoperto di smalto blu cobalto, salvo una porzione, al di sotto del piede, dove si intravvede il rame sotto uno strato sottile di vetro. Il blu intenso è decorato con piccole stelline dorate dipinte a fasce concentriche nelle incavature delle baccellature e, con maggior concentrazione, lungo l’attaccatura del piede. Le stesse stelline sono presenti anche all’interno del piede.
    Questa tipologia di coppa fu in uso a Venezia sia per uso ecclesiastico che per uso secolare, e spesso recava al centro uno stemma nobiliare, sostituito nel nostro caso dal motto “MONTES”. Esso deriva dal gruppo dei quindici salmi detti “delle ascensioni” (Libro dei Salmi, Salmo 120: “Levavi oculos meos in montes”), e tuttavia fu spesso utilizzato come motto negli stemmi nobiliari.
    La coppa ripropone una formulazione morfologica e decorativa ormai unanimemente attribuita all’area veneta, in particolare alla città di Venezia, e ascritta a un arco cronologico compreso tra la fine del XV e gli inizi del secolo XVI. Proprio in questo periodo la città lagunare produsse alcuni tra i migliori esemplari di smalti in Europa, e a questo proposito interessanti sono le ipotesi di un collegamento con le tradizionali tecniche lagunari basate sull’affinità con i vetri muranesi, avanzate già nel 1885 da Émile Molinier e confermate poi da Lionello Venturi negli anni Venti.
    La tipologia del nostro piatto appartiene al secondo periodo di produzione, quando fu introdotta una nuova tecnica a smalto: questa prevedeva una prima copertura degli oggetti in rame con smalto bianco e la loro cottura, alla quale seguiva la vera e propria decorazione con una successiva applicazione degli strati colorati, in genere in blu e verde, e quindi una nuova cottura a temperature differenti; seguiva infine l’applicazione degli ornati dorati.
    Gli esemplari di produzione veneziana sono rari, alcuni conservati nelle collezioni dei principali musei italiani ed esteri. Per la tecnica si vedano le due coppe su alto piede, una non completa, della Walters Art Gallery di Baltimora, mentre esempi morfologicamente più prossimi al nostro sono conservati al Museo Civico di Torino e nelle Civiche Raccolte d’Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano. Un piatto di dimensioni appena maggiori e in impeccabile stato di conservazione si trova inoltre al Victoria and Albert Museum di Londra (inv. 156-1894). Ma il confronto più prossimo

  • GRANDE SCULTURA DI MOROVenezia, secolo XIXin legno scolpito ed ebanizzato con...
    Lotto 2

    GRANDE SCULTURA DI MORO
    Venezia, secolo XIX
    in legno scolpito ed ebanizzato con inserti in avorio dipinto, modellato a figura negroide con folti capelli ricciuti, nudo ad eccezione di una pelle di leone drappeggiata sulle spalle e annodata in vita, in atto di sostenere una conchiglia, su base modanata esagonale sostenuta da tre tartarughe, altezza complessiva cm 202, piccoli danni
     
    Venice, Nineteenth Century
    in carved and painted wood, shaped as a negroid figure, in the act of supporting a shell, h. cm 202, small damages
     
    € 10.000/15.000 - $ 13.000/19.500 - £ 8.000/12.000
     
    Il tema del moro seminudo in atto di sostenere un oggetto o una architettura è ben radicato nella tradizione veneziana avendo i suoi archetipi nei “Quattro mori” che Giusto Le Court scolpì tra il 1660 e il 1669 per il monumento del doge Giovanni Pesaro in Santa Maria Gloriosa dei Frari e che vennero poco dopo ripresi con le stesse pose monumentali, ma in misure più contenute, da Andrea Brustolon nel “fornimento Venier” eseguito nell’ultimo decennio del XVII secolo, conservato oggi al Museo di Ca’ Rezzonico.
    Il “fornimento Venier”, quaranta opere scultoree che Brustolon realizzò per il palazzo della famiglia veneziana a San Vio, è costituito da portavasi, seggioloni e altri arredi scolpiti in legni pregiati con soggetti mitologici e allegorie; fra questi l’Etiope portavaso, raffigurato nudo in posa eroica anche se con una catena al collo, sorgente da una base con mostri marini, è il diretto modello del grande moro che viene qui presentato.
    Altri esempi illustri dell’uso della figura del moro prigioniero si possono ritrovare a partire dagli inizi del XVII secolo a Parigi con il monumento equestre a Enrico IV di Pietro Tacca eretto nel 1614 sul Ponte Nuovo e successivamente distrutto nel 1792 durante i fermenti rivoluzionari e il monumento a Luigi XIV di Martin Desjardins del 1684 per Place des Vosges, anch’esso andato distrutto durante la rivoluzione francese; in entrambi la base della scultura era decorata con figure di prigionieri mori in catene, semisdraiati, alla stessa stregua di quelli che si vedono a Livorno nel Monumento dei Quattro Mori dedicato a Ferdinando I e realizzato da Pietro Tacca tra il 1623 e il 1626.
    Il monumento è situato davanti alla piccola darsena che il granduca Ferdinando I de’ Medici fece scavare sul finire del Cinquecento per ampliare il porto di Livorno; il gruppo scultoreo, posto nei pressi della possente cinta muraria avrebbe così attestato l’autorità granducale agli occhi dei numerosi viaggiatori che avrebbero fatto scalo a Livorno.
    L’idea dell’africano prigioniero collocato in posizione dimessa ai piedi del principe simboleggia la vittoria trionfale del mondo cristiano contrapposto a quello degli infedeli genericamente indicati come Mori.
     
    La fortuna ottenuta dalle sculture-arredo di Brustolon fece sì che anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1732, numerosi artigiani veneziani continuassero la produzione di opere analoghe che venivano richieste non più solo dalla committenza nobiliare ma anche dalle grandi famiglie mercantili. Si passa così da un modello nel quale l’attenzione è rivolta principalmente alla resa anatomica secondo il gusto barocco per arrivare a figure vestite all’araba nelle quali il senso estetico per il colore e per la resa delle stoffe annulla la parte scultorea prediligendo piuttosto il dettaglio raffinato. È utile ricordare che in molti importanti palazzi veneziani parte della servitù era effettivamente costituita da mori che venivano vestiti “alla turca” con turbante e abiti orientali.
    Questa produzione raggiunse il suo apice qualitativo alla fine del XVIII secolo ma si è conservata con realizzazioni sempre più seriali fino ai nostri giorni ma, ciononostante, molto apprezzata dal mercato straniero.
     
     
     

  • Erasmus de Pannemaker (1634-1685)ARAZZOManifattura di Bruxelles, seconda metà...
    Lotto 3


    Erasmus de Pannemaker
    (1634-1685)
    ARAZZO
    Manifattura di Bruxelles, seconda metà del sec. XVII
     
    Il sogno di Ciro
    siglato nel bordo inferiore BB con scudo e E.DE.P
    cm 380x320
     
     
    The Dream of Ciro
    tapestry signed in the lower border BB with shield and E.DE.P.
    cm 380x320
     
    € 50.000/70.000 - $ 65.000/91.000 - £ 40.000/56.000
     
     
    L’arazzo presenta una ricca cornice interamente ricamata con festoni e trofei di frutta intervallati agli angoli da quattro figure di fanciulli alati. Nella fascia superiore, tra due putti alati caratterizzati da corone regali e cornucopie traboccanti monete d’oro, è posto, a descrivere la scena centrale, il cartiglio con l’iscrizione: “MASSAGETARVM REGINA SOMNIO PRAEDICT DARIO C POST MORTEM CYRV PERSARORVM IMPERIVM”. La bordura inferiore è invece centrata da un medaglione ovale raffigurante un paesaggio, mentre tra nastri e ricche composizioni floreali due pappagalli entro riserve architettoniche decorano le due fasce laterali.
    L’episodio storico illustrato nell’arazzo ci porta a pensare che lo stesso appartenesse ad un vero e proprio ciclo raffigurante le Storie di Ciro: qui infatti l’arazziere raffigura il sogno di Ciro, uno degli episodi narrati tra l’altro da Erodoto nel I libro delle sue Storie: “Ciro passò l’Arasse; e, dormendo nel paese dei Massageti, ebbe, quando fu sopravvenuta la notte, una visione: gli parve durante il sonno di vedere il maggiore dei figli di Istaspe con ali attaccate alle spalle, e che con una di esse oscurasse l’Asia, con l’altra l’Europa. Il maggiore dei figli di Istaspe figlio di Arsame, un Achemenide, era Dario, allora in età di circa vent’anni; ed era rimasto in Persia perché non aveva ancora raggiunto l’età militare. Svegliandosi dunque, Ciro si mise a riflettere sulla visione avuta. Gli parve di grave significato; e fece venire Istaspe, al quale da solo a solo: “Istapse”, disse, “tuo figlio è stato colto in flagrante delitto di cospirazione contro di me e la mia potestà. Lo so con certezza, e ti spiegherò come…” (Erodoto, Storie, I, 209).
    Il termine “arazzo”, usato in Italia per indicare un particolare tipo di tessuto, deriva dal nome della città di Arras, centro francese particolarmente attivo tra XIV e XV secolo proprio nella produzione ed esportazione di arazzi. L’utilizzo del termine “banderiae de Arassa” risale al 1389 nel Chronicon Placentinum di Giovanni de’ Mussi.
    La sigla BB con scudo al centro identifica in maniera certa la manifattura di provenienza di questo importante esemplare, tessuto nella seconda metà del XVII secolo a Bruxelles. Nel 1528 infatti un editto stabilì che i pezzi lavorati a Bruxelles recasserro tessuto nella cimosa uno scudo fiancheggiato da due B (Bruxelles e Brabant).
    L’importanza dell’arazzeria di Bruxelles nel cinque e seicento è testimoniata dai molti rappresentanti di cui ci sono giunte opere e notizie, tra i quali spicca la famiglia dei Pannemaker: Pieter de Pannemaker (1519 circa–1534) eseguì parte degli arazzi istoriati del trono di Carlo V a Madrid e la Storia di David, oggi al museo di Cluny, mentre Willem de Pannemaker (1535-1578) realizzò nella sua bottega alcuni degli arazzi più noti delle serie di Madrid e Vienna, quali Vertunno e Pomona, Storia di Noè, Giuochi di fanciulli, Apocalisse, ma anche nel 1560 un arazzo a giardino architettonico, che ebbe grande fortuna nell’arazzeria fiamminga. Loro diretto discendente, e ultimo arazziere della dinastia, fu Erasmus de Pannemaker (1634-1685), continuatore della grande tradizione famigliare e noto per la sua maestria nel lavoro al telaio, testimoniata anche dall’arazzo qui presentato: la sigla E.DE.P. ricamata nella bordura accanto alla marca di Bruxelles è infatti la sua firma.
     
     
     

  • COPPIA DI PIATTILimoges, Jean de Court, detto “il maestro I.C.”,...
    Lotto 4

    COPPIA DI PIATTI
    Limoges, Jean de Court, detto “il maestro I.C.”, attivo tra il 1555 e il 1585 circa
     
    Rame con smalto dipinto a strati; dorature
    alt. cm 2,2; diam. cm 19,7 (ciascuno)
     
    Corredato da doppio attestato di libera circolazione
     
    A pair of Dishes, copper with enamel painted in layers; gildings
    H. 2.2 cm; 19.7 cm
     
    An export licence is available for this lot
     
    € 40.000/60.000 - $ 52.000/78.000 - £ 32.000/48.000

    Provenienza
    Asta Sotheby’s, Firenze, Palazzo Capponi, 19 ottobre 1970, lotto “P” (appendice al catalogo dal titolo Opere d’arte appartenenti a una nobile famiglia romana)
     
    I due piatti sono privi di piede e hanno largo cavetto piano e ampia tesa orizzontale. La forma in rame sbalzato è ricoperta da smalto bianco, su cui è dipinta la scena in grisaille con porzioni a policromia e dorature a freddo.
    Il primo piatto (a) mostra una scena campestre abitata da due personaggi: una donna elegantemente vestita, seduta su una roccia ricoperta d’erba, regge nella destra un paniere e porge con la mano sinistra una coppa di vino a un contadino intento a seminare. La scena è circondata da un paesaggio con case e colline sullo sfondo. In alto, in un medaglione circolare, compare il segno zodiacale dello scorpione, sotto il quale si legge la scritta in caratteri capitali “OCTOBRE” dipinta in oro.
    Sul verso la superficie è interamente ricoperta da smalto nero decorato con elementi fitoformi in oro a freddo: una corona nella tesa e un tralcio sinuoso con piccole foglie attorno al centro. Qui si sviluppa un complesso motivo decorativo a grottesche nel quale, in un gruppo di elementi a nastro disposti simmetricamente, s’innestano tre erme che sorreggono una figura femminile, una maschile e un satiro, e tre elementi decorativi con vasi baccellati ricolmi di frutta. In uno dei nastri si legge chiaramente la sigla dell’autore “I.C.”
    Il secondo piatto (b) mostra anch’esso una scena campestre con più personaggi: al centro un giovane pigia l’uva in un tino, mentre alle sue spalle un bimbo nudo alza trionfante una coppa di vino. Una donna avanza sulla sinistra portando una cesta piena di uva sul capo, mentre a destra un vecchio con la barba è chino sul tino reggendo un bastone fra le mani. La scena è chiusa da un pergolato su cui cresce abbondante la vite. In alto anche qui un medaglione circolare decorato con il segno zodiacale della bilancia.
    Sul verso la superficie è interamente ricoperta da smalto nero decorato da una corona fogliata lungo la tesa e un tralcio sinuoso con piccole foglie attorno al centro. Quasi tutta la superficie del centro è ricoperta da un motivo decorativo a grisaille a simulare un lavoro a sbalzo su metallo. Qui volute intrecciate, centrate da una rosetta, s’innestano in quattro differenti mascheroni policromi, a loro volta uniti da panneggi centrati da fruttini. In una delle volute, sotto il mascherone con i capelli mossi dal vento, si legge chiaramente la sigla dell’autore: “I.C.”
    I due piattelli appartengono alla serie dei mesi, celebre opera di Jean de Court, maestro limosino noto proprio per le sue grisaille. I numerosi studi ci permettono ormai di attribuire le opere che recano le sigle “IC”, “IDC”, “ICDV” a Jean Court, o Jean Courtois, o Jean de Court, alias Jean Court detto Vigier (in francese questo appellativo indica il Vicarius, il magistrato che rappresentava il visconte di Limosino a Limoges, e si trattava di una carica era ereditaria). Celeberrime alcune sue opere, come la coppa di Maria Stuarda alla Biblioteca Nazionale di Parigi.
    La datazione dei suoi smalti si basa sulle fonti incisorie, che vanno dalla Bibbia di Bernard Salamon del 1556 alle opere raffiguranti i mesi ispirate alle incisioni di Étienn

