Importanti maioliche rinascimentali
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Lot 1 Boccale
Viterbo, 1450 circa
Maiolica, corpo ceramico color ocra chiaro, smalto color crema di consistenza friabile, con qualche inclusione, di lucentezza poco marcata, steso in uno strato spesso fino a ricoprire, in parte, anche l’interno dell’imboccatura. Decoro in “zaffera blu” con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.
Alt. cm 18; diam. bocca cm 7 x 6,5; diam. piede cm 6,3.
Jug (boccale)
Viterbo, c. 1450
Earthenware, covered with a brittle creamy-white glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 18 cm; mouth 7 x 6.5 cm; foot diam. 6.3 cm
Il contenitore piriforme presenta pancia rigonfia che scende fino al piede basso con orlo arrotondato e base piana, non smaltato. Il collo, distinto dal corpo da un collarino sagomato in rilievo a formare un motivo a corda, sale per aprirsi in un’imboccatura con beccuccio dal profilo poco marcato e con orlo appena arrotondato. Appena al di sotto della bocca, sulla parte posteriore, si diparte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al di sotto della massima espansione del vaso.
Il decoro, che interessa prevalentemente la parte anteriore del vaso, mostra una lepre, gradiente a sinistra, tra foglie di quercia, con piccole puntinature di manganese a riempire gli spazi vuoti. Al fianco dell’ansa si scorgono due linee parallele decorate da un alternarsi di asterischi manganese e punti blu a zaffera, mentre un motivo a gocce che scendono da una linea (1) sottolinea l’orlo e adorna il collo alternandosi a piccoli asterischi.
La morfologia del boccale, con il collarino a rilievo, la bocca trilobata con un andamento molto aperto e poco marcato, il corpo e il collo allungati, ci porta a ritenere che l’opera in esame sia stata prodotta in un’area influenzata dalla scuola viterbese. Il boccale si può pertanto attribuire all’area umbro-laziale più che toscana con una datazione, a nostro avviso, più prossima alle tipologie arcaiche, confermata anche dalla qualità della zaffera che si presenta in forma molto rilevata. Anche la distribuzione del decoro al centro del vaso, con una porzione molto larga tra il corpo e il piede, ci porta a collocare l’oggetto in ambito dell’Alto Lazio.
Ci conforta infine anche il confronto con opere provenienti dalla Tuscia con decoro con “lepre in corsa”, pur nelle differenti caratteristiche morfologiche.
Si vedano, ad esempio, il boccale con lepre alla scheda 37 della mostra sulla zaffera del 1991 e i confronti da collezioni private mostrati in repertorio (2).
L’unicità della foggia del nostro boccale lo distingue dagli altri di forma più comune, dove non è presente un collarino a rilievo dal decoro tanto meticoloso.
Il boccale è stato pubblicato da Galeazzo Cora (3)nel suo monumentale studio sulla ceramica di Firenze e del contado, che lo considerava opera fiorentina della prima metà del XV secolo, indicandone la provenienza dalla C
1- Decoro conosciuto come “motivo a vaio”.
2-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1990, p. 236 n. 37 e p. 288 nn. 10-11.
3-CORA 1973, tav. 77a.
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Lot 2 BOCCALE
Viterbo o Tuscia, 1450 circa
Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro, smalto di colore bianco-azzurrato di buona consistenza e lucentezza con qualche inclusione, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito con colature.
Alt. cm 26,3; diam.della bocca cm 7,5 x 9,8; diam. del piede cm 10,2.
Jug (boccale)
Viterbo or Tuscia, c. 1450
Earthenware, covered with a white glaze with a bluish tinge and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 26.3 cm; mouth 7.5 x 9.8 cm; foot diam. 10.2 cm
Il contenitore ha un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo marcato, collo leggermente troncoconico che si allarga in un corpo piriforme con pancia rigonfia che scende fino al basso piede a disco, con orlo arrotondato e base piana non smaltata.
Nella parte posteriore, appena sotto l’imboccatura parte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al punto di massima espansione del vaso: l’ansa è decorata da sottili tratti orizzontali in bruno di manganese. Ai lati della presa si distingue una decorazione tipica, dipinta ancora in bruno di manganese, con motivo “a file di crocette”(1). Sulla parte anteriore del vaso si sviluppa la decorazione principale: un uccello con le ali spiegate, nell’atto di spiccare il volo, circondato da foglie di quercia e fogliette trilobate che si protendono da sottili rametti arcuati. Un motivo “a vaio”, cui fa seguito un motivo a “dente di lupo” capovolto, adorna il collo.
Anche quest’opera, insieme a quella che precede (lotto 1), per morfologia e decoro s’inserisce nella produzione Alto-Laziale, che ha trovato nel centro di Viterbo l’area principale di sviluppo, pur interessando altre zone produttive nell’area geografica della Tuscia.
Alcuni confronti, come ad esempio un analogo contenitore con uccello, ma realizzato in zaffera verde e molto simile anche per dimensioni (2) , confermano pienamente l’ambito produttivo sopraindicato.
Il boccale ritenuto opera fiorentina della prima metà del XV secolo, è stato pubblicato da Galeazzo Cora (3) nel suo monumentale studio sulla ceramica di Firenze e del contado. Oggi, alla luce degli scavi più recenti, non possiamo più concordare con tale paternità: la morfologia non corrisponde ai boccali toscani, ma ci fa propendere per una produzione dell’Alto Lazio.
1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1990, p. 198: la tavola della tipologia dei decori secondari mostra nell’ornato descritto nelle schede 30, 36, 40, 44 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.
2- ANVERSA 2004, p. 38 n. 10.
3- CORA 1973, tav. 64b.
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Lot 3 BOCCALE
VITERBO, 1450 CIRCA
Maiolica, corpo ceramico di colore beige chiaro molto poroso, smalto color grigio di scarsa lucentezza con inclusioni, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.
Alt. cm 22,7; diam. della bocca cm 8,3 x 8,7; diam. del piede cm 9.
Jug (boccale)
Viterbo, c. 1450
Earthenware, covered with a gray glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 22.7 cm; mouth 8.3 x 8.7 cm; foot diam. 9 cm
Il contenitore è piriforme con pancia rigonfia che scende assottigliandosi, fino a formare un piede basso a disco con orlo arrotondato e base piana priva di smalto. Il collo cilindrico sale e si apre in un’imboccatura trilobata, dal profilo poco marcato e rifinito con un orlo appena arrotondato e sottolineato da una sottile centinatura. Appena sotto la bocca, sulla parte posteriore, s’intravvede l’attacco dell’ansa che doveva scendere fino a sotto il punto di massima espansione del vaso.
Sul retro, ai lati dell’ansa ora mancante, si scorge una decorazione tipica realizzata in bruno di manganese con motivo cosiddetto a “filo ondulato” (1). Il decoro principale interessa la parte anteriore del vaso e mostra un giovane paggio in abiti eleganti che, brandendo nella mano sinistra un’ascia, si avvicina a una pianta con foglie trilobate, mentre con la destra avvicina un corno alla bocca. Il giovane è circondato da un fitto decoro con alberi fogliati dallo stelo sottile, mentre la campitura restante è riempita, come di consueto, da puntinature di manganese. Un motivo a goccioloni che scendono da una linea marca l’orlo e guarnisce il collo.
Anche quest’opera, come le precedenti (lotti 1 e 2), per morfologia e ornato si può collocare nella zona alto laziale che si estende attorno a Viterbo fino a tutta l’area geografica della Tuscia e della Maremma.
Tra i decori di questa tipologia ceramica quello della figura umana non è comune: sono noti solo rari esempi, tra i quali quelli con figura femminile sembrano anticipare i decori amatori (2). La figura del paggio, vestito elegantemente, ha pochi esempi di confronto: si ricorda come meno importante, ma comunque rappresentativa, la figura presente nella bella fiasca da collezione privata, databile alla metà del secolo XV, considerata un’antesignana delle fiasche nuziali, dove però l’autore non dimostra grande dimestichezza nella rappresentazione umana (3). In questo caso invece la cura per i dettagli è notevole: il gonnellino con le pieghe sottolineate da linee curve campite in manganese diluito, le maniche che grazie all’effetto di rilievo della zaffera rendono l’idea di un pesante velluto, il copricapo sottolineato da un sottile gallone, il volto realizzato di profilo con il mento molto pronunciato, secondo l’iconografia corrente. Si vedano a titolo di confronto il volto, invero più delicato, della figura femminile sul boccale da collezione privata viterbese (4), e l’orlatura del copricapo della figura mostruosa del boccale viterbese, sempre ascrivibile alla metà del secolo (5).
