Asta N. 450 - Arte Moderna e Contemporanea Sessione Unica
Wednesday 4 December 2019 hours 16:00 (UTC +01:00)
Funi Achille - Apollo uccide le figlie di Niobe, 1946-1950
Achille Funi (1890-1972) Apollo uccide le figlie di Niobe, 1946-1950; tempera all’uovo e tecnica mista su cartoncino intelato, cm 210x415
firmato e datato “1950” in basso a destra; Bibliografia:
N. Colombo, Achille Funi. Catalogo ragionato dei cartoni, Leonardo Arte, Milano 1996, n. I.160, p. 155
N. Colombo, Gli affreschi di Achille Funi nel nostro teatro, in Teatro Manzoni. La nuova stagione teatrale 2002-2003, Milano 2002, p.s.n. (riproduzione a colori dell’affresco)
Achille Funi ha rappresentato l’espressione più classicista nel consesso dell’originario gruppo del “Novecento” milanese, nato ufficialmente attorno a Margherita Sarfatti nel 1923 e confluito dal 1925 nel più esteso Novecento Italiano.
L’amore per la cultura classica, coltivato dall’artista ferrarese fin dall’adolescenza, si formava sugli autori greci, sulla commedia e sulla tragedia antica, accentuando la propensione verso la rappresentazione dei miti, di cui Funi può essere ritenuto, insieme con Giorgio de Chirico, il più fedele cantore in ambito novecentesco italiano.
Apollo uccide le figlie di Niobe costituisce il cartone preparatorio, condotto all’elaborazione avanzata e pressoché prossima all’esito compiuto, dell’omonimo affresco realizzato tra il 1946 e il 1950 nel foyer del Teatro Manzoni di Milano, megalografia appartenente al ciclo di pitture parietali commissionate al maestro dall’amico architetto Alziro Bergonzo (Bergamo 1906-Milano 1997), autore del progetto; tra il 1946 e il 1950 Funi lavorava dapprima ai cartoni preparatori e successivamente ai riquadri murali sul tema della mitologia, della tragedia e della commedia antica.
L’opera qui in esame, verosimilmente firmata e datata dall’autore ad avvenuto compimento dell’intero ciclo, fu acquisita dall’architetto Bergonzo nel 1950, alla fine dei lavori di decorazione del teatro, per essere collocata con notevole impatto visivo nell’ampio soggiorno della sua dimora milanese, dove permaneva fino ad alcuni anni dopo la sua scomparsa, a seguito di cui veniva trasferita dagli eredi in altro contesto abitativo.
La leggendaria tematica omerica affrontata da Funi si riferisce al noto mito di Apollo, che per vendetta nei confronti della prolifica Niobe, madre di quattordici figli, ne aveva ucciso le sette bellissime figlie femmine: Niobe aveva infatti peccato di superbia osando farsi vanto della propria fecondità a scapito di Leto, madre di soli due figli, Apollo e Artemide.
La visione apollinea funiana e la perizia tecnica nell’affrontare le anatomie secondo i rigorosi canoni classici si ritrova nella statuaria bellezza del giovane Apollo, raffigurato sul lato destro frontalmente e con l’arco imbracciato, mentre a sinistra sette corpi femminili feriti e morenti si avviluppano in una tragica contorsione.
La scena è inquadrata in un paesaggio minerale da cui è bandito ogni riferimento alla vegetazione: lo spazio centrale è occupato dalla pietra, fattore primario della “costruzione” e, sul lato sinistro, da un elemento classico della edificazione, identificato nel portale di un tempio.
Funi reiterava nelle scelte iconografiche di questi anni il mito del recupero in pittura dei valori architettonici, venuto alla luce a ridosso del primo conflitto mondiale e culminato negli anni venti e trenta quale risposta alla necessità di rigenerazione del contesto sociale e del vissuto umano, usciti entrambi in frantumi dalle tragedie della guerra.
L’opera in esame testimonia il perdurare nel periodo postbellico della forza visionaria di un maestro della pittura murale che con Mario Sironi fu il più qualificato protagonista di quella tensione epica di identificazione con i gloriosi modelli delle civiltà passate, maturata tra gli anni trenta e i quaranta.
Nicoletta Colombo
Achille Funi ha rappresentato l’espressione più classicista nel consesso dell’originario gruppo del “Novecento” milanese, nato ufficialmente attorno a Margherita Sarfatti nel 1923 e confluito dal 1925 nel più esteso Novecento Italiano.
L’amore per la cultura classica, coltivato dall’artista ferrarese n dall’adolescenza, si formava sugli autori greci, sulla commedia e sulla tragedia antica, accentuando la propensione verso la rappresentazione dei miti, di cui Funi può essere ritenuto, insieme con Giorgio de Chirico, il più fedele cantore in ambito novecentesco italiano.
Apollo uccide le glie di Niobe costituisce il cartone preparatorio, condotto all’elaborazione avanzata e pressoché prossima all’esito compiuto, dell’omonimo affresco realizzato tra il 1946 e il 1950 nel foyer del Teatro Manzoni di Milano, megalografia appartenente al ciclo di pitture parietali commissionate al maestro dall’amico architetto Alziro Bergonzo (Bergamo 1906 - Milano 1997), autore del progetto; tra il 1946 e il 1950 Funi lavorava dapprima ai cartoni preparatori e successivamente ai riquadri murali sul tema della mitologia, della tragedia e della commedia antica.
L’opera qui in esame, verosimilmente firmata e datata dall’autore ad avvenuto compimento dell’intero ciclo, fu acquisita dall’architetto Bergonzo nel 1950, alla ne dei lavori di decorazione del teatro, per essere collocata con notevole impatto visivo nell’ampio soggiorno della sua dimora milanese, dove permaneva no ad alcuni anni dopo la sua scomparsa, a seguito di cui veniva trasferita dagli eredi in altro contesto abitativo.
La leggendaria tematica omerica affrontata da Funi si riferisce al noto mito di Apollo, che per vendetta nei confronti della prolifica Niobe, madre di quattordici gli, ne aveva ucciso le sette bellissime glie femmine: Niobe aveva infatti peccato di superbia osando farsi vanto della propria fecondità a scapito di Leto, madre di soli due gli, Apollo e Artemide.
La visione apollinea funiana e la perizia tecnica nell’affrontare le anatomie secondo i rigorosi canoni classici si ritrova nella statuaria bellezza del giovane Apollo, raffigurato sul lato destro frontalmente e con l’arco imbracciato, mentre a sinistra sette corpi femminili feriti e morenti si avviluppano in una tragica contorsione.
La scena è inquadrata in un paesaggio minerale da cui è bandito ogni riferimento alla vegetazione: lo spazio centrale è occupato dalla pietra, fattore primario della “costruzione” e, sul lato sinistro, da un elemento classico della edificazione, identificato nel portale di un tempio.
Funi reiterava nelle scelte iconografiche di questi anni il mito del recupero in pittura dei valori architettonici, venuto alla luce a ridosso del primo conflitto mondiale e culminato negli anni venti e trenta quale risposta alla necessità di rigenerazione del contesto sociale e del vissuto umano, usciti entrambi in frantumi dalle tragedie della guerra.
L’opera in esame testimonia il perdurare nel periodo postbellico della forza visionaria di un maestro della pittura murale che con Mario Sironi fu il più qualificato protagonista di quella tensione epica di identificazione con i gloriosi modelli delle civiltà passate, maturata tra gli anni trenta e i quaranta.
Nicoletta Colombo