  • TAPPETO AUBUSSONFrancia, metà sec. XIXfondo color ocra con decori floreali e...
    Lotto 5

    TAPPETO AUBUSSON
    Francia, metà sec. XIX
    fondo color ocra con decori floreali e fasci di fiori rosa, avorio e azzurri che si trovano al centro e lungo i bordi del tappeto. Al centro una cornice di volute nei toni del giallo e del rosa in stile Impero, ai lati stemmi nei toni del rosa, giallo e avorio
    cm 500x950
     
    Ocher background with floral decorations and bundles of pink, ivory and blue that are in the center and along the edges of the carpet. At the center of a frame of swirls in shades of yellow and pink in the Empire style, the sides coats in shades of pink, yellow and ivory, cm 500x950
    L’esemplare qui presentato è sicuramente frutto di una commissione aristocratica ispirata dai cartoni dei grandi arazzi.
    Per confronti
    Y&B. Bolour Collection, Los Angeles, tav. 12 e 23
     
     

  • ZUPPIERA CON COPERCHIOCapodimonte, probabilmente periodo di transizione...
    Lotto 6

    ZUPPIERA CON COPERCHIO
    Capodimonte, probabilmente periodo di transizione 1757-1762
     
    Porcellana decorata con applicazioni a rilievo e fiori dipinti in policromia.
    Marca “giglio azzurro” sul fondo
    Alt. cm 30, diam. cm 23,5, largh. alle anse cm 30,5
     
     
    Porcelain decorated with applications in relief and flowers painting in polychrome.
    Mark "giglio azzurro" on the bottom.
    H. 30 cm, diam. 23.5 cm
     
    € 12.000/16.000 - $ 15.600/20.800 - £ 9.600/12.800
     
    Bibliografia
    F. Stazzi, Capodimonte, Milano 1972, p. 217, tav. 4
    A. Mottola Molfino, L’arte della porcellana in Italia, vol. II, Busto Arsizio 1977, tav.XXI
     
     
    Di forma circolare alta e compatta, la zuppiera è modellata a scanalature orizzontali che si richiamano alla cerchiatura dei mastelli in legno per il vino. Sia la vasca che il coperchio sono decorati con tralci, pampini e grappoli d’uva in rilievo, con aggiunta di gruppi di fiori di campo e frutti dipinti in policromia. Le anse, imitanti il ceppo della vite, sono colorate in un marrone verdastro, mentre il pomello riproduce un grande grappolo di uva nera.
    Il tema decorativo della pianta di vite è ricorrente in tutte le manifestazioni di Arti Decorative e la sua fortuna ha radici lontane grazie al mito di Bacco, esaltato in tempi più vicini al Settecento dalla riscoperta durante il Seicento di soggetti arcadici e biblici come l’Ebrezza di Noè, Bacco e Arianna, L’Adorazione del Vitello d’Oro e soprattutto le Feste Dionisiache e l’Allegoria dell’Autunno, tutti temi ampiamente trattati dai pittori carracceschi.
    L’arredo della tavola deve essere apparso fin dagli albori il luogo più adatto ad accogliere vasellame che riecheggiasse i piaceri del vino. Sappiamo dai pochi documenti pervenutici che già nel 1744, quindi all’inizio della produzione di Capodimonte, lo stesso Giuseppe Gricci, il grande scultore-modellatore della fabbrica, aveva modellato la forma “…di un piattino che dinotava una fronda di vite e il modello della chicchera corrispondente…” (C. Minieri Riccio, Delle porcellane…, 1878, p. 11). Possiamo quindi ragionevolmente affermare che i tralci e i pampini in rilievo, insieme ai fiori Kakiemon, siano stati tra i primi fregi decorativi utilizzati per arricchire le forme del vasellame di Capodimonte.
    Ritornando alla nostra zuppiera, va detto che il motivo del mastello ricoperto di pampini d’uva ritorna in altri rari esemplari di Capodimonte destinati a completare dei serviti da tavola. A memoria di chi scrive esiste soltanto un’altra zuppiera identica alla nostra, conservata in una collezione svizzera, mentre ricordiamo due varianti sul tema utilizzate per dei secchielli con funzione di rinfrescatoio: una coppia con un decoro più stilizzato, privo di miniature policrome, con le doghe verticali evidenziate da un filetto in oro e le anse a ceppo interamente dorate (in collezione Perrone già al Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli, inv. nn. 69, 95) e uno più simile alla nostra zuppiera, con tralci di vite in rilievo e anche dipinti sulle doghe, ma privo del decoro floreale (A. Mottola Molfino, L’arte della porcellana in Italia, vol. II, 1977, tav. XXII, in Collezione S.G.).
    E’ comunque certo che questo decoro sia stato eseguito a Capodimonte oltre che per il citato documento del 1744, anche per dei frammenti di porcellana modellati a tino con tralci in rilievo rinvenuti nei pozzi di butto esistenti sotto l’antica fabbrica nel Parco di Capodimonte.
    Nel caso presente si è scelto prudentemente di allargare il periodo di esecuzione al periodo di transizione – quindi fra gli ultimi anni di Capodimonte e i primissimi del Buen Retiro - per la presenza abbastanza insolita del decoro dei frutti dipinti affiancati ai fiori di campo, sebbene e nonostante il tipo di giglio in blu apposto sotto la vasca presenti tutte le caratteristiche di quello in uso durante il periodo napoletano.

  • TAPPETO AGRAIndia del Nord, circa 1890Nell’elegante campo rosso bordeaux si...
    Lotto 7

    TAPPETO AGRA
    India del Nord, circa 1890
    Nell’elegante campo rosso bordeaux si stagliano diversi motivi di corolle di fiori, tralci di vite, e vasi ripresi dall'antico motivo dei Kirman a Vasi del XVII secolo, il tutto contornato da un imponete bordura blu scuro decorata da palmette e tralci.
    cm 465X550
     
    In elegant burgundy red field stand several reasons corollas of flowers, vines, and vessels taken from the ancient motif of Kirman in vases of the seventeenth century, all surrounded by a dark blue border impose decorated with palms and branches, cm 465x550.
     
    € 15.000/20.000 -$ 19.500/26.000 - £ 12.000/16.000
     
    La città di Agra fu fondata nel 1504 e con Delhi si alternò per circa un secolo nel ruolo di capitale.
    Nota per la costruzione del Taj Mahal terminata nel 1653 la città vanta una grande tradizione nella produzione di tappeti.
    Dal XVI secolo le manifatture ad Agra furono profondamente influenzate dalla fusione culturale tra la tradizione indiana e quella musulmana, per le commissioni di corte i disegni preparatori dei tappeti venivano eseguiti da miniaturisti persiani mentre per la manifattura la manodopera era indiana, specializzata nella tessitura e nella tintura.
    Alcuni tappeti di queste antiche manifatture sono oggi conservati al Metropolitan Museum di New York e al Victoria and Albert Museum di Londra. Dopo un periodo di crisi nella produzione dovuto alla fine della dinastia Moghûl nel 1738, l’attività della produzione di tappeti rifiorì nel XIX secolo proponendo nuove interpretazioni degli antichi motivi persiani.
     
     
     

  • GRANDE RILIEVOEgitto, Nuovo Regno, 1540-1075 a.C.in arenaria gialla, dipinto...
    Lotto 8

    GRANDE RILIEVO
    Egitto, Nuovo Regno, 1540-1075 a.C.
    in arenaria gialla, dipinto a policromia in bianco, ocra, verde, azzurro e rosso, raffigurante il faraone Sethi I nelle vesti di Osiride, alt. cm 72
     
    Per questo pezzo la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana ha intenzione di avviare il procedimento di vincolo ai sensi del D.Lgs. 42/02
     
    Egypt, New Kingdom, 1540-1075 B.C.
    in polychrome painted yellow limestone, representing pharaoh Sethi I as Osiris, h. cm 72
     
    This lot is subject to protective restrictions by the Department for Archaeological Heritage of Tuscany (Decree no. 42/02). The lot cannot be exported outside Italy.
     
    € 40.000/60.000 - $ 52.000/78.000 - £ 32.000/48.000
     
    Il frammento conserva la testa del dio Osiride volto a sinistra con la corona atef affiancata dalle due grandi piume di struzzo che simboleggiano la Verità e la Giustizia, il volto è dipinto in verde-azzurro, colore caratteristico della divinità che regna sull’Oltretomba; nella parte superiore si conservano tracce di due colonne di scrittura geroglifica sinistrorsa, in quella di sinistra è interamente conservato il nome del trono Menmaatra (Stabile è la Giustizia di Ra) iscritto all’interno del cartiglio; nella colonna accanto sono riconoscibili due foglie di palma affiancate e l’epiteto nb tawy (Signore delle due Terre).
     
    Stato di conservazione: lacunoso su tutti i lati, ricomposto da sei frammenti, scheggiature diffuse e cadute di colore
    Esposizioni: Il tempio di Osiride svelato. L’antico Egitto nell’Osireion di Abydos, Scuola grande di San Giovanni Evangelista.
    Venezia 2 Giugno – 21 Ottobre 2012
     
    Sethi I (anni di regno 1291-1279 a.C.) è il sovrano che si occupò di dare un nuovo assetto politico e religioso stabile al paese dopo la rivoluzione di Amarna nella quale il faraone Akenathon aveva sconvolto l’Egitto proclamando una divinità solare unica e cancellando tutti gli altri culti.
    La credenza che una nuova era si fosse aperta può essere dedotta dall’epiteto che il re aggiungeva talvolta ai suoi nomi: colui che ripete le nascite, un titolo ripreso da Amenemhet I, primo re della dodicesima dinastia, che si considerava anch’egli inauguratore di un “rinascimento”.
    Figlio del faraone Ramesse I salì al trono intorno ai 37 anni ed ebbe un regno duraturo nel quale recuperò molti dei territori al di fuori dell’Egitto che erano passati sotto l’influenza ittita e consolidò la propria posizione interna con un’intensa attività costruttiva in quasi tutto il paese.
    Sotto il suo regno si estesero le ricerche e lo sfruttamento delle miniere d’oro nel Deserto orientale che garantirono l’approvvigionamento del prezioso metallo in grande quantità anche durante i regni successivi.
    Tra le opere più significative si ricordano il completamento della grande sala ipostila di Karnak e il suo tempio funerario ad Abido nel quale il sovrano si fa raffigurare in atto di offrire un omaggio a 76 suoi predecessori realizzando in questo modo la cosiddetta “Lista reale di Abido” che è uno dei documenti fondamentali per lo studio della cronologia dei sovrani egiziani.
    La prosperità conseguente alla pace interna ed esterna fece nuovamente fiorire le arti e la produzione scultorea del suo periodo è considerata uno degli apici assoluti dell’arte egiziana.
    La grande statuaria di questo periodo ci è arrivata solo in frammenti, di conseguenza la scultura è conosciuta principalmente attraverso i rilievi che decoravano i monumenti eretti dal sovrano e che manifestano un ritorno alla precisione dello stile del periodo tutmoside come l’indicazione della linea del bistro all’angolo dell’occhio e delle sopracciglia arrotondate; caratteristica di questo periodo è anche la comparsa del sorriso benevolo che sostituisce l’espressione severa dello stile post-amarniano e diventa una caratteristica ufficiale che proseguirà sotto Ram

  • ARA FUNERARIA CON BUSTO FEMMINILERoma, I sec. d.C.in marmo bianco a grana...
    Lotto 9

     
    ARA FUNERARIA CON BUSTO FEMMINILE
    Roma, I sec. d.C.
    in marmo bianco a grana fine scolpito, cm 58,5x41x52
     
    Opera dichiarata di eccezionale interesse archeologico ai sensi del D.Lgs. 42/2004 con D.D.R. 31/3/2010 (notifica 29/4/2010)
     
    Rome, 1st Century A.D.
    in white marble, cm 58,5x41x52
     
    Please note that this lot has been “notified” with a Ministeriale Drecree no. 42/2004 with D.D.R. 31/3/2010 (dated 29/4/2010). The Ministry has declared its importance in the context of the Italian cultural patrimony. The lot cannot be exported outside Italy.
     
    € 20.000/30.000 - $ 26.000/39.000 - £ 16.000/24.000
     
    L’ara fu donata dalla Regina Elena nel 1917 al Professor Giulio Pampersi, medico chirurgo presso l’ospedale San Giovanni di Roma e medico curante della sovrana. Essa fu trovata verosimilmente durante i lavori di ampliamento dell’ospedale San Giovanni. Dopo la donazione fu collocata nell’atrio della casa di cura Santa Rita in via degli Scipioni 134 a Roma, di cui il professor Pampersi era all’epoca proprietario e titolare. Deceduto il professore la titolarità della clinica ed il possesso dell’ara ivi collocata passarono alla figlia. Alla morte di quest’ultima la clinica fu venduta e nel 1973 l’erede fece trasportare l’ara presso la sua abitazione dov’è rimasta fino ad oggi.
     