1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 198 la tavola della tipologia dei decori a delimitazione delle decorazioni principali mostra nel decoro s24 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto. -
Lot 4 BOCCALE
VITERBO O TUSCIA, 1450 CIRCA
Maiolica, corpo ceramico color beige chiaro molto poroso, smalto color bianco-grigio di buona consistenza e lucentezza poco marcata, steso in uno strato spesso; l’interno non presenta smaltatura, ma una semplice invetriatura. Il decoro in “zaffera blu” è realizzato con ossido di cobalto e piombo con effetto molto rilevato e particolarmente splendente, con tratti e orlature di bruno di manganese piuttosto diluito.
Alt. cm 22,4; diam. della bocca cm 8 x 8,4; diam. del piede cm 9.
Jug (boccale)
Viterbo or Tuscia, c. 1450
Earthenware, covered with a gray-white glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 22.4 cm; mouth 8 x 8.4 cm; foot diam. 9 cm
Il contenitore è piriforme con pancia rigonfia che scende fino a un piede basso a disco, non smaltato, con orlo arrotondato e base piana. Il collo sale per aprirsi in un’imboccatura con beccuccio trilobato dal profilo poco marcato, con orlo appena arrotondato e sottolineato da una sottile centinatura. La forma è del tutto simile a quella del boccale precedente (lotto 3).
Sotto la bocca, sulla parte posteriore, si diparte un’ansa a nastro di grosso spessore, che scende fino al di sotto della massima espansione del vaso: l’ansa mostra un decoro a sottili tratti orizzontali in bruno di manganese. Ai lati dell’ansa si scorge una tipica decorazione, sempre in manganese, con motivo cosiddetto a “filo ondulato” (1).
Il decoro principale interessa la parte anteriore del vaso e mostra un uccello dalle lunghe zampe intento a beccare da terra, tra foglie di quercia che si allargano su sottili ramoscelli, mentre piccole puntinature di manganese riempiono gli spazi vuoti; goccioloni scendono da una linea, mentre il “motivo a vaio” sottolinea l’orlo e adorna il collo.
Anche quest’opera per morfologia e decoro s’inserisce appieno nella produzione alto-laziale, che ha trovato nel centro di Viterbo l’area principale di sviluppo. La zaffera viterbese e laziale ha uno sviluppo più tardivo rispetto a quella dell’area fiorentina e ha un repertorio decorativo piuttosto vasto nonostante l’esiguità e la brevità della produzione. La figura decorativa più presente è quella animale, associata a foglie di quercia o a elementi decorativi geometrico - floreali.
Il boccale in oggetto si inserisce pienamente nell’ambito produttivo sopraindicato e ha mostra numerosi confronti da un punto di vista morfologico (2), mentre dal punto di vista decorativo, pur riprendendo il motivo della figura animale, la presenta in un modo più articolato ed elegante, posizionando l’uccello in un atteggiamento già quasi naturalistico. Un’opera prossima a quella in analisi può essere il boccale con cigno conservato al Museo del Vino di Torgiano (3).
1-CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 198: la tavola della tipologia dei decori secondari mostra nell’ornato s24 una chiara analogia con il decoro presente sul nostro oggetto.
2-Si veda ad esempio lo stesso boccale a figura umana (lotto 3) di questa medesima selezione, molto simile anche per dimensioni.
3-FIOCCO GHERARDI 1991, n. 9
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Lot 5 Orciolo biansato
Ambito fiorentino, Montelupo, 1420-1430
Maiolica, corpo ceramico di colore ocra chiaro, appena rosato. Smalto color crema di lucentezza marcata, ma steso in uno strato poco spesso che lascia trasparire il colore dell’impasto; la smaltatura si estende anche all’interno del contenitore. Decoro “a zaffera” in blu di cobalto e piombo poco rilevato, orlato con tratti sottili di bruno di manganese piuttosto diluito.
Alt. cm 16; ingombro massimo cm 14; diam. della bocca cm 8,9; diam. del piede cm 8,4.
Sotto l’ansa il simbolo della bottega, le lettere “x” e “n” disposte in successione, associate da un lato ad un punto blu, dall’altro ad una croce.
Two-Handled Apothecary Jar (orciolo)
Florentine area, Montelupo, 1420–30
Earthenware, covered with a creamy-white glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 16 cm; maximum width 14 cm; mouth diam. 8.9 cm; foot diam. 8.4 cm
Below the handle, ‘x’ and ‘n’ workshop marks with a blue dot on one side and a cross on the other side
Il vaso elettuario, destinato allo stoccaggio di unguenti, ha una forma arrotondata con un corpo globoso, che scende assottigliandosi verso il piede basso e con base piana. Il collo, cilindrico, è corto e privo di orlo. Dalla spalla, fino alla parte più esterna del corpo, si allargano due brevi anse a nastro a piega ortogonale.
La decorazione, suddivisa in due metope che occupano la gran parte del corpo, segnate da sottili linee di manganese, è caratterizzata da un motivo a foglie di quercia che si dipartono da un sottile ramo centrale, realizzato in manganese, per aprirsi lateralmente con andamento simmetrico. Le due metope sono separate tra loro dalle anse che, scendendo lungo il corpo, ne determinano l’impaginato decorativo. Il collo è ornato da una serie continua di punti blu, tra loro separati da una linea sinuosa in bruno di manganese (1).
Il decoro a foglia di quercia è molto frequente nelle produzioni di area fiorentina e la sua diffusione secondo alcuni studiosi è da mettere in relazione con l’obiettiva difficoltà tecnica della pittura a zaffera: il soggetto arrotondato e ripetitivo doveva facilitare la tenuta del colore, limitando sgradite sbavature (2).
L’orciolo trova precisa corrispondenza nell’esemplare n. 44 di questa stessa selezione, ma anche in un manufatto, di poco più grande, studiato da Galeazzo Cora prima e da Carmen Ravanelli Guidotti poi e infine pubblicato nell’esauriente studio sulla zaffera compiuto in occasione della mostra di Viterbo nel 1991 (3).
La marca è stata interpretata da Carmen Ravanelli Guidotti come una “z” e una “n” disposte in successione e riferita ad un gruppo di marche della produzione montelupina cosiddetta italo-moresca. In realtà, concordemente a quanto affermato da Berti nell’ampio studio sulla ceramica di Montelupo (4), se accettiamo una cronologia produttiva che va dagli anni ’70-’80 del Trecento per ai tardivi esemplari degli anni intorno al 1470 la “zaffera” precederebbe di non pochi anni lo sviluppo della italo-moresca . Per Berti infatti è proprio la scelta morfologica e decorativa, che si discosta dalle consuete composizioni geometrico-fitomorfe della ceramica arcaica, a costituire la principale innovazione e novità formale nella produzione ceramica del Quattrocento. -
Lot 6 ORCIOLO BIANSATO
AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1420-1430
Maiolica, corpo ceramico di colore camoscio chiaro; smalto color crema di lucentezza marcata, steso in uno strato poco spesso che si estende anche all’interno del contenitore. Decoro “a zaffera” in blu di cobalto e piombo, che appare non marcatamente rilevato e orlato con tratti sottili di bruno di manganese piuttosto diluito.
Alt. cm 21,9, ingombro massimo cm 19, diam. della bocca cm 9,7, diam. del piede cm 10,5.
Sotto l’ansa il simbolo della bottega, le lettere “x” e “n” disposte in successione associate da un lato a un punto blu e dall’altro a una croce.
Two-Handled Apothecary Jar (orciolo)
Florentine area, Montelupo, 1420–30
Earthenware, covered with a creamy-white glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 21.9 cm; maximum width 19 cm; mouth diam. 9.7 cm; foot diam. 10.5 cm
Below the handle, ‘x’ and ‘n’ workshop marks with a blue dot on one side and a cross on the other side
Il vaso, destinato ad uso farmaceutico, ha una forma molto simile a quello che precede (lotto 5), con corpo globoso che si assottiglia verso il piede basso e con base piana. Il collo, cilindrico, si alza appena ed è privo di orlo. Dalla spalla fino alla parte più esterna del corpo si allargano due brevi anse a nastro a piega ortogonale.