    Il piccolo monumento di forma pressoché cubica era situato probabilmente di fronte al monumento funebre e presenta nella parte superiore un incavo circolare frutto di un riutilizzo.
    La fronte dell’ara è decorata lateralmente con girali di acanto, uguali e simmetrici, fiori e foglie. L’aspetto è plastico, carnoso e vivacemente coloristico, ma si nota anche la tendenza decorativa alla stilizzazione del motivo vegetale. Al centro si apre una porta a due pannelli, sormontata da un architrave. All’interno si trova il busto di una fanciulla su una base modanata di forma rettangolare, anepigrafe. Il busto comprende le spalle, ma non l’attacco delle braccia e scende con taglio obliquo, di forma quasi triangolare, verso il basso. Il viso è pieno, la bocca minuta; gli occhi ben definiti sotto le arcate sopraccigliari non recano segno dell’iride o della pupilla. Le orecchie sono ben evidenziate, la pettinatura, rimaneggiata e ritoccata in epoca posteriore, doveva presentare una scriminatura centrale.
    Sul lato sinistro sono riprodotte una ghirlanda di alloro con bacche e nastri pendenti ed una patera ombelicata al centro. Sul lato destro un’altra ghirlanda e due sottili ampolle (urcei) evocano, come gli ornamenti del fianco opposto, il rituale funerario.
    La decorazione vegetale richiama il gusto diffuso nel I secolo d.C. per l’imitazione della natura, anzi dell’ambiente naturale che poteva circondare la dimora del defunto. La moda, derivata da modelli ellenistici, inizia in età augustea, si arricchisce in età claudia ed è particolarmente diffusa in età flavia, mentre già all’inizio del II secolo d.C. si riscontra una riduzione dei motivi decorativi. La raffigurazione della porta aperta, che incornicia l’immagine della giovane defunta, evoca il concetto del monumento sepolcrale come abitazione della persona passata a vita ultraterrena (Cfr. F. Sinn, Stadrömische Marmorurnen, Mainz am Rhein, 1987, pp. 56-65)
    Per questo esemplare si possono citare diversi confronti risalenti al periodo flavio: l’altare funerario di Minucia Suavis del Museo Nazionale Romano, risalente alla seconda metà del I secolo d.C. (Cfr. B. Candida, Altari e cippi nel Museo Nazionale Romano, Roma 1979, pp. 86-88, n. 36, tavv. XXX, XXXII), un altare ed un’urna con girali vegetali del Museo Gregoriano (F. Sinn,  Vatikanische museen, Museo Gregoriano Profano. Die Grabdenkmäler, 1, Reliefs Altare Urnen, Mainz am Rhein, 1991, pp.84-85, n. 53, figg. 151-153, 156, p. 113-114, n. 109, fig. 267)
    In questo caso la datazione in età flavia è confermata anche dalle caratteristiche

  • George GarthorneRINFRESCATOIO PER BICCHIERILondra 1686in argento, di forma...
    Lotto 10

    George Garthorne
    RINFRESCATOIO PER BICCHIERI
    Londra 1686
    in argento, di forma circolare con bordo smerlato e profilato da tralci vegetali, due anse modellate a teste ferine che trattengono tra le fauci un anello di forma sagomata. Corpo cesellato con figure esotiche e ghirlande di foglie, interno con residui di doratura originale, diam. cm 27, alt. cm 16,5, g 1695, restauro alla base e lievi ammaccature
    Sul fondo la coppa reca l’ incisione:
    National Field Trials 1885. Bruce Beta Setters. 1 Prize for Braces of Setters. Dervish pointer. 2 Prize: Pointer Puppy Stakes. Kennel Club Trials 1885. Beta, setter, runner up in Field Trial Derby. Bruce, setter Polly, pointer divided 1 and 2 prizes in all aged Stakes.
    Sul fondo reca l’etichetta in carta Collection S. Bulgari Rome
     
    An english silver monteith, London, 1686,
    mark of George Garthorne, diam. cm 27, alt. cm 16,5, g 1695,
    restoration on the base and slight bruising
    On the bases engraved: National Field Trials 1885. Bruce Beta Setters. 1 Prize for Braces of Setters. Dervish pointer. 2 Prize: Pointer Puppy Stakes. Kennel Club Trials 1885. Beta, setter, runner up in Field Trial Derby. Bruce, setter Polly, pointer divided 1 and 2 prizes in all aged Stakes and a paper label Collection S. Bulgari Rome.
     
    L’attività di George Garthorne è documentata dal 1680. Fu impegnato in numerose commissioni per la Casa Reale e sua è la cioccolatiera conservata oggi al Victoria and Albert Museum datata 1685, una fra le più antiche . La sua produzione ebbe fine nel 1730, anno della sua morte.
    Un esemplare simile di monteith è conservato al Milwaukee Art Museum, realizzato da Garthorne nel 1688 per la Royal African Company.
    La Royal African Company fu una compagnia commerciale inglese nata nel 1660, anni della restaurazione inglese, con lo scopo di far arrivare nelle colonie britanniche schiavi neri deportati dall’Africa. L’attività di tratta degli schiavi durò fino al 1731, anno in cui la Compagnia cambiò la sua finalità nel commercio di oro e avorio. Nel 1752 la Compagnia fu sciolta.
    Altro oggetto analogo è quello conservato al Museum of Fine Arts di Boston (n. inv 1975.711) attribuito probabilmente anch'esso a George Garthorne.
     
     
     
     
     
     
     
     
     

  • Paul Crespin(1694-1770)COPPIA DI PIATTI DA PARATALondra 1736piano in argento...
    Lotto 11

    Paul Crespin
    (1694-1770)
    COPPIA DI PIATTI DA PARATA
    Londra 1736
    piano in argento vermeil con stemma e motto CLEVE FAST ESSE QUAM VIDERI MATURI incisi entro corona di foglie, diam. cm 48, complessivi g 6700 (2)
     
    Lo stemma appartiene a William Lehman Ashmead Burdett-Coutts-Bartlett-Coutts (1851-1921), membro del Parlamento inglese dal 1881.
     
     
    A pair of dishes to parade, London 1736, mark of Paul Crespin,
    silver and silver gilt, plan with engraved coat of arms and motto
    CLEVE FAST ESSE QUAM VIDERI MATURI, diam. cm 48, g 6700 (2)
     
    Paul Crespin (Fig. 1) nacque in Inghilterra da una famiglia francese di rifugiati ugonotti. Per queste sue origini coltivò sempre un grande legame stilistico con i dettami degli artisti francesi.
    Nel 1726 insieme ad altri argentieri ed orefici ugonotti realizzò un servito per l'Imperatrice Caterina di Russia tra cui si ricorda una coppa biansata con coperchio oggi esposta al Museo dell'Hermitage a San Pietroburgo.
    Nel 1727 si sposò con Mary Branboeuf da cui ebbe cinque figli. Nessuno di loro seguì il padre nell'attività di argentiere.
    Tra il 1730 e il 1740 si affermò non solo come fine argentiere ma anche come grande innovatore e la sua capacità creativa cominciò ad essere apprezzata sia dalla Casa Reale che da molte delle nobili famiglie inglesi.
    Nel 1741 realizzò per Federico, Principe di Galles, un grande centrotavola decorato da soggetti marini con Nettuno e il tridente ancora oggi conservato nella collezione reale al Castello di Windsor. Sebbene la produzione degli anni successivi comprese anche oggetti di uso più comune il suo contributo innovatore fu fondamentale per le creazioni degli argentieri inglesi. Nel 1759 concluse la sua attività e si ritirò con la moglie nel Southampton dove morì nel 1770.
     
     
     
     
     

  • Robert Garrard II(1793-1881)COPPIA DI GRANDI COPPE CON COPERCHIOLondra 1867 e...
    Lotto 12

    Robert Garrard II
    (1793-1881)
    COPPIA DI GRANDI COPPE CON COPERCHIO
    Londra 1867 e 1876
    in argento vermeil, piede polilobato decorato a sbalzo, nodo realizzato con teste ferine, coppa cesellata a volute e coperchio sbalzato con finale a cartigli, alt. cm 69, complessivi g 6767.
    Le coppe recano lungo il bordo della base l’iscrizione R&S Garrard Panton St London (2)
     
     
    A pair of english silver gilt cups with lid, London 1867 and 1876,
    mark of Robert Garrard II, alt. cm 69, g 6767.
    Bases marked R&S Garrard Panton St London (2)
     
    Robert Garrard II (1793-1881) svolse il suo apprendistato dal 1809 presso il padre Robert Garrard socio della ditta Wakelin and Company . Dal 1816 divenne argentiere registrando il suo marchio con i fratelli James e Sebastian. Dal 1818, anno della morte del padre, divenne titolare della manifattura. Nel 1843 fu insignito del titolo di gioielliere della Corona.
     
     
     

  • SERVITO DI POSATEManifattura Clementimetà sec. XXin oro 18 kt, composto di...
    Lotto 13

    SERVITO DI POSATE
    Manifattura Clementi
    metà sec. XX
    in oro 18 kt, composto di ottantotto pezzi con manici decorati da motivi a foglie lanceolate (88)
     
    Composizione: 12 forchette; 12 cucchiai; 12 coltelli; 12 forchette da frutta; 12 coltelli da frutta; 12 cucchiai da frutta; 12 cucchiaini da tè; 1 ramaiolo; 1 paletta da dolce; 1 forchetta ed 1 cucchiaio da portata

    An italian 18Kt table service, Clementi, Bologna, mid 20th,composed of eighty-eight pieces (88)
     
    € 170.000/220.000 - $ 221.000/286.000 - £ 136.000/176.000
    L'argenteria Clementi nacque a Casalecchio nel 1912 dalla collaborazione tra l'argentiere Michelangelo Clementi e l'azienda tedesca Wilkens&Son, leader nella produzione di oggetti in argento. Dal 1982 l'azienda fu rilevata dalla famiglia Buccellati che ancora oggi ne è proprietaria.
     
    Per millenni l’uomo ha usato solo le mani per mangiare attingendo da ciotole di terracotta zuppe e bevande. Con la nascita dei primi centri urbani e l’evolversi della civiltà agricola nacque anche la necessità di un galateo della tavola.
     
    IL CUCCHIAIO
     
    Il nome cucchiaio deriva dal latino cochlea che significa chiocciola poiché il guscio di questi animali fu il primo strumento utilizzato dall’uomo per portare liquidi alla bocca.
    I cucchiai furono utilizzati sin dal paleolitico sotto forma di conchiglie o pezzi di legno con la funzione di portare alla bocca piccole quantità di liquidi. A partire dalla preistoria e per migliaia di anni successivi fu fabbricato in legni profumati quali il bosso o il ginepro. Furono gli egiziani a forgiare i primi cucchiai in bronzo.
    I Romani utilizzarono due tipi di cucchiai uno con pala ovale e manico dritto o curvo chiamato ligula un altro chiamato cochlear, con pala rotonda e manico dritto e appuntito.
    Nel Medioevo i cucchiai usati nelle case dei signori erano fatti con materiali preziosi come cristallo, argento e onice per rispondere alle nuove necessità di lusso e solo dal XIV secolo comparvero cucchiai realizzati in ottone o altri metalli di uso più popolare.
    Con la moda delle grandi gorgiere, dal XVI secolo, anche la forma del cucchiaio si modificò . Nacquero cucchiai con specifiche fruizioni, cucchiai da intingolo, da caffè, da tè e da zucchero e invece di avere forma di una coppa da tenere con le due mani tornò l’uso di cucchiai con manici da impugnare in una sola mano.
    Dal XIX secolo con l’affermarsi del galateo il cucchiaio assunse la forma odierna.
     
    IL COLTELLO
     
    La sua nascita è legata all’uso di questo utensile nella caccia sin dalla preistoria. I primi erano selci taglienti e successivamente furono utilizzate anche ossa, legni e pietre più lavorate. Con la scoperta dei metalli e l’inizio dell’uso del bronzo il coltello assunse la forma con manico e lama le cui dimensioni poteva variare a seconda dei diversi usi.
    In età greca e romana i coltelli potevano avere manici in metallo o in osso finemente decorati ed erano utilizzati sia per tagliare che per portare il cibo alla bocca.
    Nel Medioevo il coltello assunse un carattere molto personale, strumento di combattimento e di caccia, poteva essere portato appeso alla cintura e ognuno a tavola utilizzava il proprio.
    Nel corso del Rinascimento i più raffinati fabbricanti di coltelli furono italiani, si pensi ai coltelli con eleganti manici in argento cesellato conservati al Museo Poldi Pezzoli di Milano.
    L’uso di questo utensile cambiò in questo periodo con l’avvento della forchetta. Le lame dei coltelli infatti non ebbero più la funzione di portare il cibo alla bocca e le loro punte cominciarono ad arrotondarsi.
     
    LA FORCHETTA
     
    L’uomo primitivo utilizzò la forchetta non come utensile per mangiare ma come bastone biforcuto.
    In epoca romana venne utilizzata, da uno specifico addetto, come strumento per tagliare le carni e servirle ai commensali.
    L’uso della forchetta personal

  • Collana, Cartier, in platino, oro bianco e diamanti La parte anteriore...
    Lotto 14

    Collana, Cartier, in platino, oro bianco e diamanti

    La parte anteriore composta da due spille a clip amovibili ciascuna modellata come un'ala con estremità snodabile interamente decorata in pavé di diamanti rotondi taglio brillante e singolo; la venatura centrale formata da una linea curva in baguette poste in gradazione. Ciascuna ala si diparte da una composizione floreale stilizzata composta da quattro elementi a volute in brillanti centrate da diamanti. La parte posteriore realizzata a due file di diamanti taglio brillante e baguette posti in lieve gradazione. Fermatura in oro bianco. Clips databili 1953 con punzoni Cartier Paris 011 815, lungh. cm 10, largh. cm 3. Collana databile 1938, punzoni Cartier Paris DEPOSE' 01067



    Corredata di Certificato di autenticità Cartier n. GE2011-31 datato 14/3/2011




    The front composed of a pair of detachable clip-brooches designed as inverted articulated wings, each pavé-set throughout with brilliant-and-single-cut diamonds, the graduated central vein channel-set with diamond baguettes, the formal floral cluster at the centre composed of four diamond-set loops, each claw- set at the centre with a larger brilliant-cut diamond, the back of the necklace designed as a graduated double row of baguette-and brilliant-cut diamonds, white gold “cliquet” clasp; the two brooches fitted with a white gold double prong sprung clip with security catch. Clips 1953, Cartier Paris 011 815, length cm 10, width cm 3. Necklace 1938, Cartier Paris DEPOSE' 01067




    Accompanied by Certificate of Authenticity no. GE2011-31 dated 14 March 2011 from Cartier Geneva



  • Pellegrino di Mariano(Siena, documentato dal 1449–1492)MADONNA COL BAMBINO E...
    Lotto 15

    Pellegrino di Mariano
    (Siena, documentato dal 1449–1492)
    MADONNA COL BAMBINO E I SANTI CATERINA DA SIENA, BERNARDINO DA SIENA, GIROLAMO, DOROTEA E DUE ANGELI
    post 1461
    tempera e oro su tavola centinata con cornice originale, cm 61x41,8 (cornice inclusa), cm 52,5x32,9 (superficie dipinta)
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    after 1461
    tempera and gold on panel, shaped above, in an original engaged frame, 61x41,8 cm (including frame), 52,5x32,9 cm (painted surface)
     
    An export licence is available for this lot
     
    € 60.000/80.000 - $ 78.000/104000 - £ 48.000/64.000
     
    Provenienza:
    mercato antiquario, Roma;
    collezione privata
     
    Questo dipinto è un tipico esempio di immagine devozionale dovuta a Pellegrino di Mariano, maestro senese noto soprattutto per la sua attività di miniatore, che durante la sua lunga carriera, fu attivo per committenti prestigiosi: da papa Pio II Piccolomini a istituzioni di rilievo come l’Opera del Duomo e lo Spedale di Santa Maria della Scala di Siena.
     