La decorazione è, anche in questo caso, suddivisa in due metope che occupano la parte principale del corpo, sottolineate da sottili linee di manganese e interessate da una decorazione a foglie di quercia che, a partire da un ramo centrale, si aprono simmetricamente. Le due metope sono separate dalle anse, che scendendo lungo il corpo ne determinano l’impaginato decorativo. Il collo è ornato da una serie continua di punti blu, tra loro separati da una linea sinuosa in bruno di manganese (1) .
L’orciolo trova anch’esso preciso riscontro nell’esemplare già studiato da Cora e poi da Carmen Ravanelli Guidotti e quindi pubblicato nell’esauriente studio sulla zaffera compiuto in occasione della mostra di Viterbo del 1991 (2).
Il confronto più prossimo è quello con l’opera pubblicata da Berti(3), nonché con quella del tutto coincidente esposta alla mostra di Palazzo Strozzi nel 2002 (4).
La presenza della marca di bottega ci conforta, anche in questo caso, sia sull’attribuzione a bottega montelupina, sia sulla datazione da stabilire negli anni 1420-1430 circa.
1- Anche in questo caso, come per l’orciolo che precede, rinviamo a quanto descritto per l’ornato da MOORE-VALERI 1984, pp. 477-500, che ha individuato alcuni decori ispirati alle tappezzerie e ai tessuti di origine orientale. Differente e non trascurabile quanto accennato in nota da Berti in BERTI 1997, p. 126 n. 12, proprio in relazione al rapporto di ispirazione tra le ceramiche e i tessuti, quando afferma che almeno per quanto riguarda le ceramiche a “ figura a spazio contornato” il legame con i tessuti non appare così stretto.
2- CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI-RAVANELLI-LUZI 1991, p. 91 n. 3.
3-BERTI 1999, p. 235 nn. 4-5.
4-BERTI 2002, pp. 54-56 n. 2 e datato al 1420-1430.
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Lot 7 ORCIOLO BIANSATO
AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1420-1430
Maiolica, corpo ceramico di colore marroncino rosato chiaro; smalto color crema di lucentezza marcata, steso in uno strato poco spesso che si estende anche all’interno del contenitore. Decoro “a zaffera” in blu di cobalto e piombo, non rilevato e orlato con tratti sottili di bruno di manganese di colore bruno violaceo.
Alt. cm 19,7, diam. della bocca cm 10,9, diam. del piede cm 11.
Sotto l’ansa il simbolo della bottega “asterisco” in bruno di manganese.
Sotto la base etichetta cartacea con scritta amano a inchiostro “OAK LEAF DRUG POT /-Wallis-/ V&A museum plate 9”.
Segni di capacità incisi sotto la base.
Two-Handled Apothecary Jar (orciolo)
Florentine area, Montelupo, 1420–30
Earthenware, covered with a creamy-white glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese purple
H. 19.7 cm; mouth diam. 10.9 cm; foot diam. 11 cm
Below the handle, ‘star’ workshop mark painted in manganese
On the bottom, paper label hand-written in ink ‘OAK LEAF DRUG POT /-Wallis-/ V&A museum plate 9’
Beneath the base, some etched measure marks
Il vaso, di uso farmaceutico, ha un corpo globoso che si assottiglia verso il piede, basso e con base piana. Il collo, cilindrico, si alza verticale e mostra un orlo rifinito a stecca. Dalla spalla fino alla parte più esterna del corpo si allargano due brevi anse a nastro a piega ortogonale.
La decorazione mostra due metope principali a visione frontale, rimarcate da linee di manganese decorate con due trampolieri circondati da fiori a stella e foglie di quercia; le metope sono separate dalle anse che, scendendo lungo il corpo, ne determinano l’impaginato decorativo; sotto di esse spicca il simbolo di bottega “asterisco” in bruno di manganese. Il collo è ornato da una serie continua di punti blu, tra loro separati da una linea sinuosa in bruno di manganese (1)
L’orciolo per forma e decoro e soprattutto per la presenza dell’asterisco sotto le anse va inserito nella produzione di area fiorentina, dove trova riscontro in molti esemplari databili agli anni 1420-1430 circa (2).
Si vedano come confronto gli esemplari, con impostazione decorativa simile, pubblicati nel catalogo della mostra sulla ceramica a zaffera (3): sono infatti svariati gli orcioli con figura di uccello noti in quest’ambito cronologico.
Ma il nostro orciolo si distingue per qualità formale e stilistica, denunciando una ricerca attenta nella realizzazione degli uccelli, prima dipinti in manganese e quindi riempiti in alcune campiture con cobalto e piombo, che in alcuni punti appaiono sbavati. La medesima ricerca di dettagli decorativi è esercitata dall’autore anche nel riempimento delle foglie e nell’aggiunta di elementi di decoro a completamento dei motivi principali.
1-Anche in questo caso come per le altre opere analoghe già analizzate in questa sede (lotti 5 e 6) rinviamo a quanto suggerito per l’origine dell’ornato da MOORE-VALERI 1967, pp. 477-500, che ha individuato alcuni ornati come ispirati alle tappezzerie e ai tessuti di origine orientale.
2-Gli studi attribuiscono le opere con asterisco delineato sotto le anse alla bottega di Maso e Miniato di Domenico, operanti probabilmente a Firenze, o alla bottega di Giunta di Tugio, attiva invece a Bacchereto vicino a Firenze. -
Lot 8 BOCCALE
AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1430-1440
Maiolica, corpo ceramico di colore ocra chiaro camoscio, smalto bianco grigiastro con consistenza tenera, spesso ma poco lucente e con qualche inclusione. Decorato in zaffera blu di cobalto e piombo con effetto molto rilevato, con tratti di bruno di manganese anch’esso con abbondanza di pigmento.
Alt. cm 16,5; diam. della bocca cm 12,5 x 11; diam. del piede cm 12.
Jug (boccale)
Florentine area, Montelupo, 1430–40
Earthenware, covered with a grayish white glaze and painted in zaffera blue (relief cobalt and lead blue) and manganese
H. 16.5 cm; mouth diam. 12.5 x 11 cm; foot diam. 12 cm
Il boccale ha una forma che ben si adatta alle morfologie tipiche dell’area fiorentina: corpo rigonfio che si stringe alla base mostrando un piede basso arrotondato, appena visibile, e poggiante su una base piana. In alto la strozzatura rastremata si chiude in un collo basso e cilindrico che si apre in una bocca trilobata appena estroflessa con orlo tagliato a stecca. Dal collo scende un’ansa a bastoncello raddoppiato, che si ferma appiattendosi all’altezza di massima espansione dell’invaso. L’ansa è decorata da trattini orizzontali che delimitano spazi bianchi, decorati in alternanza da puntini o croci. Un motivo “a trifoglio” in blu interessa il punto di raccordo tra l’ansa e il corpo del contenitore.
La decorazione principale interessa una larga metopa, delineata sul fronte del vaso e incorniciata da linee parallele, dove un leone rampante e un trampoliere sono riprodotti affrontati: gli animali sono circondati e incorniciati da foglie di quercia su rami sottili che sostengono piccoli frutti rotondi stilizzati. Il collo è decorato da un motivo “a bacche”, che prevede una fila continua di punti tondi e sottili tratti di manganese.
Le figure del leone e dell’uccello sono spesso impiegate, singolarmente, sulle ceramiche di questa tipologia, in posizione gradiente.
Il leone trova un riscontro stilistico in una figura analoga, ma in posa differente, dipinta su un boccale morfologicamente simile, ma di dimensioni maggiori, conservato in una collezione privata a Siena e databile al secondo quarto del secolo XV: il leone con criniera avanza a destra con la lingua all’infuori ed è circondato da foglie di quercia (1). Ma, nonostante la somiglianza, ci pare che il nostro esemplare si possa annoverare tra le opere ascrivibili alla prima fase di questa tipologia produttiva. La qualità della zaffera molto rilevata, alcuni caratteri decorativi ancora vicini alla ceramica arcaica e la forma con ansa a doppio bastoncello ci indurrebbero ad anticiparne la datazione di circa un ventennio.
Il leone rampante è spesso rappresentato da solo o in coppia su molti orcioli di produzione montelupina della fase iniziale della “zaffera” (2). Particolarmente prossimo al nostro esemplare è il leone presente su un orciolo, pubblicato da Galeazzo Cora, già della collezione Liechtenstein (3) : molto vicini sia lo stile pittorico con il quale è realizzato l’animale sia la scelta decorativa secondaria; l’opera è datata da Cora alla prima metà del secolo XV.