    A giudicare dal cospicuo numero di opere giunte fino a noi, dove l’immagine della Vergine col Bambino è spesso accompagnata da santi e angeli, possiamo supporre che i dipinti su tavola di Pellegrino siano stati particolarmente apprezzati nella Siena del Quattrocento. Formatosi probabilmente con Giovanni di Paolo (1398-1482), il pittore entrò quindi nella cerchia di Sano di Pietro (1405-1481), il maestro più popolare in città intorno alla metà del secolo. Seguendo le pratiche di bottega ed emulando le fortunatissime composizioni di quest’ultimo, Pellegrino seppe quindi distinguersi come un vero e proprio specialista nel genere della pittura devozionale. Sano di Pietro aveva codificato nella pittura senese una nuova tipologia di immagine devozionale mariana, in cui la Madonna e il Bambino sono raffigurati a mezzo busto o a tre quarti, affiancati da figure di santi e angeli disposti simmetricamente, che si stagliano contro un fondo oro splendente e punzonato. Di solito l’iconografia di questi dipinti era personalizzata, attraverso figure di santi scelte dai committenti. Custodite in dimore private o nelle celle dei membri di ordini religiosi, simili tavole servivano alla devozione privata di chi le possedeva.
     
    Pellegrino di Mariano aderì alla formula compositiva inventata da Sano di Pietro, ma cercò pure di distinguere i suoi dipinti con uno stile personale. Spesso prese a modello immagini tradizionali (in particolare opere di Simone Martini, Lippo Memmi, Andrea di Bartolo e Jacopo della Quercia), ma per andare incontro alle richieste del mercato seppe dare vita a proprie soluzioni, variate in numerosi esemplari, riadoperando gli stessi cartoni. Le sue immagini sono permeate da un senso di pietà semplice e schietto, e caratterizzate da un linguaggio diretto e da un vivo cromatismo.
     
    La Vergine è raffigurata a mezzo busto e in primo piano rispetto alle figure circostanti, con il consueto manto blu scuro che lascia intravedere il velo e con la veste di colore rosso. Si volge verso la sinistra tenendo Gesù Bambino col braccio destro, con uno sguardo malinconico come se contemplasse l’inevitabile e tragico destino del Figlio divino. La sua aureola porta incisa la scritta “AVE MARIA GRATIA PLEN[A]”, ora in parte abrasa. Queste parole appaiono frequentemente nell’aureola di Maria nella pittura senese di questo periodo e si riferiscono al passo del Vangelo di San Luca sul quale si basa la tradizionale preghiera cattolica: il saluto con il quale l’Arcangelo Gabriele annunciò la nascita di Cristo alla Vergine (“Ti saluto, o favorita dalla grazia, [il Signore è con te]”, Luca 1,27). Un raro particolare iconografico si distingue nella Colomba dello Spirito Santo, che si libra sopra la figura della Vergine dopo la discesa dal Paradiso, simboleggiato dai soprastanti raggi dorati. La colomba si riferisce anche all’Annunciazione, e fornisce allo spettatore devoto la prov

  • Scultore seneseCROCIFISSO (CRISTO DEPOSTO CON BRACCIA MOBILI) 1340/1350...
    Lotto 16

    Scultore senese
    CROCIFISSO (CRISTO DEPOSTO CON BRACCIA MOBILI)
    1340/1350 circa
    scultura in legno da frutto policromato (pero?), cm 158x105x21,5 (alt. cm 123 con le braccia ribassate)
     
    polychrome fruit-tree wood sculpture (pear?), cm 158x105x21,5 (h. 123 cm with lowered arms)
     
    € 15.000/20.000 - $ 19.500/26.000 - £ 12.000/16.000
     
    Provenienza:
    collezione privata
     
    La sagoma snella del Crocifisso è scolpita a tutto tondo in un unico massello di legno da frutto, forse pero, ma la consueta iconografia del soggetto si avvale di braccia reclinabili volte a garantirne la duplice funzione di Cristo deposto. Senz’altro riconducibile al contesto figurativo di ambito toscano di cui tratteremo oltre nel dettaglio, quest’opera costituisce un significativo ritrovamento critico per aggiornare il corpus superstite dei simulacri centroitaliani di età gotica impiegati nella liturgia collettiva del Venerdì Santo. Durante tale celebrazione non si sarebbe assistito a una semplice riproposizione scenica del Dramma, bensì a una ritualità di grande coinvolgimento emozionale garantita dalla recitazione delle cosiddette Lamentazioni mariane. L’esito, infatti, era quello di sacre rappresentazioni teatrali basate su dialoghi derivati dall’uso popolare della Lauda e dal Planctus di tradizione latina, assecondando peraltro la tendenza del rinnovamento spirituale che già pervase profondamente il XIII secolo, in particolare grazie alla crescente affermazione di ordini mendicanti come Francescani e Domenicani, nonché di pari passo col dilagare delle numerose confraternite. Una volta sfilati i chiavelli delle mani e dei piedi, l’immagine scolpita del Cristo doveva essere rimossa simbolicamente dalla croce - ormai dispersa ma si può presumere che corrispondesse al tronco dell’Arbor Vitae -, provvedendo dunque ad adagiare gli arti superiori lungo i fianchi per simularne la tumulazione nel sepolcro. Il meccanismo primitivo era garantito dagli alloggiamenti ricavati nelle spalle e dall’innesto-cardine delle braccia fissato da semplici perni lignei. Il ripetersi secolare di questa pratica compromise però il movimento stesso fino a danneggiare irrimediabilmente le zone più esposte, tra cui le mani e parte degli avambracci, sostituiti da un restauro ottocentesco con rifacimenti più grossolani. È invece probabile che l’eliminazione delle orecchie e della capigliatura - forse dapprima folta al pari della barba quasi rossiccia e intagliata con ciocche che dovevano sfiorare le spalle -, la riscalpellatura della calotta, così come la variazione della pendenza del capo, siano imputabili all’accomodamento per una parrucca di capelli veri, espediente realistico molto frequente dopo i nuovi precetti liturgici della Controriforma. Il recente restauro conservativo, condotto nel 2008 a Oriago di Mira presso il laboratorio di restauro di Giovanna Menegazzi e Roberto Bergamaschi, ha pertanto eliminato le incrostazioni delle varie ridipinture che occultavano la pregevole sensibilità plastica dell’anatomia, valorizzando la tonalità avorio dell’incarnato e confermando che la versatilità tipologico-funzionale di cui l’opera si fa interprete era stata prevista fino dal principio. Alla luce degli aspetti descritti è stato altresì ritenuto opportuno procedere al delicato ripristino filologico dell’antico meccanismo mobile. Ciò ha consentito il naturale svasamento a “V” delle braccia verso l’alto, mentre il perizoma - pervenuto privo della colorazione iniziale salvo minimi frammenti di blu presenti sulle terga - è stato uniformato da una sottile imprimitura di gesso reversibile.
    Fondato sulla testimonianza evangelica dell’apostolo prediletto Giovanni (Gv. 19, 38-42), il soggetto della Depositio Christi divenne fin dalla sua comparsa nell’arte bizantina fra IX e X secolo uno dei temi più drammatici e riprodotti dell’iconografia cristiana. Eppure bisogna considerare che nei vangeli non emergono

  • Maestro influenzato da Tino di Camaino (Italia centro-meridionale), quarto...
    Lotto 17

    Maestro influenzato da Tino di Camaino (Italia centro-meridionale), quarto decennio del Trecento
    SAN MICHELE ARCANGELO ASSISO IN TRONO
    scultura in legno policromato, cm120x43x39
     
    Corredato da attestato di temporanea importazione
     
    polychrome wood sculpture, cm120x43x39
     
    An export licence is available for this lot
     
    € 50.000/70.000 - $ 65.000/91.000 - £ 40.000/56.000
     
    Provenienza:
    collezione privata
     
    La statua raffigura san Michele arcangelo seduto in trono. Si evince il soggetto dall’aspetto giovane del personaggio e dal diadema che ha in fronte, oltre che dal globo osteso con la mano sinistra. Mancano invece le ali, la cui presenza è solitamente testimoniata da fori di attacco, non ravvisabili a tergo. Non è da escludere che essi siano celati da una ripresa a stucco sul retro, sotto un’ampia zona tangente la parte scavata. Solo il restauro potrà fornirci ulteriori dati insieme ad una precisa indagine sulle stesure cromatiche.
    L’angelo indossa un manto rosso su una veste che ha perduto in larga parte il colore e che in origine poteva presentarsi bianca soppannata d’azzurro. Ai piedi dell’Arcangelo si stende il corpo del drago, rigonfio e pinnato, che serra frontalmente, con la testa allungata da un lato e la svettante coda dall’altro, la figura assisa, creando un contrappunto alla splendida soluzione del panneggio.
    In ottemperanza alla tradizione figurativa, San Michele poteva stringere nell’altra mano la spada, andata perduta. Sembra da escludere l’ipotesi che afferrasse una lancia, dal momento che, per le sue dimensioni, l’arma avrebbe dovuto essere posta in diagonale, posizione non consentita dalla mano chiusa per stringere un oggetto dallo sviluppo in verticale. Di questa iconografia possiamo trovare un precedente significativo, in pittura, nel dossale di Vico l’Abate (Fig.1) attribuito a Coppo di Marcovaldo (settimo decennio del Duecento), ora nel Museo di Arte Sacra di San Casciano, in cui san Michele è raffigurato in trono, ma senza il drago ai piedi; e inoltre nel trittico di Angelo Puccinelli ora nella Pinacoteca Nazionale di Siena, in cui il corpo del drago, sconfitto, appare addirittura smembrato; simile raffigurazione nella tavola di Giambono nella collezione Berenson di Firenze. Le altre rappresentazioni in scultura raffigurano per lo più l’Arcangelo stante e non in trono: si richiamano gli esempi di Badia a Passignano, della fine secolo XII; dell’Antelami a Parma (Museo Diocesano); di San Michele in Cioncio (Pistoia), della metà del secolo XIII; dell’ ambito dell’Orcagna, già Bardini e poi Fondazione Cini, Monselice.
    Raggiungendo un risultato raro quanto originale, è probabile che lo scultore abbia attuato una sintesi tra la versione di Michele nel momento che uccide il drago (drago che per questo si mostra ancora dinamico nell’incurvarsi risalente del collo ) e quella dello stesso arcangelo in trono a dominare la fiera sconfitta, divenuta ormai soltanto attributo.
    Immagini dell’Arcangelo Michele avevano avuto una cospicua diffusione tra Duecento e Trecento, anche per il suo culto associato alla Vergine. In qualità di psicopompo, infatti, appariva legato alla raffigurazione della Dormitio Virginis con il ruolo di ricondurre al corpo l’animula raccolta dal Cristo. Inoltre, avendo combattuto Lucifero, fungeva da prefigurazione della Vergine, che, quale moderna Eva, avrebbe schiacciato la testa del serpente. Il legame tra l’Arcangelo Michele e la Vergine è sancito anche nelle raffigurazioni dell’Apocalisse e del Giudizio Universale. Per tutti questi motivi l’immagine di Michele Arcangelo inserita, insieme a quella della Vergine e del Crocifisso, quale arredo del pontile della Porziuncola nel dipinto dell’Accertamento delle stimmate nel ciclo

  • Lorenzo Ghiberti e bottega(Firenze 1371-1455)MADONNA COL BAMBINO PROTETTO DAL...
    Lotto 18

    Lorenzo Ghiberti e bottega
    (Firenze 1371-1455)
    MADONNA COL BAMBINO PROTETTO DAL MANTO, 1420 ca.
    da un modello riferito anche a Filippo Brunelleschi, Nanni di Banco, Michelozzo
     
    altorilievo scontornato in stucco dipinto e dorato; cm 71x56x20 montato su base in materiale acrilico
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    Giancarlo Gentilini, Firenze, 21 febbraio 2014
     
    from a model also attributed to Filippo Brunelleschi, Nanni di Banco, Michelozzo
     
    deep-etched high relief with painted and gilded stucco work, 71x56x20 cm mounted on acrylic stand
     
    An export licence is available for this lot
     
    € 60.000/80.000 $ 78.000/104.000 - £ 48.000/64.000
     
    Provenienza:
    collezione privata
     
    Questo seducente, affabile rilievo costituisce una testimonianza pregevole - in particolare per il nitore plastico e la struggente intensità espressiva dei volti che conservano la delicata policromia originaria - di una delle più celebri composizioni mariane del primo Rinascimento fiorentino, tradizionalmente riferita a Lorenzo Ghiberti, nota attraverso varie redazioni in terracotta e stucco dipinto, tra le quali ho già avuto modo di segnalare l’opera in esame (presentata nel marzo 1984 dalla casa d’aste L’Arcadia di Roma) in appendice ad una corposa scheda dedicata all’esemplare conservato nella Collezione Chigi Saracini di Siena (Gentilini 1989, p. 47).
    Ben attestata sin dall’Ottocento, la fortuna critica e collezionistica di questa tipologia si è riaccesa negli ultimi anni con rinnovato interesse a seguito del rinvenimento, nel 2006 presso il Palazzo Vescovile di Fiesole, di una eccezionale versione direttamente modellata in terracotta ed impreziosita da una policromia raffinatissima, ritenuta con efficaci motivazioni, formali e tecniche, il capostipite di tale florida famiglia (Speranza e Moradei 2008; in ultimo Galli 2013) (Fig.1). La Madonna di Fiesole (attualmente in deposito presso il locale Museo Bandini), riproposta con enfasi in numerose occasioni espositive, tra le quali la nutrita rassegna Il cotto dell’Impruneta. Maestri del Rinascimento (Impruneta 2009), la mostra Madonne rinascimentali al Quirinale (Roma 2011) - dove compariva accanto ad una nobile replica in stucco donata in quell’anno alla Cattedrale di Firenze dal collezionista Massimo Ersoch (Madonna Ersoch 2011) (Fig. 2) - e la recente, prestigiosa esposizione La Primavera del Rinascimento (Firenze, Palazzo Strozzi - Parigi, Musée du Louvre, 2013-2014), ha infatti contribuito non poco a promuovere una più puntuale attenzione a questo importante modello, anche in ragione di un riferimento attributivo a Filippo Brunelleschi nei primi anni del Quattrocento, sostenuto con autorevolezza dal compianto Luciano Bellosi (1998, 2002, 2009, 2011) e rilanciato da Laura Speranza (2008, 2009), mentre altri - come vedremo - ne hanno confermata con nuovi argomenti la paternità ghibertiana (Ortenzi 2009; Gentilini 2009; Mozzati 2013), ma anche avanzato un riferimento a Nanni di Banco (Galli 2013).
     