Da rimarcare poi sia la rarità della scelta morfologica del contenitore (4)sia l’importanza dell’impianto decorativo, impreziosito dalla presenza contemporanea dei due animali affrontati. -
Lot 9 ORCIOLO BIANSATO
AMBITO FIORENTINO, MONTELUPO, 1480-1490
Maiolica, corpo ceramico di colore camoscio molto chiaro; smalto color crema, coprente, di lucentezza piuttosto marcata, steso in uno strato spesso; la smaltatura si estende anche all’interno del contenitore.
Decoro realizzato in policromia, che vede associare la tecnica “a zaffera” in blu di cobalto e piombo, ma poco rilevata, al bruno di manganese e al giallo antimonio.
Alt. cm 14,7; diam. della bocca cm 9,4; diam. del piede cm 9.
Two-Handled Apothecary Jar (orciolo)
Florentine area, Montelupo, 1480–90
Earthenware, covered with a creamy-white glaze and painted in zaffera blue (cobalt and copper blue), manganese and antimony yellow
H. 14.7 cm; mouth diam. 9.4 cm; foot diam. 9 cm
Il vaso elettuario, destinato a contenere sostanze semiliquide o oleose, ha una forma simile a quelli già presentati in questa stessa raccolta (lotti 5-7). Il corpo globoso ovoidale è rastremato verso il piede che si mostra basso, appena espanso e con base piana. Il collo, breve e cilindrico, si alza appena e si apre in una bocca con orlo tagliato a stecca appena sporgente. Dalla spalla fino alla parte più esterna del corpo si allargano due brevi anse a nastro a piega ortogonale.
La decorazione è suddivisa in due metope che occupano gran parte del corpo, delimitate ai lati da sottili linee di manganese, mentre, nella porzione superiore e inferiore, sono rimarcate da una linea gialla che esalta i punti di strozzatura della forma. I riquadri sono centrati da un medaglione che racchiude un orso andante a sinistra sul fronte e un fiore quadripetalo sul retro. I medaglioni sono circondati da un motivo a foglie di quercia.
L’orciolo appartiene a una serie di cui sono noti alcuni esemplari recanti sotto l’ansa una “N” riferibile a una bottega attiva a Montelupo alla fine del XV secolo (1), periodo cui si fa risalire la fine della produzione a zaffera.
L’esemplare oggetto di studio si discosta ormai dalla tipologia a zaffera e ha un confronto molto prossimo conservato nella Pinacoteca di Varallo Sesia (2): entrambe le opere sono ormai interessate dall’uso di più colori e pertanto ascrivibili, a nostro parere, ad una fase più tardiva della produzione, inserendosi però a pieno titolo negli ordinativi di un corredo farmaceutico che doveva, dato il numero di esemplari noti, avere un certo rilievo (3): si pensa pertanto a una produzione di Montelupo degli anni 1480-1490 circa.
1-Molti gli esemplari presenti nelle maggiori collezioni di alcuni musei quali il Bargello o il Museo Internazionele della Ceramica di Faenza: per un repertorio si veda: CONTI-ALINARI-BERTI-LUCCARELLI- RAVNELLI-LUZI 1991, pp. 92-93 nn. 32-34 e bibliografia relativa. Già studiato da CORA 1973, p. 83 tavv. 117 e 118 e da BERTI 1997, vol. III, p. 251.
2-ANVERSA 2007, p. 32 n 7: l’opera pubblicata era stata datata con relativa incertezza alla seconda metà del secolo XV. Oggi, alla luce delle nuove pubblicazioni e confronti, la datazione è accettabile.
3-Si vedano anche gli esemplari pubblicati in COLAPINTO-MIGLIORINI-CASATI-MAGNANI 2002, pp. 80-82 nn. 14-15.
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Lot 10 ALBARELLO
MONTELUPO, 1470-1480
Maiolica dipinta in policromia con giallo citrino e blu di cobalto.
Alt. cm 18; diam. bocca cm 10,3; diam. piede cm 9.
Apothecary Jar (albarello)
Montelupo, 1470–80
Earthenware, painted in lemon yellow and cobalt blue
H. 18 cm; mouth diam. 10.3 cm; foot diam. 9 cm
Il vaso apotecario ha un’imboccatura larga con orlo appena estroflesso e con profilo tagliato a stecca. Il collo è breve e cilindrico, la spalla pronunciata dal profilo angolato, cui fa seguito un corpo cilindrico appena rastremato al centro. Il piede è basso, a base piana.
La decorazione, coerente con quella dell’esemplare che segue in questo stesso catalogo (n. 11), rivela sul fronte uno stemma centrato da una fascia orizzontale attorno alla quale sono disposti tre gigli, due sopra e uno sotto: la fascia e i gigli sono dipinti in colore giallo. Lo stemma è circondato da una ghirlanda a piccole foglie alla quale è agganciato un drappo, mentre il resto della composizione mostra un ornato a foglie d’edera disposto a fasce parallele sul corpo e orizzontalmente lungo la spalla.
I due vasi, entrambi presenti in questo catalogo, sono già stati pubblicati da Carmen Ravanelli Guidotti come confronti dell’albarello apotecario appartenente alla collezione Fanfani oggi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1).
La studiosa rimarca come ci si trovi davanti ad esempi ancora eccellenti di opere “a zaffera”, d’ispirazione italo-moresca, soffermandosi sull’aspetto araldico della serie di vasi raccolti attorno all’esemplare “Fanfani”: le differenze nelle forme e nelle configurazioni riguardano l’apparato decorativo e la differente redazione dell'arma. Per Carmen Ravanelli Guidotti si potrebbe trattare comunque di un’unica committenza iniziale, cui hanno fatto seguito più produzioni, e la studiosa concorda con Wallis riguardo all’ipotesi che si tratti di una famiglia non fiorentina. Il collezionista inglese riconobbe infatti nello stemma dell’esemplare ora conservato al Victoria and Albert Museum (2), quello della famiglia bolognese dei Mezzovillani. Per Carmen Ravanelli Guidotti si dovrebbe comunque indagare in ambito romagnolo e bolognese, dove altre famiglie esibiscono un blasone assai prossimo (3).
Analizzando nel dettaglio i due vasi notiamo che questo ha affinità maggiori con il vaso della collezione Glaser al Fitzwilliam Museum (4), fatta eccezione per la presenza di una fascia decorativa in orizzontale, anche nella parte bassa del vaso, mentre lo stemma ha una distribuzione dei gigli analoga: condivide l’ornato anche il già citato albarello del museo di Faenza.
L’ornato principale è ampiamente documentato tra i prodotti delle fornaci di Montelupo ed è noto come motivo a foglie verticali nel gruppo di decori di derivazione orientale “a damaschino” (5). Fausto Berti ritiene che questo tipo d’impianto decorativo appartenga a una fase più avanzata rispetto a quelli “a zaffera” o a quelli in “azzurro prevalente”: si tratta di un momento di passaggio verso una tavolozza più ricca. I tocchi di giallo citrino anticipano una fase successiva, in cui comincerà ad apparire anche il verde: ci si trova comunque ancora nell’ambito dei colori a tavolozza fredda. L’ornato prevede una foglia di forma lanceolata, nella quale le nervature sono incise nella campitura a colore, in questo caso ancora prevalentemente caratterizzata dall’uso del blu di cobalto. -
Lot 11 ALBARELLO
MONTELUPO 1470-1480
Maiolica dipinta in policromia con giallo citrino, blu di cobalto e bruno di manganese.
Alt. cm 17,8; diam. bocca cm 8,8; diam. piede cm 9.
Apothecary Jar (albarello)
Montelupo, 1470–80
Earthenware, painted in lemon yellow, cobalt blue, and manganese
H. 17.8 cm; mouth diam. 8.8 cm; foot diam. 9 cm
Il contenitore ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo angolato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana.
La decorazione, coerente con l’opera che precede (lotto 10), mostra sul fronte uno stemma centrato da una fascia orizzontale, lasciata a risparmio, sopra la quale sono tratteggiati tre gigli separati da una fascia merlata inversa di colore bruno di manganese. L’emblema è circondato da una ghirlanda a piccole foglie che sorregge un drappo, mentre il resto della composizione è costituito da un ornato a foglia d’edera, disposto in fasce verticali dall’andamento sinuoso, che continua sulla serie di foglie del collo. Rispetto all’esemplare che precede inoltre le fasce sono qui visibilmente separate da linee di colore giallo citrino, mentre intorno alle foglie sono disposti decori minuti realizzati con sottili righe blu che riempiono le campiture vuote.
Anche questo vaso condivide con il precedente la pubblicazione a cura di Carmen Ravanelli Guidotti come confronto dell’albarello apotecario oggi al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (1). Pur condividendo con il precedente sia i confronti sia la fonte d’ispirazione valenciana, presenta alcune differenze nella forma e nella decorazione, e soprattutto nella realizzazione dell’emblema araldico.
Sono tuttavia numerose le affinità con la serie di contenitori apotecari con bordo orlato dal motivo a foglie d’edera racchiuso sul corpo in fasce di andamento ondulato. Un esempio pregnante ci deriva dall’albarello studiato da Wallis al Victoria and Albert Museum, con la sola variante dell’arma nella quale i gigli sono tutti compresi nella parte superiore dello stemma. Un altro confronto, per questo vaso, con la stessa variante nello stemma, (2) ci deriva da un contenitore delle raccolte del Museo di Monaco (3).
Come detto per il lotto precedente, entrambi gli albarelli sono noti perché transitati sul mercato all’asta Sotheby’s di Londra nel 1973 (4).
1-RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 52-54 n. 17, tavv. 17c e 17f.
2-CORA 1973, tav. 178b.
3-RAINER RICHTER,2006, p. 83n.32
4-SOTHEBY’S 1973, lotto 7.
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Lot 12 ALBARELLO
MONTELUPO, 1480-1505 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio nel tono arancio, blu di cobalto, verde ramina, bruno di manganese nei toni del viola.
Alt cm 24,6; diam. bocca cm 9,4; diam. piede cm 9,3.
Apothecary Jar (albarello)
Montelupo , c. 1480–1505
Earthenware, painted in antimony orange-yellow, cobalt blue, copper green, and manganese purple
H. 24.6 cm; mouth diam. 9.4 cm; foot diam. 9.3 cm
Il contenitore apotecario presenta un’imboccatura ampia con orlo inclinato, rifinito a stecca, collo breve, spalla incurvata dal profilo allungato a spigolo vivo, che scende in un corpo cilindrico appena rastremato per terminare in un calice troncoconico con base piana.
Il decoro mostra sul collo e sul calice un motivo a righe parallele, blu e manganese-viola, compreso in due fasce orizzontali colorate in viola e arancio. Sul fronte, entro un medaglione tondeggiante rimarcato da pennellate blu, giallo arancio e viola, si scorge un simbolo di spezieria a sua volta delineato in blu.
Sul retro un motivo a “penna di paona” è accostato a un decoro “alla porcellana”,realizzato con tocchi rapidi, utilizzato a riempimento delle campiture.
La forma dell’albarello è ancora vicina alle fogge quattrocentesche, che trovano riscontro in opere unite a decori alla “damaschina” o comunque d’influenza orientale come l’albarello del Victoria and Albert Museum di Londra (1). L’influenza orientale nel nostro esemplare è rappresentata dal decoro alla “penna di paona”, interpretato dalle manifatture montelupine in maniera rapida e corriva, più accorta nella stesura coloristica rispetto all’impianto disegnativo.
Questo ornato segna, unitamente a quello alla “palmetta persiana”, il momento di passaggio dalle decorazioni medievali a quelle più schiettamente rinascimentali. La derivazione da opere orientali trae origine probabilmente dall’area persiana che, tra il XIII e XIV secolo, propone questo decoro in lustro metallico. Utilizzato nella seconda metà del XV secolo come ornato accessorio, esso diviene poi decorazione principale, prevalentemente in forme aperte solo nel secolo successivo (2). Fin dall’esordio è realizzato in forma stilizzata e, in questo caso, ancora legato a una connotazione fitomorfa, quasi floreale, che diverrà sempre più decorativa semplificandosi vieppiù in forma di fascia secondaria. Questo decoro non fu comunque tra i più in voga presso i vasai di Montelupo. Sono scarsi gli esemplari di confronto su forme chiuse e tutti quelli individuati lo utilizzano come motivo principale (3). Ciononostante siamo portati a ritenere il vaso in analisi vicino per morfologia e stile alle produzioni del primo Cinquecento, e comunque posteriore agli anni ‘70 del secolo precedente.
1-RACKHAM 1977, pp. 21-23 n. 83.
2-BERTI 1998, pp. 109.
3-BERTI 1999, pp. 257 nn. 54-55.
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Lot 13 ALBARELLO
MONTELUPO, 1505-1515 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio e blu di cobalto; smaltatura all’interno.
Alt cm 20; diam. bocca cm 8,5; diam. piede cm 9,3.
Apothecary Jar (albarello)
Montelupo , c. 1505–15
Earthenware, painted in antimony yellow and cobalt blue
H. 20 cm; mouth diam. 8.5 cm; foot diam. 9.3 cm
Il contenitore apotecario presenta un’imboccatura ampia con orlo inclinato, rifinito a stecca. II collo è breve; la spalla piana, con stacco a spigolo vivo, scende in un corpo cilindrico appena rastremato, terminante in un calice troncoconico che si assottiglia per finire in un piede con base piana. Lo smalto è di colore bianco rosato, molto crettato, e alcune colature dall’orlo della bocca ne denunciano lo spessore.
Il vaso mostra, lungo il corpo, un decoro “alla porcellana” in monocromia blu e sul fronte, entro una cornice rotonda, uno stemma con una croce blu decorata da cinque stelline ad asterisco di colore giallo. Una catena continua corre lungo la spalla, mentre il collo e le fasce limitrofe alla decorazione principale sono dipinti con linee parallele. Nella decorazione predomina il colore blu cobalto in vari gradi di diluizione applicato con tecnica sapiente, come ad esempio nella cornice dello scudo di colore azzurro chiaro o nei nastri che la adornano tracciati a punta di pennello. Unica nota differente di colore il giallo delle stelle all’interno dello scudo.
La forma è ancora tardo-quattrocentesca e si può accostare per confronto a quella di un albarello già in collezione Cora, ora al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza che presenta decori “alla porcellana”, ma in una versione policroma e accostata a ornati più complessi (1). Il decoro del nostro esemplare, abbinato all’emblema della farmacia, ci sembra però influenzato da dettami stilistici già di primo Cinquecento e comunque ormai slegato dagli ornati d’ispirazione strettamente mediorientale. Il gusto è prossimo a quello degli albarelli già descritti in questo stesso catalogo (lotti 10-11) ma se ne discosta. L’influenza stilistica guarda all’estremo oriente: ai modelli della famiglia blu e del nodo orientale, qui declinati in un modo più corrivo, ma non meno elegante di quello generalmente proposto nelle forme aperte provenienti dal pozzo dei lavatoi a Montelupo.
Il gruppo di appartenenza potrebbe essere pertanto il 40.6 della classificazione di Berti (2), allorché il tralcio naturalistico perde consistenza e si destruttura in elementi più sottili e meno incisivi: gli elementi araldici sono spesso presenti in questa fase.
Si pensa pertanto a una datazione attorno al primo trentennio del secolo XVI.
1- BOJANI 1985, p.177, n. 440.
2-BERTI 1998, p. 148 gruppo 40.6 .
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Lot 14 PIATTO
MONTELUPO, 1515 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco, bruno di manganese.
Alt. cm 6,5; diam. cm 47,5; diam. piede cm 18.
Sul retro del piatto sotto il piede la scritta “Lo”.
Dish
Montelupo, c. 1515
Earthenware, painted in yellow, orange, blue, green, white, and manganese
H. 6.5 cm; diam. 47.5 cm; foot diam. 18 cm
On the back, beneath the base, inscription ‘Lo’
Il piatto mostra la foggia tipica dei bacili di grande diametro con ampio cavetto piano, tesa obliqua, piede ad anello appena accennato. La materia è spessa, il corpo ceramico di colore beige rosato traspare dallo smalto bianco panna poco aderente, specialmente sul retro del piatto, magro e friabile.
Sul fronte leggiamo una complessa decorazione con, al centro del cavetto, la scena della Deposizione di Cristo dalla croce . La raffigurazione vede al centro la croce, dalla quale alcune figure arrampicate su scale distaccano il corpo di Cristo: uno dei personaggi utilizza una grossa pinza che stringe in una mano. Ai piedi della croce la Maddalena, riconoscibile dai lunghi capelli biondi, inginocchiata accoglie le spoglie. Alcune figure femminili velate aiutano nell’operazione mentre, a destra, San Giovanni sorregge la Madonna che si accascia per il dolore. Sottili alberelli fanno da sfondo alla scena, e piccoli ciuffi di fiori adornano il prato. Sullo sfondo, a sinistra, si scorge la città di Gerusalemme appena tratteggiata in blu.