    La Vergine dai soavi lineamenti adolescenziali, coperta da un ampio mantello che si raccoglie sul capo e ricade intorno al volto con eleganti, misurate increspature, è rappresentata a mezza figura in atto di sostenere in grembo, stringendolo al petto, un tenero Gesù Bambino sgambettante dai folti capelli ricciuti, il quale, pervaso da un sottile turbamento nel presagio della sua grave e fatale missione, cerca conforto e protezione afferrandone saldamente la veste e rifugiandosi sotto il manto della madre, pronta a rasserenarlo col volto reclinato fino a sfiorarne la fronte. Come spesso accade nelle immagini mariane rinascimentali, la dolce, gioiosa intimità domestica della scena sembra dunque acquistare un significato ulteriore, più drammatico e commovente, adombrando,

  • Jacopo Vignali(Pratovecchio, Arezzo 1592 – Firenze 1664)IL RITROVAMENTO...
    Lotto 19

    Jacopo Vignali
    (Pratovecchio, Arezzo 1592 – Firenze 1664)
    IL RITROVAMENTO DI MOSE'
    olio su tela, cm 184x210 con cornice coeva, dorata e incisa a motivo di piccole foglie e perlinatura
    firmato e datato sulla cesta: “JAC.VIGNA/ LI.F. MDCXXV”
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    oil on canvas, cm 184x210 with coeval gilded frame, engraved with a motif of small leaves and a bead moulding
    signed “JAC. VIGNA/LI. F. MDCXXV on the basket
     
    An export licence is available for this lot
     
    € 120.000/150.000 - $ 156.000/195.000 - £ 96.000/120.000
     
    Provenienza:
    eseguito nel 1625 su commissione del Balì Pucci (probabilmente Giulio di Niccolò Pucci), Villa Pucci di Granaiolo (Castelfiorentino);
    acquistato negli anni '60 dagli attuali proprietari (collezione privata, Montecatini) direttamente dalla nobile famiglia;
    asta Galleria Giorgi, Firenze 6-8 febbraio 1971, lotto 149;
    collezione privata, Montecatini
     
    Bibliografia:
    S.B. Bartolozzi, Vita di Jacopo Vignali pittor fiorentino, Firenze 1753, p. XII; Prima asta d’inverno, catalogo, Firenze, Galleria Giorgi, 6-8 febbraio 1971, n. 149; F. Mastropierro, Jacopo Vignali. Pittore nella Firenze del Seicento, Milano 1973, pp. 11, 29, 69, fig. 13; P. Bigongiari, Il caso e il caos I. Il Seicento fiorentino tra Galileo e il “recitar cantando”, Milano 1974, p. 43; ed. 1982, p. 81; G. Cantelli, Mitologia sacra e profana e le sue eroine nella pittura fiorentina della prima metà del Seicento (I), in “Paradigma”, 3, 1980, p. 164, nota 49; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, p. 142; G. Pagliarulo, Jacopo Vignali, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della mostra, Firenze 1986-1987, 1986, Biografie, p. 184; F. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli artisti e delle loro opere, Milano 2009, p. 708; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del '600 e '700. Biografie e opere, Firenze 2009, I, p. 271; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, Pontedera 2009, I, p. 193 ; G. Pagliarulo, Per Jacopo Vignali disegnatore: un percorso tra gli studi di figura, in "Paragone", 64, 2013, pp. 11-46, cit. p.16.
     
    L’importante opera che qui presentiamo raffigurante Il Ritrovamento di Mosè è da ritenersi fra i capolavori del pittore fiorentino Jacopo Vignali nato a Pratovecchio in Casentino nel 1592 e morto a Firenze nel 1664.
    Firmato e datato 1625, il dipinto venne eseguito dal pittore su commissione di un membro della famiglia Pucci, come documentato dalle fonti, e destinato alla Villa Pucci di Granaiolo dove rimase fino alla metà degli anni sessanta del ‘900 per poi passare nell’attuale collezione privata a Montecatini e ora proposto al pubblico in occasione della celebrazione dei novant’anni della Casa d’Aste Pandolfini.
     
    Jacopo Vignali ebbe un ruolo importante nella Firenze del Seicento tuttavia il Baldinucci non dedicava una particolare ‘notizia’ al pittore fiorentino, ricordandolo solo brevemente come allievo di Matteo Rosselli e maestro di Carlo Dolci.
    Le notizie sulla vita del pittore furono raccolte per la prima volta dall’erudito Sebastiano Benedetto Bartolozzi, grazie alla documentazione costituita da lettere e dal registro di bottega che erano state messe a sua disposizione dagli eredi del pittore. Il testo di Bartolozzi (1753) risulta di fondamentale importanza per la ricostruzione del percorso artistico del pittore in particolare per le preziose indicazioni circa la committenza delle opere.
    Il pittore si trasferì fin da giovane età a Firenze, presumibilmente nei primi anni del ‘600, dove entrò

  • Giovan Battista Spinelli(Bergamo o Chieti, documentato dal 1640 al 1655)DAVID...
    Lotto 20

    Giovan Battista Spinelli
    (Bergamo o Chieti, documentato dal 1640 al 1655)
    DAVID CON LA TESTA DI GOLIA
    olio su tela, cm 96x121
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    oil on canvas, 96x121 cm
     
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    € 100.000/150.000 - $ 130.000/195.000 - £ 80.000/120.000
     
    Provenienza:
    asta Vangelisti, Lucca, 1971, lotto 59 (come opera di Francesco Furini);
    collezione privata, Firenze
     
    Esposizioni:
    Civiltà del Seicento a Napoli. Napoli, Museo di Capodimonte, 24 ottobre 1984-14 aprile 1985, n. 2.247
     
    Bibliografia:
    Asta degli arredi della Villa Poggio al Debbio a S. Michele di Moriano, Lucca degli eredi Castoldi e di altre private proprietà, Galleria Vangelisti Lucca, maggio-giugno 1971, lotto 59 p. 12 ; N. Spinosa, Aggiunte a Giovan Battista Spinelli, in “Paragone” XXXV, 1984, 411, pp. 22 e 36, nota 1; fig. 11; N. Spinosa, La pittura napoletana del 600, Milano 1984, fig. 788; D.M. Pagano, in Civiltà del Seicento a Napoli. Catalogo della mostra, Napoli 1984, pp. 177 e 468-69; L. Ravelli, Considerazioni su un artista di origine bergamasca, in “Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti” 45, 1985-86, II, p. 836; N. Spinosa e D.M. Pagano, Giovan Battista Spinelli, in I Pittori Bergamaschi. Il Seicento, IV, Bergamo 1987, p. 25, n. 9; p. 36, fig. 4.
     
    Referenze fotografiche: Fototeca del Kunsthistorisches Institut in Florenz, Mal. Bar. busta Spadino-Sprecaro, inv. 442895
     
    Venduto in asta nel 1971 come opera di Francesco Furini, il dipinto fu restituito oralmente a Giovan Battista Spinelli grazie a un’intuizione di Carlo Del Bravo, che lo riconobbe opera dell’artista napoletano sulla scia degli studi di Roberto Longhi che poco prima, nel 1969, avevano inaugurato la riscoperta del pittore portando inoltre all’acquisto, da parte dello Stato italiano, delle bellissime storie di David tuttora agli Uffizi. Solo nel 1984, però, e su segnalazione di Mina Gregori, il dipinto fu pubblicato per la prima volta da Nicola Spinosa nell’ambito di uno studio che accresceva in maniera significativa il catalogo del pittore e la conoscenza dei suoi dati biografici. In quell’occasione, lo studioso rilevava …”l’ambiguità… che si carica di umori morbosi e di misteriose valenze nel giovane “capellone” con l’elegante copricapo piumato ad ombreggiargli il volto da efebo scelto da Spinelli per il ruolo di David…” e insieme la cruda realtà, ancora di matrice caravaggesca, “del capo mozzato di Golia in primissimo piano con tratti somatici di uno spietato realismo”.
    In quello stesso anno il dipinto fu presentato a un pubblico più ampio in occasione della storica rassegna sul Seicento napoletano fortemente voluta da Raffaello Causa e realizzata dopo la sua scomparsa dalla Soprintendenza napoletana.
    Oltre che con un gruppo di fogli in parte provenienti dallo storico nucleo delle collezioni medicee conservato agli Uffizi, Spinelli era presente in quell’occasione con ben dieci tele in una sala a lui dedicata: una scelta che dava conto della sua personalità appena risarcita e della sua situazione anomala nell’ambito della scuola napoletana, più che del peso che in quella scuola l’artista di origini bergamasche aveva effettivamente rivestito.
    Cruciale si era rivelata in effetti la scoperta della patria d’origine del pittore e della sua documentata presenza a Chieti tra quinto e sesto decennio del secolo, un dato che veniva a spiegare l’esistenza delle numerose opere di sua mano segnalate da Ferdinando Bologna in chiese e collezioni d’Abruzzo, e consentiva di disporle plausibilmente in un arco di tempo più lungo di quello suggerito dalla “vita” di Bernardo De

  • Gaetano Cusati(attivo a Napoli dal 1686 circa – 1720)VASI DI FIORI,...
    Lotto 21

    Gaetano Cusati
    (attivo a Napoli dal 1686 circa – 1720)
    VASI DI FIORI, FRUTTA E FIGURE FEMMINILI SU SFONDO DI GIARDINO
    VASO DI FIORI, FRUTTA, UN CANE E FIGURE FEMMINILI SU SFONDO DI GIARDINO CON FONTANA E SCULTURE
    coppia di dipinti ad olio su tela, cm 179,5x205 ciascuno senza cornici
    (2)
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    oil on canvas, unframed, each 179,5x205 cm
    a pair (2)
     
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    € 70.000/90.000 - $ 91.000/117.000 - £ 56.000/72.000
     
    Provenienza:
    Palazzo Gaetani dell'Aquila d'Aragona, Piedimonte di Alife (Piedimonte Matese);
    discendenti della nobile famiglia, Roma
     
    L’inedita coppia di composizioni floreali qui presentate, ininterrottamente riferite a Gaetano Cusati nell’illustre raccolta di provenienza, costituisce un’aggiunta importante al catalogo, tuttora esiguo, dell’artista napoletano e, nel contempo, una perfetta dimostrazione del suo riconosciuto e inusuale talento come pittore di natura morta e di figura.
    Così infatti lo ricorda Bernardo De Dominici nel capitolo delle Vite de’ Pittori Napoletani (1742) dedicato agli specialisti di natura morta del tardo Sei e del primo Settecento, e in particolare agli allievi di Giovan Battista Ruoppolo: “Gaetano Cusati fu anche pittor di figure, indi invaghitosi dell’opere di Giovan Battista (Ruoppolo) volle essere suo scolaro; ma vedendo poi la maniera di Abram Brughel e lo strepitoso modo de’ suoi componimenti, fece un misto di tutte e due le maniere e riuscì ancor egli bizzarro nel comporre assai cose insieme in gran quadri; e poiché egli sapea far le figure, l’accordava con fontane, con statue, con vasi, con putti, ed altre cose assai pittoresche, dipingendo assai bene le cacciaggioni, ove introduceva de’ bellissimi cani, ed anche li dipingeva ne’ quadri di frutti, come solea fare il Brughel”.
    Parole che sembrano descrivere come meglio non si potrebbe i dipinti qui presentati che, come si dirà, il biografo certamente conosceva: di imponenti dimensioni, tali da confermarne una committenza specifica, le nostre tele riuniscono appunto in un insieme armonioso tutti i motivi qui ricordati consentendoci di apprezzare l’abilità dell’artista nel descrivere le corolle variopinte e la frutta estiva, i vasi d’argento sbalzato e le sculture in pietra, e nel disporli all’aperto in una sorta di giardino incantato ove figure femminili di chiara ascendenza giordanesca compongono scene allegoriche e insieme in qualche modo naturalistiche.
     
    In assenza di documenti che certifichino la nascita di Gaetano Cusati e le circostanze della sua attività, le parole del biografo sembrano indicare una formazione all’inizio degli anni Settanta, prima che l’arrivo a Napoli di Abraham Brueghel nel 1675 mutasse il corso della natura morta napoletana rivolta, fino a quel momento, a intenzioni essenzialmente naturalistiche.
    Col suo modo “fracassoso” e il suo “concepire i quadri con idea grande” (De Dominici) Brueghel proponeva infatti formule del tutto inedite non solo al giovane Cusati ma anche al più anziano e famoso Giuseppe (“Eques”) Recco e ad altri ancora: soluzioni che il pittore fiammingo aveva sperimentato con successo a Roma a partire dagli anni Sessanta quando, portate all’aperto le sue rutilanti mostre di frutta e fiori, aveva chiamato artisti di primo piano come Guglielmo Courtois e il giovane Carlo Maratti per accompagnarle con le loro raffinate figure femminili, stabilendo così un modello che a Napoli sarebbe stato ripreso con successo da numerosi artisti tra Sei e Settecento, da Nicola Malinconico a Gaspare Lopez, al più raro Giorgio Garri.
    Pittore di figura a pieno titolo, come indicano le tele eseguite nel 1715 per il soffitto della chiesa del Rosario a

  • Luigi Ademollo(Milano 1764-Firenze 1849)TOLETTA DI VENEREolio su tela, cm...
    Lotto 22

    Luigi Ademollo
    (Milano 1764-Firenze 1849)
    TOLETTA DI VENERE
    olio su tela, cm 96x122 cornice coeva intagliata e dorata applicata su telaio di epoca posteriore
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    oil on canvas, cm 96x122 coeval engraved and gilded frame applied on a later date framework
     
    An export licence is available for this lot
     
    € 70.000/90.000 - $ 91.000/117.000 - £ 56.000/72.000
     
    Provenienza:
    Palazzo Sergardi, Siena;
    mercato antiquario, Firenze (anni ’80);
    collezione privata, Firenze
     
    Bibliografia:
    C. Danti, Per l’arte neoclassica e romantica a Siena, in “Bullettino senese di storia patria” 88, 1981, pp. 115-168 (specificamente pp. 124-34; per il dipinto p. 129 nota 52, dove sono citate come esistenti nella sala di Bacco e Arianna due sovrapporte raffiguranti rispettivamente Venere e Diana); C. Sisi, I committenti del Neoclassicismo, in La cultura artistica a Siena nell’Ottocento, a cura di Carlo Sisi e Ettore Spalletti, Siena 1994, p. 99, fig. 55; C. Sisi, Manifestazioni del gusto. In L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle. Il Neoclassicismo 1789-1815 (a cura di C. Sisi), Milano 2005, p. 181, fig. 203; Luigi Ademollo (1764-1849). L’enfasi narrativa di un pittore neoclassico. Olii, disegni e tempere. Roma, Galleria Carlo Virgilio. Catalogo della mostra a cura di Francesco Leone, Roma 2008, p. 12 fig. 8: riprodotto a colori.
     