Una fascia decorata a perline separa il cavetto dalla tesa, che mostra un complesso ornato in cui quattro riserve di forma arrotondata si alternano a un fitto motivo a grottesche che riempie interamente le restanti campiture. La medesima impostazione decorativa è poi ripetuta per quattro volte: un’erma femminile, sostenuta da due sfingi, porta sul capo una cornucopia su cui è appollaiato un pavone; ai lati dell’erma, due putti sorreggono un tendaggio a incorniciare la scena; le restanti campiture sono riempite in giallo, rosso e blu mentre piccoli decori fogliati e uccelli volanti le animano. All’interno delle riserve sono descritti quattro momenti della passione di Cristo: la visita da Erode con la folla che sbeffeggia il Cristo, Ponzio Pilato, la fustigazione e Gesù che porta la croce. Tutte le scene mostrano una grande attenzione narrativa con aggiunta di particolari miniaturistici nelle architetture, nelle vesti, nelle armi e in altro ancora.
La caratteristica fascia “a petali” orna il verso della tesa, lasciando scoperto il centro del cavetto, sottolineato da linee di colore blu, nel quale s’intravede –nella parte ancora ricoperta dallo smalto bianco-beige che non ha aderito in lavorazione – una porzione della marca “ Lo ”, attribuita alla bottega di Lorenzo di Pietro Sartori, attiva nel primo decennio del secolo XVI (1).
Il pittore mostra una felice ispirazione miniaturistica che fa superare la rapidità e l’imperizia di alcune realizzazioni: l’effetto artistico non è da ricercare tanto nel dettaglio quanto nell’insieme, nell’impatto decorativo generale. L’artefice è comunque capace e mostra un suo stile preciso: i volti dei personaggi, arrotondati nei putti, le bocche dipinte con un trattino orizzontale, i corpi leggermente ombreggiati di azzurro nelle grottesche. -
Lot 15 CRESPINA O PSEUDOCRESPINA
MONTELUPO, 1505-1515 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia su smalto con arancio, blu, verde, rosso e bianco.
Alt. cm 3,3; diam cm 21,3; diam. piede cm 10,2.
Moulded Bowl (crespina or pseudocrespina)
Montelupo , c. 1505–15
Earthenware, painted in orange, blue, green, red, and white
H. 3.3 cm; diam. 21.2 cm; foot diam. 10.2
Il piatto ha forma poco profonda, umbone centrale rilevato e separato dalla tesa da una cornice centinata; la tesa ha forma baccellata a rilievo e termina in un orlo rilevato dal profilo arrotondato, mentre il piatto poggia su un basso piede leggermente incavato. Anche sul retro sono visibili le baccellature. La forma, che imita i piatti metallici sbalzati del primo Rinascimento, era realizzata a crudo dal vasaio tramite l’applicazione sul retro del piatto di uno stampo che veniva compresso sul disco di argilla poi lavorato.
Il decoro dipendeva dalla morfologia dell’oggetto, e quello proposto su quest’opera è particolarmente significativo: le baccellature sono rimarcate dalla bicromia giallo-blu che dà rilievo alla forma, evidenziata e riservata per mezzo di una sottile filettatura in blu di cobalto. Tra le baccellature e la tesa si scorge un piccolo motivo a punta di diamante, esaltato anch’esso dall’uso della bicromia in rosso ferro e verde. Gli spazi vuoti sono poi riempiti da sottili spirali blu. Il centro dell’umbone è interessato da una scacchiera fitta, con sottili decori blu, a riempimento delle parti a riserva, tra le quadrettature verdi e rosse. Il retro non mostra decori, ed è ricoperto da un ingobbio di color nocciola, steso con rapidità e con una vetrina sottile.
Il piattello si trova documentato già nello studio di Galeazzo Cora, che lo pubblica come esempio importante della categoria a sbalzo, a somiglianza appunto di recipienti metallici, appartenente al Gruppo XVI C che circoscrive a un periodo cronologico prossimo alla fine del secolo XV (1).
I documenti di scavo pubblicati da Berti lo inseriscono invece tra le produzioni meno rappresentate, collocabili cronologicamente nel primo periodo rinascimentale, ben documentato negli scavi di Valdarno, e lo classificano nel gruppo 38 (2).
Si aggiungono a questa serie di confronti, un piatto con decoro appena differente sull’orlo della tesa, conservato al British Museum (3), e uno conservato al Louvre con diversa cromia (4).
Il raffronto con l’immagine fotografica di un piatto delle raccolte prebelliche del British Museum, attribuito a Montelupo negli anni 1500-1515, molto vicino per morfologia e decoro al nostro oggetto e purtroppo andato distrutto nell’ultima guerra (5), ci pare poi particolarmente interessante.
Anche il confronto con i reperti dallo scavo “del pozzo dei lavatoi”, unitamente a quanto sopra detto, ci conduce dunque a una datazione precoce e circoscritta al primo quindicennio del secolo XVI.
1 CORA 1973, vol. I, p. 154; vol. II, fig. 273b.
2 BERTI 1997-2003, II, pp. 134-135 tav. 131 e II, p. 134 figg. 131-132.
3 THORNTON-WILSON 2009, p. 204; n. 128.
4 GIACOMOTTI 1974, n.442.
5 THORNTON-WILSON 2009, Appendix p. 716 tav. A15.
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Lot 16 Giovanni della Robbia
(Firenze 1469 - 1529/1530)
VASO DECORATIVO DEL TIPO AD ANFORA CON ANSE A DELFINO, ORNATO DA FESTONI E
PROTOMI, 1520/1525 CIRCA
COPERCHIO IN FORMA DI MAZZETTO DI FRUTTA, FIORI E UNA RANA, COEVO
Terracotta invetriata: il vaso color porpora a imitazione del porfido, il
coperchio con una policromia naturalistica; cm 54,5x38; il vaso cm41x31
(senza le anse); il coperchio cm 13,5 (cm 20 col perno) x 22 circa.
DECORATIVE VASE-TYPE AMPHORA WITH DOLPHIN HANDLES, DECORATED WITH GARLANDS
AND BUSTS, CA. 1520/1525 COVER IN THE FORM OF A BUNCH OF FRUIT, FLOWERS AND
A FROG, CONTEMPORARY
Earthenware glazed: the vase is colored porpora imitation, cover with a
polychrome naturalistic: 54,5 cmx38; the vase 41x31 cm (without handles);
the cover 13,5 (20 cm with the hinge) x 22 cm
Già pubblicato da Galeazzo Cora nel suo fondamentale contributo sui Vasi
robbiani (1959, pp. 59- 60 n. 44, tav. XXV.d), poi riproposto
nellimportante, prestigiosa Storia della maiolica di Firenze e del contado
(1973, pp. 188-189 n. 44, tav. 308.d), questo spettacolare vaso decorativo
si distingue nella feconda e variegata produzione di simili manufatti -
che, come la popolare plastica araldica (Dionigi 2014), attestano
loriginale, apprezzato impegno dei Della Robbia nellarredo profano delle
dimore signorili - in quanto riconducibile ad una delle tipologie più rare,
maestose ed evolute, caratterizzata dalle proporzioni monumentali e dal
fastoso ornato scultoreo dimpronta archeologica; ma soprattutto per la
singolare invetriatura purpurea a imitazione del porfido, considerato
nellantichità per la sua durezza la pietra degli imperatori, colore che
sostituisce qui la consueta tonalità azzurra utilizzata per simulare un
intaglio nel lapislazzuli.
Il vaso è del tipo ad anfora biansata, con manici a S in forma di delfino -
frequente nella maiolica rinascimentale in quanto allusiva alle acque -,
che adottano un modello ripetuto con minime varianti nella produzione
robbiana, mentre il corpo presenta invece una più complessa struttura
composita, scandita da fasce diversamente ornate. Il collo, scampanato e
schiacciato in modo da assumere un profilo a scozia, con ampia bocca
svasata bordata da una fusarola, è ricoperto da embricazioni a scaglie e
freccette, motivo ricorrente anchesso nei vasi robbiani che conferisce
allanfora un carattere architettonico a guisa durna. Il corpo, di forma
ampia e solida, è costituito da una coppa scandita da vigorose baccellature
in aggetto - decorazione consueta ma che in tali manufatti assume caratteri
diversi, perlopiù meno plastici -, sopra la quale si distende un alto
fregio scultoreo ispirato dagli ornati lapidei rinascimentali, cadenzato da
quattro cherubini e da altrettante protomi leonine sopra le quali sono
appesi festoni vegetali. Al centro risalta una fantasiosa balza col motivo
classico del meandro, riscontrabile solo in unaltra tipologia riferita alla
maturità di Giovanni della Robbia (Philadelphia, Museum of Art; già
Firenze, collezione Contini Bonacossi: A. Bellandi, in Gentilini 1998, pp.
277-278 n. III.19), presumibilmente anteriore per la concezione più
semplificata (vedi fig.1); mentre il piede, al centro del quale si trova un
foro per lancoraggio praticato durante la foggiatura, presenta una più
essenziale struttura tornita, ornata solo da un collarino di raccordo alla
coppa. -
Lot 17 CANESTRO DI FRUTTA
GIOVANNI DELLA ROBBIA, 1520-1525 CIRCA
Terracotta decorata in policromia a pigmento e invetriata.
Alt. cm 18; diam. cm 26.
Basket of Fruit
Giovanni della Robbia, c.152025
Glazed earthenware, painted in colours
H. 18 cm; diam. 26 cm.
La scultura è a forma di canestro con composizione di frutta. Il
contenitore ha unimboccatura ampia, con una strozzatura a metà del corpo e
piede piano: limitazione del vimini nella struttura è accorta e
dettagliata. La parte alta del contenitore ospita una grande quantità di
frutta, di verdura e alcuni fiori: uva, melograno, cetriolo, limoni, noci,
fiordaliso, fiori darancio e altro. La composizione è disposta con grande
naturalezza e arricchita da elementi quali una piccola raganella verde e
una lumaca.
Di questa tipologia sono conosciuti alcuni esemplari con varianti: si
ricordano tra le altre la cestina del Museo Bardini di Firenze (1)
attribuita a Giovanni della Robbia; le cestine esposte alla Mostra di
Fiesole sui della Robbia (2), anchesse assegnabili al medesimo ambito; la
cestina della collezione Cagnola di Varese di officina robbiana forse
vicino a Giovanni o Luca della Robbia (3).
Questo tipo di oggetto si affianca alle produzioni non scultoree della
bottega della Robbia, che comprendeva anche i vasi di gusto classicistico e
i vasi con coperchio plasmato a guisa di cespo di fiori o di frutta, come
ad esempio quello del Fitzwilliam di Cambridge, in cui ci pare di vedere
una comunanza nello stile del decoro a frutta con il nostro cestino (4).
Queste opere dovevano probabilmente essere utilizzate come ornamento
dellaltare o anche come gameli nuziali (5).
Giancarlo Gentilini ricorda come si tratti di una produzione limitata, dove
i panieri erano realizzati a calco dal vero, mentre la frutta e gli animali
da orto erano modellati, e assegna queste opere al periodo di Giovanni e
Luca il Giovane nella prima metà del Cinquecento (6).
Qualche analogia va segnalata anche con un canestro, di dimensioni
superiori al consueto, abitato come il nostro esemplare da piccoli
animaletti, databile agli anni venti del Cinquecento per il modellato e le
scelte cromatiche (7).
La produzione sinserisce in un preciso programma culturale dei della Robbia
che ha un suo illustre precedente nellantichità classica, quando opere in
terracotta raffiguranti i frutti della terra erano esposte nelle dimore per
alludere alla fertilità e allabbondanza (8).
1 GENTILINI 1992, inv.1923 n. 877, p. 281.
2 QUINTERIO in GENTILINI 1998, p. 279 n. III, 21a,b.
3 AUSENDA 1999, p. 165 n. 2.
4 POOLE 1997, p. 30 n. 10, attribuito a bottega di Andrea della Robbia.
5 GENTILINI 1992, p. 221.
6 GENTILINI 1998, pp. 221 e 359. Ne parla il Piccolpasso indicando le varie
tecniche della maiolica (PICCOLPASSO 1976, p. 87).
7 QUINTERIO in GENTILINI 1998, p. 280 n. III, 22.
8 GENTILINI 1980, p. 85.
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Lot 18 PIATTO
CAFAGGIOLO, 1545 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco, bruno di manganese.
Alt. cm 4; diam. cm 40,5; diam. piede cm 23,5.
Sul retro del piatto sotto il piede, la scritta “Lacjena di Simone/in gafagiolo” e il monogramma “ SP” seguito dalle iniziali “ A.f.”.
Dish
Cafaggiolo, c. 1545
Earthenware, painted in yellow, orange, blue, green, white, and manganese
H. 4 cm; diam. 40.5 cm; foot diam. 23.5 cm
On the back, beneath the base, inscription ‘Lacjena di Simone/in gafagiolo’ and a monogram ‘SP’ with the initials ‘A.f.’ next to it
Il piatto mostra la forma tipica dei bacili di grande diametro con ampio cavetto piano, tesa obliqua, piede ad anello appena accennato. La materia è spessa, il corpo ceramico di colore beige rosato traspare dallo smalto bianco panna poco aderente e, specialmente sul retro, magro e friabile. Sul retro un fitto motivo a petali delineati e decorati in blu di cobalto è riempito da linee tratteggiate color arancio e interessa l’intera superficie della tesa. Il cavetto è decorato “a calza” con filetti paralleli blu. Alcune linee gialle concentriche delimitano l’orlo e il piede, mentre lungo la tesa si scorge, in blu di cobalto, un decoro “alla porcellana” disposto intorno a un motivo a nastro intrecciato, “groppo”, a segnare i punti cardinali. Al centro del piede, poco leggibile, è tracciata la legenda: “Lacjena di Simone/in gafagiolo” associata al monogramma SP e alle iniziali Af.
La scena raffigurata sul fronte è tratta puntualmente da una nota incisione di Marcantonio Raimondi da Giulio Romano (1) (fig. 1) e mostra Gesù seduto mentre la Maddalena, dopo avergli cosparso i piedi di unguenti, glieli asciuga con i capelli. Sulla sinistra si scorge la tavola imbandita riccamente, i commensali che osservano la scena, mentre un giovinetto, con un vassoio ricolmo di vivande, si dirige là dove gli è indicato dal padrone di casa, raffigurato con il capo adornato da un turbante. I personaggi sono variamente atteggiati e intenti nel banchetto. Un cagnolino e alcune brocche riempiono la scena alle spalle della donna inginocchiata. Tutta la rappresentazione è incorniciata da due spessi tendaggi ed è chiusa da una parete scura: vi si aprono due finestrelle da cui s’intravede un paesaggio montuoso.
L’incisione doveva aver avuto una buona diffusione tra le botteghe dei vasai nel corso del Cinquecento: la troviamo raffigurata in una bella coppa faentina, opera autografa di Baldassarre Manara, presumibilmente attorno al 1534 – già nella collezione Zschille di Lipsia e pubblicata nel corpus di Ballardini (2) – e anche nel piatto datato 1528, lustrato dalla bottega di Mastro Giorgio, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York (3).
Il monogramma Af è stato collegato da Alinari(4) al nome di Alessandro, figlio di Stefano Fattorini, anche se lo studio della personalità che utilizza tale sigla negli istoriati tardi è stata a lungo indagata per la presenza documentata dei Fattorini a Montelupo in quell’epoca (5).
Al momento si ritiene che i “fornaciari” Pietro e Stefano di Filippo Schiavon, chiamati a lavorare a Cafaggiolo da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici fra il 1498 e il 1499, abbiano dato origine alla manifattura con il loro trasferimento da Montelupo (6). -
Lot 19 MATTONELLA
SIENA, LIBRERIA PICCOLOMINI, 1502
Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, giallo antimonio, rosso ferro, bruno di manganese.
Lato cm. 15,2, spessore cm 2.
TILE
SIENA, LIBRERIA PICCOLOMINI, 1502
Earthenware, painted in cobalt blue, antimony yellow, iron red, and manganese
Side 15.2 cm; depth 2 cm
La mattonella appartiene al celeberrimo pavimento della Biblioteca Piccolomini collocata all’interno della cattedrale di Siena. La libreria fu fatta costruire a partire dal 1492 dal cardinale Francesco Todeschini Piccolomini con intento di uso pratico: avrebbe dovuto contenere il cospicuo patrimonio librario del pontefice Pio II, Enea Silvio Piccolomini, con l’aggiunta di codici appartenuti al Todeschini e a suo fratello Giacomo, ma anche con chiaro significato simbolico celebrativo in onore della vita del papa umanista. L’opera, monumentale, fu completata dal bel ciclo di affreschi commissionato a Bernardino di Betto, detto il Pinturicchio, che tuttora la ornano, mentre il pavimento fu sostituito nell’Ottocento con ambrogette romboidali (1). Le mattonelle originali, di forma triangolare e dimensioni minori, sono in parte conservate nei Depositi del Museo dell’Opera, in parte disperse e presenti in vari musei.