    Questa raffinata opera di Luigi Ademollo, interprete eccentrico del Neoclassicismo, raffigurante la Toletta di Venere faceva parte della decorazione di palazzo Sergardi a Siena (Fig.1-7) e pertanto costituisce un’importante testimonianza dell’attività del pittore nella città toscana. Tale provenienza consente di fissarne l’esecuzione agli anni 1794-95, durante i quali Ademollo fu responsabile della decorazione del suddetto palazzo che, dietro la facciata neo-cinquecentesca disegnata nel 1763 dall’architetto Paolo Posi, fu rinnovato nelle sue sale principali su progetto dell’ormai celebre artista milanese.
    La nota intitolata Cenni biografici del pittore Luigi Ademollo scritti da lui stesso intorno al 1837 (pubblicata una prima volta nel 1851 e quindi da Gian Lorenzo Mellini nel 1974) dà conto della sua formazione presso l’Accademia di Brera diretta da Carlo Bianconi, e del trasferimento a Roma dove, poco più che ventenne, il giovane aveva alternato lo studio dell’antichità classica (cui l’insegnamento braidense lo aveva preparato) a una serie di attività in parte connesse all’industria del Grand Tour. Autore di vedute destinate ai viaggiatori stranieri, aiuto di Louis François Cassas per le illustrazioni del Voyage pittoresque, scenografo a Roma fra il 1785 e il 1788, Ademollo elaborò in seguito la propria visione dell’antico ispirandosi ai rilievi di età traianea come alla loro traduzione cinquecentesca operata dagli allievi di Raffaello, contrapponendo però a quella misura classica la visione del passato esaltante e grandiosa proposta da Giovanni Battista Piranesi.
    La frequentazione del teatro contemporaneo, e in particolare della tragedia alfieriana che metteva in scena i protagonisti dell’antichità, i loro drammi e le loro passioni quali exempla di virtù civiche e private, alimentò inoltre la straordinaria immaginazione e l’enfasi patetica con le quali Luigi Ademollo saprà svolgere le vicende degli antichi a commento di quelle contemporanee; ed è appunto l’esperienza di scenografo a suggerire all’artista i metodi di organizzazione di una bottega che sarà in grado di coinvolgere organicamente gli spazi a lui assegnati nei cantieri sacri e profani che impegneranno sua lunga e contrastata attività. Vincitore del concorso per la decorazione del Teatro della Pergola di Firenze, Ademollo si trasferisce nel 1788 a Firenze, dove il suo stile così dichiaratamente anticonformista incontrerà l’ostilità degli ambienti accademi

  • Lodovico Caselli (Siena 1817 - post 1862) AGAR E ISMAELE marmo, cm 120x114,...
    Lotto 23

    Lodovico Caselli
    (Siena 1817 - post 1862)
    AGAR E ISMAELE
    marmo, cm 120x114, su base in legno dipinto a finto marmo, cm 116 x 73 x 120
    firmato e datato 1850
    L'opera è corredata da certificato di libera circolazione
     
    marble, cm 120 x 114, on a faux-marble wooden base, cm 116 x 73 x 120
    signed and dated 1850
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    La comparsa di questo gruppo in marmo, singolare per il soggetto più consueto alla pittura e straordinario per la qualità, pone sotto una nuova luce le doti di questo scultore, altrimenti poco noto, sia per la scarsità delle notizie biografiche, sia per la mancanza di opere tali da poterne ricostruire la fisionomia. In realtà, prima di questa importante riscoperta, il suo nome era essenzialmente legato alla sola statua di Paolo Mascagni, il celebre anatomista che era stato anche professore di anatomia pittorica all’ Accademia di Belle Arti di Firenze, eseguita per la serie degli uomini illustri del Loggiato degli Uffizi e ben documentata nei suoi passaggi, dal modello in gesso eseguito nel 1847 alla redazione in marmo finita nel 1852.
    Caselli era stato allievo di Luigi Pampaloni e Aristodemo Costoli all'Accademia di Firenze dove nel 1840 aveva vinto il premio per la scultura, a pari merito con Giovanni Dupré, con un bassorilievo in gesso raffigurante Il giudizio di Paride. Risultava presente con un gruppo rappresentante Agar e Ismaele all'esposizione allestita in Accademia nel settembre del 1842, quella stessa in cui il suo ex-rivale Dupré aveva inviato il modello in gesso del poi celeberrimo Abele morente. Essendo la nostra scultura firmata e datata 1850, dovrebbe trattarsi di una successiva redazione dello stesso tema, entrata a far parte nel 1860 di una collezione privata fiorentina dove è rimasta sino alla presente occasione.
    Come doveva essere avvenuto nel Concorso accademico del 1840, anche qui Caselli sembrava volersi confrontare con Dupré, in questo caso non nello stesso soggetto, ma nel motivo della figura del fanciullo nudo: lui Ismaele, l’altro Abele. Nel cimento con quel capolavoro destinato ad una grande fortuna Caselli risulta comunque non sfigurare, per la sensibilità anatomica e la sensualità con cui ha saputo rendere il corpo di Ismaele che, sfinito dalla sete, appare sollevato su un fianco, mentre la madre Agar tiene sollevato il volto cui guarda, in una corrispondenza di amorosi sensi, con infinito affetto. Il giovane scultore ha dunque saputo rendere con grande intensità l’episodio biblico che, in quanto espressione di un dolore universale, aveva e continuava a godere di una grande popolarità. Era il dramma della madre che, finita l’acqua e vedendo il figlio morire, aveva perso con ogni speranza anche la fiducia in Dio. In un momento in cui la scultura prediligeva ancora il mito e comunque motivi ispirati all’antichità classica, Caselli, come Dupré, si rivolgeva invece alla Bibbia vista come fonte di temi più rispondenti alla sensibilità contemporanea. Dimostrando le sue capacità e la sua ambizione, lo scultore senese si misurava con un tema che aveva conosciuto una grande fortuna in pittura, con esempi celebri, come Guercino, Van Dyck e Batoni, per quanto riguarda gli antichi maestri, e come Horace Vernet, Ary Scheffer, Piccio e Overbeck, se pensiamo ai più celebri pittori contemporanei. Questo gruppo addirittura precede, se pensiamo che la sua prima redazione è del 1842, il dipinto Agar e Ismaele di Adeodato Malatesta, realizzato tra il 1845 e il 1859, per poi diventare, dopo un così lungo percorso creativo che aveva creato molta attesa, una delle opere più celebri di quegli anni. La singolarità della versione

  • Medardo Rosso(Torino 1858 - Milano 1928)AETAS AUREA, 1886-1889bronzo...
    Lotto 24

    Medardo Rosso
    (Torino 1858 - Milano 1928)
    AETAS AUREA, 1886-1889
    bronzo patinato, alt. cm 40,2
    su base originale in marmo rosso, alt. cm 9
    Sul retro della base, nell'angolo a destra in alto, è incollata un'antica etichetta sbiadita e un tempo rossa, sulla quale si legge: "allegato/N... [non leggibile]". Restano nell'interno alcuni lacerti di etichette, forse relativi ad un'esposizione.
    siglato in basso a destra
    L'opera è corredata certificato di libera circolazione
     
    bronze, height cm 40.2,
    on its original red marble base, height cm 9
    On the back of the base, on the top right corner, old faded label, once red, where is written: "allegato/N... [illegible]". On the
    label there are some other paper fragments, that may be referable to an exhibition.
    signed lower right
    An export licence is available for this lot
     
    Provenienza
    collezione privata
    Bibliografia
    l'esemplare è inedito
     
    Per una bibliografia dell'opera nella serie delle varianti in bronzo e cera e fotografia, per la datazione del primo esemplare al 1886, per i diversi titoli e la storia dell’opera si veda P. Mola, I. L'opera e la serie, in P. Mola, F. Vittucci, Medardo Rosso. Catalogo ragionato della scultura, Skira, Milano 2990, pp. 98-103; per gli esemplari in bronzo, gesso e cera documentati dalle fonti, si veda F. Vittucci, ivi, II. Catalogo delle sculture documentate, pp. 256-259; per gli esemplari non documentati dalle fonti si veda P. Mola, ivi, III. Per un catalogo delle sculture non documentate, p. 352; per le fusioni del figlio di Rosso, Francesco, collocate in istituzioni pubbliche, si veda P. Mola, ivi, IV. le fusioni di Francesco Rosso, p. 362.
     
    Medardo Rosso nasce a Torino nel 1858; in giovane età si trasferisce con la famiglia a Milano, dove entra in contatto con l’ambiente della Scapigliatura.
    Scultore dalla personalità originale, autore di opere che colpiscono e ammaliano a prima vista, sculture dalle forme sfumate, quasi incerte se uscire dalla materia in cui sono plasmate.
    Sin dal 1883 applica ai suoi lavori un verismo artistico, dove si percepisce l'affinità con i grandi della Scapigliatura quali Ranzoni (1843–1889), Grandi (1843–1894), Cremona (1837–1878), sia pure con una ricchezza di contenuto umano, nelle osservazioni degli anonimi protagonisti del mondo proletario nella loro quotidianità, che fanno del Rosso un artista "Eccezzionale", con l’abbandono di ogni monumentalità e ogni effetto statuario, eliminando i contorni; in sostanza applica in scultura le teorie degli impressionisti, che conosce per la prima volta nel 1884, quando si reca a Parigi dove lavora da J. Dalou (1838–1902) ed entra in rapporti con Rodin (1840–1917) e Degas (1834–1917).
    Se la Scapigliatura lo indusse a studiare gli aspetti contrastanti e fuggevoli della luce, la scoperta dell'impressionismo lo spinse a trasferire i principi teorici di questa corrente artistica alla sue sculture. Nella scelta tematica dei soggetti si disinteressa completamente dal realizzare opere di carattere celebrativo retorico.
    Il suo fu un instancabile lavoro di ricerca e il plasticismo del suo operato è il risultato di una continua osmosi con lo spazio, l'aria e la luce.
    Al ritorno dal primo viaggio a Parigi esegue alcune sculture, fra le quali L'Età dell'Oro, opera fra le sue più famose, conosciuta anche con i titoli Il Bacio e Maternità, nella quale i volti della moglie e del figlioletto sembrano quasi essere indistinguibili l'uno dall'altro, tramite un abile gioco di contorni e ombre.
    L'estrema qualità della scultura qui presentata ci appare, caduta ogni traccia di episodismo verista, come una felice anticipazione della notevole influenza che l&rsquo

  • Libero Andreotti(Pescia 1875 - Firenze 1934)DONNA CHE SI FA LA TRECCIAbronzo...
    Lotto 25

    Libero Andreotti
    (Pescia 1875 - Firenze 1934)
    DONNA CHE SI FA LA TRECCIA
    bronzo a patina marrone con tracce di doratura, 1920, altezza cm 84
    firmata "L. Andreotti" sulla base
    L’opera è corredata da certificato di libera circolazione
     
    bronze with brown patina and traces of gilt, 1920, height cm 84
    signed "L. Andreotti" on the base
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    Provenienza
    Collezione Salata, Roma
    Collezione privata, Milano
     
    Bibliografia
    U. Ojetti, Lo scultore Libero Andreotti, "Dedalo", I, 6, novembre 1920, pp. 395-417: 415 (La donna che si pettina).
    Mostra individuale di Libero Andreotti, catalogo della mostra con presentazione di U. Ojetti, Milano, Galleria Pesaro, 1921, n. 31 (Donna che si attreccia i capelli, 3 esemplari).
    L. Andreotti, Libero Andreotti, "Arte Moderna Italiana", n. 3, serie B, Scultori, n. 1, Milano, Scheiwiller, 1926, p.s.n. (La donna che si pettina).
    Mostra di Libero Andreotti, catalogo mostra cura di R. Monti, Pescia, Comune di Pescia, 1976, n. 46
    O. Casazza, Gipsoteca Libero Andreotti, Firenze, Grafiche Il Fiorino, 1992, pp. 110-111
    Libero Andreotti. Sculture e disegni, catalogo della mostra a cura di S. Lucchesi (Firenze, Galleria Lapiccirella), Firenze – Siena, Maschietto & Musolino, 1994, pp. 36-37
    Libero Andreotti, catalogo della mostra a cura di G. Appella, S. Lucchesi, R. Monti, C. Pizzorusso (Matera, chiese rupestri) Matera, La Bautta, 1998, n. 31
     
    L'opera appartiene ad una cospicua serie di sculture in bronzo e in pietra che Andreotti, tra la fine della Prima Guerra e i primi anni Venti, eseguì assumendo temi semplici, spesso legati ad una quotidiana intimità femminile. Queste figure, solo apparentemente appartenenti ad una vita ordinaria, con la loro gestualità senza tempo erano specchio di un profondo senso etico e di una alta disciplina formale, entrambi fondati su antichi valori di cui Andreotti, e più in generale la cultura italiana, sentivano l'urgente bisogno come risposta alla drammatica contingenza del clima bellico. Con ciò Andreotti destò il caloroso consenso di Ugo Ojetti, il quale vide in questo nuovo corso post-parigino dello scultore una adeguata opportunità per dar corpo ai propri programmi di restaurazione di una classicità tutta italiana, fondata su una fedeltà alla tradizione scultorea dai Pisano a Canova. Così nel suo celebre saggio monografico apparso su "Dedalo" nel novembre del 1920, il critico esaltò questo gruppo di bronzi andreottiani: "tutte le opere sue, dopo il ritorno in Italia, prima a Lucca poi a Firenze, muovono da un sentimento nuovo. Una secchezza tutta toscana [...] definisce adesso il suo modellare, e i piani si succedono e si rispondono netti e decisi come parole ben scelte e ben pronunciate. Non una figura in movimento, [...] ma tutte statue che stanno salde sulle gambe ritte o ben sedute o accosciate, sicure sempre del loro equilibrio [...]. Quasi tutte donne. E le pieghe abbondanti delle loro gonne distribuite per gravi masse con buon giudizio, [...] mostrano questa ricerca del peso e del contrappeso che è l’essenza della scultura".
    Ma oltre al suo influente appoggio di critico militante, Ojetti offrì ad Andreotti un sostanzioso sostegno economico, diventandone il maggiore e privilegiato cliente. Perciò la maggior parte delle opere in bronzo prodotte in questo arco di tempo (soprattutto nell’immediato dopoguerra) ebbe una sorta di fusione "princeps" riservata alla collezione Ojetti: la Donna che si fa la treccia ne è un esempio. Dal gesso, oggi conservato nella Gipsoteca Libero Andreotti di Pescia, furono tratte tre fusioni documentate, eseguite dalla Fonderia Vignali di Firenze: una, esplicitamente dedicata ad Ojetti (iscrizione incisa nella base), si trova oggi in collezione privata fiorentina; una, esposta alla mostra di arte decorativa italian

  • Pellegrino Tibaldi (Puria di Valsolda 1527 – Milano 1596)STUDIO PER DUE...
    Lotto 26

    Pellegrino Tibaldi
    (Puria di Valsolda 1527 – Milano 1596)
    STUDIO PER DUE FIGURE FEMMINILI ANNUNCIATE
    Matita rossa su carta vergellata con filigrana “Cinque stelle a sei punte e losanga entro cerchio singolo” (Woodward, 151. Briquet, 6098). mm 411x282
     
    Corredato da attestato di libera circolazione
     
    Red chalk on laid paper. Watermark “Six pointed stars in lozengue inside single circle”. (Woodward, 151. Briquet, 6098). inch. 16.18x11.1
     
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    € 40.000/60.000 - $ 52.000/78.000 - £ 32.000/48.000
     
    Provenienza:
    Collezione privata, Bologna
     
    Bibliografia:
    R. Roli, Due disegni di Pellegrino Tibaldi, in: “Paragone” 1987, n° 443, pagg. 34-36
     
    Studio preparatorio per le figure di Santa Elisabetta e di un’ancella nell’affresco L’annunciazione della nascita di San Giovanni Battista della Cappella Poggi in San Giacomo Maggiore a Bologna.
    L’opera è parte della commissione che Pellegrino Tibaldi e Prospero Fontana ricevettero da Giovanni Poggi (poi Cardinale nel 1551) nei primi anni Cinquanta del XVI secolo per decorare la cappella di famiglia. I lavori della decorazione (che comprendeva anche il secondo affresco Il battesimo delle turbe) proseguirono anche dopo la morte del committente, avvenuta nel febbraio 1556, fino al 1561, anno in cui Fontana porta a compimento la
    pala d’altare con il Battesimo di Cristo.
    La datazione dei lavori per la Cappella Poggi è questione ancora dibattuta; Briganti ritiene che gli affreschi siano stati eseguiti fra il 1554 ed 1556.
     
    Il disegno, la cui filigrana data esattamente agli anni dell’affresco, fu già individuato e attributo da Roli nel 1987.
    Numerosi i confronti utili; il disegno stilisticamente più affine è lo Studio per una Sibilla (Pierpont Morgan Library. Inv. IV.27), riferibile, almeno nella parte alta della figura, all’episodio di Ulisse e Ino nella volta della Sala di Ulisse in Palazzo Poggi. Poi, ancora per la volta principale del palazzo bolognese, lo Studio di Nudo seduto (Statens Museum for Kunst di Copenhagen. Inv. KKS11160). Infine lo Studio di Eolo presentato nel 2008 nella collezione del Metropolitan (Inv. 2007.127).
    La strutturazione monumentale e statuaria della figura (che nei nudi si traduce in potente muscolarità), il segno finemente tratteggiato e raramente incrociato, il movimento quasi accartocciato dei panneggi, delineano un solido corpus di disegni del periodo bolognese degli anni Cinquanta accumunati da un’idea riformatrice della forma michelangiolesca.
     
    E’ noto un altro disegno preparatorio conservato nelle collezioni Reali di Windsor (Inv. 905965) eseguito a penna e inchiostro e matita rossa, per lungo tempo considerato l’unico in relazione all’affresco dell’Annunciazione del Battista; in esso è raffigurato l’intero registro compositivo della grande opera seppur in una versione nella quale la figura di Elisabetta perde la sua monumentalità e l’impianto stesso la sua solennità e, per dirla con Roli, ove ancor preme il ricordo vistoso di Perino.
     
    Formatosi alla scuola di Bartolomeo Ramenghi detto il Bagnacavallo, Pellegrino Tibaldi fu pittore ed architetto, fra i
    massimi interpreti del manierismo emiliano. Figlio d’arte, nacque nel 1527 da Tebaldo Tibaldi architetto; entrò ventenne nella cerchia romana di Perin del Vaga collaborando alla decorazione degli appartamenti di Paolo III in Castel Sant’Angelo. Da allora la scuola di Perino si accompagna, in una sorta di dualismo, mai completamente abbandonato, a quella michelangiolesca mutuata dalla vicinanza di Daniele da Volterra con il quale collaborerà per la decorazione della Cappella della Rovere a Trinità dei Monti. Nel 1555 fu richiamato a Bologna dal cardinal Poggi committente del ciclo omerico delle decorazioni del palazzo di famiglia e poi per le decorazioni della Cappella in San Gi

  • Alberto Burri(Città di Castello 1915 - Nizza 1995)BIANCO NEROolio,...
    Lotto 27

    Alberto Burri
    (Città di Castello 1915 - Nizza 1995)
    BIANCO NERO
    olio, acrilico e vinavil su tela, cm 50x80
     
    eseguito nel 1952
     
    L’ opera è accompagnata da attestato di libera circolazione
     
    BIANCO NERO
    oil, acrilyc, vinavil on canvas, 50x80 cm
     
    executed in 1952
     
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    Provenienza:
    Collezione Riccardo e Magda Jucker, Milano
    Galleria Blu, Milano
    Collezione Luisella d’Alessandro, Torino
    Collezione privata, Arezzo
     
    Esposizioni:
    a cura di Marco Vallora, I neri di Burri, Acqui Terme, Palazzo Liceo Saracco, 20 luglio – 14 settembre 2003; ivi ripr. p. 69
     
    Bibliografia:
    a cura della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Burri. Contributi al catalogo sistematico, Città di Castello, 1990, p. 34, n. 107 (illustrato a p. 35)
     
     
     
    L’étude du beau est un duel où l’artiste crie de frayeur avant d’être vaincu.
     
    Protagonista indiscusso dell’arte contemporanea internazionale, Alberto Burri ha saputo coniugare le istanze recepite durante la duplice ambivalente esperienza negli Stati Uniti, dal campo di prigionia texano al Guggenheim di New York, con la millenaria tradizione artistica italiana, senza con ciò ridursi ad adepto delle prime, o costringersi a rinnegare quest’ultima. Sotto questo profilo il percorso artistico di Burri è una delle più efficaci esemplificazioni di quel prezioso processo di secolarizzazione dell’arte contemporanea italiana e di emancipazione dalle sterili contrapposizioni scolastiche in cui si erano spesso dissolte, complice l’egemonia del dualismo ideologico, le pur fertili avanguardie artistiche del primo Novecento.
    Nella poetica di Burri, le componenti autobiografiche e intimistiche, o perfino solipsistiche, come quelle socio-antropologiche, descrittive o rappresentative non si configurano come categorie contrapponibili, potendo quindi confluire e coesistere, senza confliggere, in buona parte delle sue opere, tanto da rendere accettabile l’affermazione che il suo ultimo dipinto fosse identico al primo. Questo apparente paradosso si risolve nel momento stesso in cui ci si rende conto che per Burri l’opera è parte integrante e non separabile di quella complessa, a tratti anche dolorosa, trama che è il suo stesso vissuto. In questo senso, le parole di Freud quando scrive che “La natura benigna ha concesso all’artista di esprimere i moti più segreti del suo animo, a lui stesso celati, attraverso creazioni che scuotono potentemente gli altri, gli estranei all’artista, senza che quest’ultimi sappiano indicare donde provenga la loro commozione.” , ben si attagliano all’esperienza artistica di Burri.
    L’impellente necessità di ricercare nuovi equilibri estetici nella definizione del rapporto tra l’essere, la materia e la realtà, non assumono in Burri il ruolo di principi fondanti di una nuova corrente artistica o di una liturgica weltanschauung, perciò non necessitano di essere enunciati e verbalizzati, piuttosto divengono la prova evidente dell’indissolubile nesso d’identità che sussiste tra l’artista e la sua opera, quest’ultima intesa come esclusivo e non declinabile strumento di comunicazione. È lo stesso Burri che, in una delle sue, rare, esternazioni pubbliche, ci fornisce una chiara ed esaustiva indicazione del modo più proficuo di approcciarsi alla sua opera: “Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Questa è u

  • Galileo Chini(Firenze 1873-1956)CACHE-POTManifattura Arte della Ceramica,...
    Lotto 28

    Galileo Chini
    (Firenze 1873-1956)
    CACHE-POT
    Manifattura Arte della Ceramica, Firenze
    1898 - 1900
    ceramica decorata a lustro metallico
    alt.cm 28, diam. cm 44
    Reca marchio della melagrana con le lettere ADCF
     
    Ceramics with metallic luster, alt. cm 28, diam. cm 44. On the base the mark ADCF with pomegranate
     
    € 6.000/8.000 - $ 7.800/10.400 - £ 4.800/6.400
     
     
    Bibliografia:
    L’Arte decorativa moderna, rivista mensile illustrata di architettura e decorazione della casa e della via, Anno I. N. 8-Agosto 1902, p. 235
     
    “…..spinta propulsiva determinante per il rinnovamento, ma anche per una ridefinizione dei vari settori delle arti applicate…” è questa la definizione che la monografia sulla manifattura Chini a cura di Raffaele Monti dà di Galileo Chini. Negli anni di torpore in cui si trovavano le arti decorative alla fine del secolo XIX emerge in maniera vigorosa ,a livello europeo, la necessità di rinnovare il settore e di riscoprire le attività artigianali prendendo spunti sia dalle “belle arti” , la scultura e la pittura, sia dalle culture asiatiche. Anche in Italia questa necessità di rinnovamento prende piede e uno dei maggiori portavoce in queste nuove direzioni fu Galileo Chini grazie alla produzione di ceramiche.
    Nel 1896 crea in Via Arnolfo a Firenze insieme a Giovanni Vannuzzi, Giovanni Montelatici e Vittorio Giunti la piccola manifattura L’Arte della Ceramica e simbolo della manifattura divenne la melagrana con all’interno le lettere ACF iscritte accompagnate, fino al 1898, da due mani intrecciate sottostanti.
    Questa idea nacque non solo per la volontà di mutamento delle arti decorative, di cui si è parlato sopra, ma anche per un senso di delusione dovuto alla cessione della fabbrica Ginori di Doccia all’industriale Augusto Richard di Milano. Dal 1897 entra a lavorare nella fabbrica il cugino di Galileo Chino Chini ed è di questo anno la corrispondenza in cui si ha notizia delle difficoltà finanziare in cui versa la fabbrica, nonostante la notevole ammirazione che destano i prodotti della manifattura sin dall’inizio. Alle Esposizioni Universali di Torino e di Londra del 1898 viene infatti insignita della medaglia d’oro.
    Le opere prodotte in questi anni sotto la direzione artistica di Galileo sono caratterizzate dai nuovi dettami internazionali in cui forma, decoro e funzione si uniscono in un solo prodotto finale. Sono gli anni in cui soggetti naturalistici, come i pavoni del cache-pot qui presentato, non sono solo elementi decorativi ma si fondono a pieno con l’andamento formale dell’oggetto.
    Nel repertorio di questi anni molti sono i soggetti animali usati, fra i preferiti i cigni, i pavoni ed i pesci rappresentati con elegante finezza ed anche i soggetti floreali in cui si risente dell’influenza dell’Art Nouveau.
    Nei primi anni del 900 la fabbrica comincia a produrre oggetti in grès lasciando spesso il materiale a vista ed ad utilizzare , per le decorazioni, le colature di smalto. Sono di questi anni la partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi e a quella di San Pietroburgo in cui l’Arte della ceramica vince il grand prix e sempre in questi anni entra nella società il Conte ferrarese Vincenzo Giustiniani. In questo momento la fabbrica Arte della Ceramica diviene il riferimento per la rinascita delle arti decorative italiane e la sua cospicua produzione richiede la necessità di trasferire la fabbrica da Firenze a Fontebuoni.
     
     
     
     
     

  • Osvaldo Borsani(Varedo 1911 - Milano 1985)e Lucio Fontana(Rosario de Santa Fè...
    Lotto 29

    Osvaldo Borsani
    (Varedo 1911 - Milano 1985)
    e Lucio Fontana
    (Rosario de Santa Fè 1899 - Comabbio 1968)
     
    MOBILE BAR, 1950
    Struttura in mogano con interno dipinto a foglia d'oro e specchio, due ante scorrevoli lateralmente decorate con applicazioni a rilievo in stucco dorato, all'interno quattro cassetti disposti su due colonne e coppia di applique inserite nei fianchi, cm 138x115x52
     
    Autentica dell'Arch. Valeria Borsani
    Structure in mahogany with interior painted in gold leaf and mirror, two side sliding doors decorated with gilded relief applications, within four drawers arranged in two columns and a pair of lights into the sides, cm 138x115x52
     
     
    Proveniente dall’arredamento commissionato da un noto ingegnere milanese a cavallo del 1950, questo mobile bar riassume in sé in maniera esemplare quella “necessità di un’arte di lusso” teorizzata a partire dal 1936 da Carlo Enrico Rava e Ugo Ojetti, e che si manifesta in maniera evidente nei grandi arredamenti usciti in quegli anni dall’Atelier di Varedo. L’alta committenza delle abitazioni cui destinare gli arredi portano Osvaldo Borsani e i suoi progettisti a sperimentare nuove vie e nuove soluzioni per riempire gli spazi interni in modo funzionale, pur senza rinunciare al lato “artistico”, che diventa invece il fulcro del lavoro: chiaro esempio ne è il mobile bar qui presentato, il quale su una struttura “standard” propone delle importanti variazioni sul tema, realizzate grazie all’intervento di Lucio Fontana, uno dei tanti amici artisti che in quegli anni collaborava sistematicamente con l’Atelier, realizzando appunto sportelli di armadi e mobili bar, disegnando maniglie o supporti per tavoli e console, decorando i vetri dei tavolini o gli specchi dei mobili.
    A chiarire questa nuova visione del mobile con funzione decorativa e di rappresentanza al tempo stesso, è utile un passaggio tratto dal Catalogo Ufficiale VI Triennale di Milano del 1936: “Nella mostra dell’abitazione moderna l’arredamento è visto e studiato principalmente in funzione di un’economia rigorosamente sociale, con tendenza alla determinazione tipologica di alcuni pezzi fondamentali dell’arredamento normale; qui, questa branca particolare dell’arte decorativa, è considerata da un punto di vista diverso, con meno interesse per il problema sociale e più attenzione per ciò che riguarda l’espressione estetica e le possibilità rappresentative di un ambiente moderno”.
    La bellezza e ricercatezza di questo mobile apre una finestra importante sulla Milano di quegli anni e sulla sua classe borghese, alla continua ricerca tra le mode del momento della forma più opportuna per trasformare la propria “abitazione” in “sala di rappresentanza”. E proprio in quest’ottica va vista la caratterizzazione di determinati elementi d’arredo: per questo la sagoma rettangolare del mobile serve di supporto per un arricchimento di volta in volta realizzato con placche ornamentali dal disegno geometrico o dalla figurazione fitomorfa e zoomorfa, fino al rivestimento dell’intera superficie con scene in bassorilievo, come nel nostro caso
    Il mobile bar, come ben testimoniano i disegni acquarellati originali dell’epoca conservati presso l’Archivio Borsani (un paio dei quali sono qui riprodotti per loro gentile concessione), si collocava come elemento centrale nel grande salone, punto irresistibile di attrazione per l’ospite fatto accomodare sui divani: l’oro e l’enorme potenza plastica dei rilievi sul fronte delle ante servivano a confermare l’importanza della casa in cui ci si trovava. D’altra parte la decorazione fu affidata ad un’artista del calibro di Lucio Fontana, per il quale, come spiega Enrico Crispolti nel saggio introduttivo al Catalogo Ragion

  • Vaso con coperchio, Cina dinastia Qinggiada bianca translucida alt. cm 32,7,...
    Lotto 30

    Vaso con coperchio, Cina dinastia Qing
    giada bianca translucida alt. cm 32,7, larg. cm 16,
    su base in legno alt. cm 6
     
    A translucent white jade carving of a baluster vase and cover displaying phoenix under a flowering prunus of a peony China Qing Dynasty, H. 32,7 cm, W. 16 cm
     

     
    €15.000/20.000 £12.000/16.000 $ 19.500/26.000
     
    Provenienza
    Collezione Commender R.E. Gore R.N.
    Collezione S. Bulgari, Roma
    Collezione privata, Roma.

    Bibliografia

    Starley Charles Nott, Chinese jade throughout the ages, London (1936) 1977, plate LXXXIV

    Il corpo del contenitore a balaustro schiacciato, poggiante su una roccia stilizzata lavorata al traforo, è avvolto da racemi fioriti e foglie di vite, sul fianco è finemente intagliata un’elegante fenice stante tra i rami di una peonia in piena fioritura, le piume della coda dell’animale ricadono sulla roccia a formare dei riccioli, mentre il lungo collo della fenice è rivolto verso l’alto a incrociare lo sguardo di un’altra fenice appoggiata sul coperchio del vaso, le anse con due piccole prese sono modellate come una nota musicale.
    La giada nefrite è di colore bianco translucido con delle lievi sfumature verde pallido e pur presentando delle leggere inclusioni è di eccellente qualità.
    I volatili compaiono nell’arte cinese sin dalle dinastie Shang e Yin, ma la loro apparizione sulla giada risale al periodo Chou. I motivi decorativi del vaso, sono forse i più significativi e anche i più comuni della simbologia cinese e si adattano perfettamente alla bella qualità di questo vaso in giada.
    La fenice, (Feng-Huang) deriva da Feng: maschio e Huang: femmina, che combinati insieme spiegano l’etimologia e il significato della parola. La fenice è infatti considerata un uccello divino, manifestazione del sole e del principio dello Yang, portatrice di prosperità e armonia, benevola in quanto non mangia gli insetti; ogni parte del suo corpo rappresenta una dote di benevolenza, la testa simboleggia la virtù stessa, le ali il dovere, la coda il possesso, l’addome la sincerità. La mitologia orientale la considera sovrana tra i volatili, come la peonia è ritenuta il re tra i fiori nonché simbolo per rappresentare la ricchezza e l’onore.
    La raffigurazione della fenice si trova in svariati manufatti sin dalle antiche dinastie ed è spesso raffigurata in epoca Han in coppia con un’altra fenice, in genere sono un maschio e una femmina. Nel periodo Ming gli intagliatori, forse influenzati dai decori delle porcellane, la rendono più realistica ma con gusto sempre arcaizzante; è solo durante la dinastia Qing che la fenice viene rappresentata insieme ad altri elementi naturalistici, quali le nuvole e i rami degli alberi; durante l’epoca Qianlong viene anche raffigurata con Guanyin o altre divinità.
     
     
     

  • Vaso Cina dinastia Qing sec. XIX,porcellana policroma a fondo giallo reca...
    Lotto 31

    Vaso Cina dinastia Qing sec. XIX,
    porcellana policroma a fondo giallo reca marchio Qianlong
    alt. cm 75
     
    A “famille-rose twin fish and chime” yellow ground porcelain vase, Qing Dynasty, 19th century, Qianlong mark, H. 75 cm
     
    ‰
     
    € 25.000/35.000 £ 20.000/28.000 $ 32.500/45.500
     
     
    Provenienza
    Collezione Pasini, Milano
    Collezione privata, Milano


    Il vaso, dall’ampio corpo ovoide e dal lungo collo a tromba, è finemente decorato con fiori, ramages, simboli taoisti, buddisti e “gli oggetti preziosi”; si presenta come pezzo di una eccellente qualità pittorica sia per il fondo di un giallo sgargiante con decoro così detto “segreto”, che per gli smalti.
     
    Sul collo del vaso sono disposti lateralmente due pipistrelli capovolti dalle ali spiegate che rappresentano l’arrivo della felicità; la pietra musicale, simbolo di fortuna, sostiene la coppia di pesci, che oltre ad essere uno degli otto simboli buddisti, rappresentano anche la felicità coniugale, la fecondità e l’abbondanza; appesa ai pesci si scorge la bene augurale svastica. Le anse del vaso sono abbellite con due lunghe prese modellate nella forma di un drago stilizzato.
     
    L’ampio corpo del vaso è fittamente decorato sia sul fronte che sul retro con grandi fiori e ramages che collegano e tengono sospesi i vari simboli degli immortali taoisti, quali, il flauto: emblema di Han-Hsian-Tzu, genio e patrono dei musicanti; la spada: emblema di Lu-Tung-Pin, che simboleggia la vittoria del bene sul male; il ventaglio: emblema di Chung-li Chuan, il capo degli otto immortali, che conosce il segreto dell’elisir di lunga vita, e che è sempre raffigurato col ventaglio col quale si crede che faccia rivivere le anime dei morti; la zucca del pellegrino: dalla quale esce la pergamena, emblematica del potere di Li Tieh-Kuai, che riesce a liberare il suo spirito dal corpo; il paio di nacchere: simbolo del protettore delle professioni teatrali; il cesto di fiori: portato da Lan Ts’ai-ho, l’immortale donna ermafrodita protettrice dei fiorai; la capsula di semi del fior di loto: di Ho Hsien-Ku, protettrice dei focolari domestici, l’unica divinità femminile tra gli immortali taoisti; il tubo di bamboo con due aste: una sorta di strumento musicale portato da Chan Kuo Lao, l’immortale, che aveva il dono di rendersi invisibile e di bere veleni senza che questi avessero alcun effetto. Chan Kuo Lao era amante del vino e creava liquori da semplici erbe che gli altri immortali bevevano credendo che avessero proprietà creative, ed è per questo che è considerato il genio protettore degli artisti e dei calligrafi.
     
    Al centro del vaso si dischiude un bellissimo fiore di loto sormontato da tre pesche collegato da racemi fioriti agli otto simboli taoisti, il piede del vaso è costeggiato da lembi verticali multicolore e da motivi geometrici, l’interno e la base sono invetriate con uno smalto turchese chiaro.
     
     
     

  • Grande vaso porta-pesci, Cina sec. XXporcellana bianca e blu diam cm 63,5,...
    Lotto 32

    Grande vaso porta-pesci, Cina sec. XX
    porcellana bianca e blu
    diam cm 63,5, alt. cm 53
     
    A large blue and white squirrel and grape-vine fish bowl, China late Qing dynasty, 20th century, H 53 cm, diam. 63,5 cm
     
    Â‰Ô鱼㝠“ñ\¢纪 ’¼Œ 63.5 cm ‚ 53cm
     
    € 5.000/10.000 - £ 4.000/8.000 - $6.500/13.000

     
    Il vaso di eccezionale dimensione è decorato con il caratteristico motivo dei tralci di vite con grandi grappoli d’uva sui quali sono appoggiati degli scoiattoli intenti a correre tra un ramo e l’altro.
     
    L’uva in Cina è chiamata putao, la sillaba “tao” è omofona con la parola pesca che è un simbolo di longevità; gli scoiattoli sono chiamati anche songshu, sillaba con suono simile alla parola pino, albero che ugualmente indica la longevità. Inoltre la diffusione delle viti con numerosi frutti e corposi grappoli rappresentano anche la continuità, lo sviluppo e l’allargamento della linea familiare con molte progenie.
     
     
     
     

  • Selezione Grandi ViniMagnificent Wines Selection Montrachet Grand Cru Domaine...
    Lotto 33

    Selezione Grandi Vini
    Magnificent Wines Selection
     
    Montrachet Grand Cru Domaine Leflaive 2005 - 1 bt
    Screaming Eagle Screaming Eagle 1997 - 1 bt                                
    Corton Charlemagne Grand Cru Domaine J-F Coche Dury 1996 - 1 bt
    Romanee Conti Grand Cru Domaine de La Romanée Conti 1996 - 1 bt
    Musigny Grand Cru Domaine Leroy 1996 - 1 bt
    Chateau Le Pin 1990 - 1 bt
    Chateau Petrus 1982 - 1 bt
    La Tache Domaine de la Romanée Conti 1978 - 1 bt
    Chateau Lafleur 1961 - 1 bt
    9 bt
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  • Gran Selezione FranciaFinest Selection of French Wines Montrachet Grand Cru...
    Lotto 34

    Gran Selezione Francia
    Finest Selection of French Wines
     
    Montrachet Grand Cru Domaine Leflaive 1996 - 1 bt
    Romanee Conti Grand Cru Domaine de la Romanee Conti 1990 - 1 bt
    Corton Charlemagne Grand Cru Domaine J-F Coche Dury 1990 - 1 bt
    Vosne Romanee Cros Parantoux Premier Cru Domaine Henri Jayer 1985 - 1 bt
    Chateau Le Pin 1982 - 1 bt
    Richebourg Grand Cru Domaine Henri Jayer 1978 - 1 bt
    Chateau Petrus 1975 - 1 bt
    Chateau Cheval Blanc 1947 - 1 bt
    Chateau Mouton Rothschild 1945 - 1 bt
    9 bt
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  • James Jacques Joseph Tissot(Nantes 1836 - Chenecey-Buillon 1902)I...
    Lotto 35

    James Jacques Joseph Tissot
    (Nantes 1836 - Chenecey-Buillon 1902)
    I RIVALI
    1878-79
    olio su tela, cm 92x68
    firmato in basso a sinistra "J.J. Tissot"
     
    L'opera è corredata da certificato di libera circolazione
     
    Provenienza
    John Polson, of Tranent and Thornly, Christie's Londra, 21 luglio 1911
    Sir Edward J. Harland, Baroda House, Londra, Christie's Londra, 31 maggio 1912
    Collezione Ingegnoli, Milano, Galleria Pesaro, maggio 1933
    Collezione privata, Milano
     
    Esposizioni
    Londra, Grosvenor Gallery, 1879, numero 95 come Rivals
    Manchester, Royal Manchester Institution, Exhibition of Modern Paintings and Sculpture, 1879, numero 355


    Milano, Palazzo della Permanente, La Mostra Nazionale di Pittura, 'L'Arte e il Convito', 1957, numero 188


     
    Bibliografia
    Athenaeum, 10 maggio 1879, The Grosvenor Gallery Exhibition, pp. 607-608
    Era, 4 maggio 1879, The Grosvenor Gallery, p. 3
    Graphic, 10 maggio 1879, La Royal Academy and the Grosvenor Galleries di Tom Taylor, p. 463
    Manchester Guardian, 3 settembre 1979, 'Royal Institution, First Notice', p. 5
    Spectator, 31 maggio 1879, p. 691
    The Times, 2 maggio 1879, The Grosvenor Gallery, p. 3
    Ugo Ojetti, La Galleria Ingegnoli, Milano [1933], p. 9 e tav. 191 (come Il tè nella serra)
    Willard E. Misfeldt, James Jacques Joseph Tissot: a Bio-Critical Study, PhD dissertation, Washington University, 1971, pp. 162-163, 191
    Willard E. Misfeldt, The Albums of James Tissot, Bowling Green, Ohio, 1982, p. 52
    Michael Wentworth, James Tissot, Oxford, 1984, pp. 88, 119, 141, 145-6, 147, 151, 203 e tavola 159
    Christopher Wood, Tissot: the life and work of Jacques Joseph Tissot, 1836-1902, Boston, 1986, p. 106
    Margaret Flanders Darby, The Conservatory in St John's Wood, in Seductive Surfaces: The Art of Tissot, a cura di Katharine Lochnan, New Haven, 1999, pp. 163, 166, 180-181 e fig. 73
     
    I Rivali è un capolavoro pittorico di precisione calligrafica e caratterizzazione che condensa in sé l'agiatezza e gli ambienti in cui si svolgeva la vita dell'alta società tra la fine dell'800 e i primi del '900 in Europa. In questa bellissima opera, l’anglofilo artista francese James Tissot dipinge non solo la donna che ama, ammirata da altri uomini, ma anche l'impressionante giardino d'inverno affollato di piante esotiche che egli fece costruire adiacente all'elegante studio della sua casa londinese, acquistata grazie allo sfolgorante successo ottenuto producendo e vendendo arte ai collezionisti inglesi nei primi anni Settanta dell'Ottocento.

    Jacques Joseph Tissot nacque a Nantes, nel nord della Francia; appassionato fin dalla gioventù di ogni cosa che provenisse dall'Inghilterra, l'artista si faceva già chiamare James quando si trasferì a Parigi per studiare arte. Da subito riscosse grande successo, aggiudicandosi un'ampia clientela e profitti invidiabili. Particolarmente abile nell'immortalare con rassomiglianza i suoi modelli, era anche innovativo nella scelta dell'ambientazione e della posa dei ritratti dei suoi ricchi clienti; riuscì inoltre a creare una gamma di tematiche diverse per soddisfare gusti ed esigenze delle più disparate, dalle immagini in costume medievale di Margherita – l'eroina di Goethe nel Faust – ai soggetti di gusto troubadour di amanti seicenteschi ostacolati da forze oscure, alle nature morte, ai paesaggi e alle immagini di moderne donne parigine colte nei momenti della loro vita quotidiana. Il successo di Tissot non è dovuto solo alle sue abilità come pittore, ma anche alla sua comprensione del mercato dell'arte

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90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE

Sessioni

  • 28 ottobre 2014 ore 19:00 Sessione Unica - lotti 1 - 35 (1 - 35)