Gli affreschi del Pinturicchio e della sua bottega furono probabilmente terminati nel 1508 e si era pensato che la realizzazione e la messa a dimora del pavimento andasse fatta risalire alla progettazione architettonica dell’edificio e pertanto al primo periodo di costruzione: 1495-1497 (2). Questa proposta cronologica è stata discussa e si ritiene ormai più corretto posticiparla di pochi anni (3). Gli autori della schedatura delle mattonelle conservate al British Museum di Londra, che costituiscono per noi un valido raffronto, fanno notare, circa la datazione, come nessuno dei pavimenti già realizzati a Siena e in altre sedi abbia questa forma o riporti una luna crescente di questa tipologia e come questa foggia compaia solo nel basamento della statua realizzata a Roma nel 1502 e poi collocata nella Biblioteca a Siena. Questa data costituisce pertanto un terminus ante quem per la datazione del pavimento (4).
1 Del 1839 è il rifacimento a cura della fabbrica Ginori (CANTELLI in ANSELMI ZONDANARI–TORRITI 2012, pp. 214-216; MOORE VALERI 2006).
2 RAVANELLI GUIDOTTI 1992, p. 11.
3 Si vedano in merito anche BILENCHI FUCECCHI 2006.
4 THORNTON-WILSON 2009, pp. 606-608 nn. 376-377, dove si rammenta la storia degli studi di questo prezioso pavimento e si elencano gli esemplari fino ad ora noti.
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Lot 20 ALBARELLO
DERUTA, 1510-1520
Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, verde rame, blu di cobalto, giallo, arancio.
Alt. cm 20,2, diam. bocca cm 10,2; diam. piede cm 9,9.
Sotto il piede traccia di etichetta e timbro dell’ufficio di esportazione della Sovrintendenza di Firenze.
Apothecary Jar (albarello)
Deruta, 1510–20
Earthenware, painted in antimony yellow, copper green, cobalt blue, yellow, and orange
H. 20.2 cm; mouth diam. 10.2 cm; foot diam. 9.9 cm
On the bottom, remains of a label and stamp of Florence Superintendency Exportation Office.
Il contenitore apotecario ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo arrotondato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana con orlo aggettante.
Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno dei vasi, che non sono rivestiti da smalto, ma solo da invetriatura. Lo smalto di colore panna–grigiastro mostra numerose cavillature e distacchi dovuti alla presenza del contenuto.
La decorazione, coerente con quella dell’esemplare che segue, mostra sul fronte una corona fogliata con bacche che circonda una riserva contenente la scritta apotecaria redatta in caratteri capitali di colore blu “ GRASSO.D.BECHO ”. Il cartiglio funge da cornice al decoro principale, che qui raffigura un ariete fermo su un prato, con uno sfondo giallo e che riempie, solo parzialmente, lo spazio riservato dalla corona fogliata a sua volta centrata dallo stemma della farmacia. Quest’ultimo, non identificato, mostra uno scudo semplice con tre mezzelune attorno a una palla tagliata in tre porzioni.
Il retro del vaso mostra un decoro a nastro sinuoso, delineato in verde, interrotto da due ornati a rombi che vanno a incorniciare la sigla A MA .
L’albarello, con l’esemplare che segue, deriva da una farmacia non individuata e mostra, per caratteristiche tecniche formali e stilistiche, affinità con i corredi farmaceutici attribuiti alle manifatture derutesi (1) o comunque della zona dell’Umbria e Alto Lazio dei primi decenni del secolo XVI.
Il confronto morfologico trova molti riscontri in ambito derutese: si veda ad esempio, e solo a livello morfologico, l’albarello con ritratto di donna recentemente presentato nella mostra sulla maiolica delle Marche (2) e databile al primo ventennio del XVI secolo.
Anche il confronto, sempre prettamente morfologico, con gli albarelli pubblicati nel catalogo della collezione Fanfani del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (3) ci conforta nell’attribuzione, pur nella consapevolezza dell’estrema diversità e originalità della decorazione dell’esemplare in esame e del vaso che lo accompagna.
Nonostante una certa rapidità nella stesura della decorazione, soprattutto delle figure centrali, e la ripetitività propria dei corredi farmaceutici, ci troviamo davanti ad un esempio decisamente inconsueto e sicuramente collegato a un corredo importante. Tuttavia, solo la corretta lettura dello stemma e della sigla potrebbe portare all’identificazione definitiva dell’opera in esame.
Il preparato indicato nel cartiglio fa forse riferimento all’ Hysopo , corruzione di oesypum humida , un preparato a base di lana sudicia ricca di lanolina, a indicare il grasso di lana usato in farmacopea per ammorbidire, per mitigare il dolore e per fortificare (4).
1 Già attribuiti ad area senese e durantina.
2 SANNIPOLI 2010, p. 80 n. 1.11.
3 RAVANELLI GUIDOTTI 1990, pp. 169-170 nn. 97-98.
4 MASINO 1988, p. 104.
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Lot 21 ALBARELLO
DERUTA, 1510-1520
Maiolica dipinta in policromia con giallo antimonio, verde rame, blu di cobalto, giallo, arancio.
Alt. cm 20; diam. bocca cm 10; diam. piede cm 9,7.
Sotto il piede etichetta con scritto a mano a inchiostro il numero 100 e timbro dell’ufficio di esportazione della Sovrintendenza di Firenze.
Apothecary Jar (albarello)
Deruta, 1510–20
Earthenware, painted in antimony yellow, copper green, cobalt blue, yellow, and orange
H. 20 cm; mouth diam. 10 cm; foot diam. 9.7 cm
On the bottom, label hand-written in ink ‘100’ and stamp of Florence Superintendency Exportation Office
Il contenitore apotecario ha un corpo cilindrico appena rastremato al centro, spalla pronunciata dal profilo arrotondato, bocca larga poggiante su un collo breve e cilindrico, orlo tagliato a stecca dal profilo aggettante. Il piede è basso, a base piana con orlo aggettante.
Il corpo ceramico color camoscio scuro è ben visibile all’interno del vaso, che non è rivestito da smalto ma solo da invetriatura.
La decorazione, coerente con quella dell’esemplare precedente (lotto 20), mostra sul fronte una corona fogliata con bacche che circonda una porzione a forma di medaglione contenente il cartiglio, redatto in caratteri capitali di colore blu, attorno alla figura di una fanciulla con un piccolo libro in mano. Il cartiglio recita “ INFRIGIDANS GALLIE ”.
Lo stemma della farmacia sovrasta il medaglione centrale: uno scudo semplice con tre mezzelune attorno ad una palla tagliata in tre porzioni.
Il retro mostra un decoro a nastro sinuoso delineato in verde e interrotto da due ornati a rombi che vanno a incorniciare la sigla A MA .
Per confronti e analisi tecnica si rimanda a quanto già detto nell’esemplare che precede salvo aggiungere un confronto stilistico per la figura umana che, pur mantenendo caratteristiche disegnative meno efficaci, ci sembra simile a quelle dipinte sull’importante serie di bottiglie farmaceutiche conservate al Museo del Louvre (1).
L’ Infrigidans Gallie fa probabilmente riferimento all’ infrigidans alleni , un unguento a base di altea campestre bianca, rosa, limone putrido, fiori di papaveri erratici e altro ancora con scopo antipiretico e antisudorifero.
1 GIACOMOTTI 1974, pp. 142-144 nn. 481-487.
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Lot 22 PIATTO
DERUTA, PRIMA META’ DEL SECOLO XVI
Maiolica dipinta in policromia con verde, rosso ferro, giallo antimonio, blu di cobalto.
Alt. cm 8; diam. cm 39,5; diam. piede cm 13,5.
Dish
Deruta, first half of 16th century
Earthenware, painted in green, iron red, antimony yellow, and cobalt blue
H. 8 cm; diam. 39.5 cm; foot diam. 13.5 cm
Il piatto ha forma concava liscia senza soluzione di continuità tra tesa e cavetto e sul retro poggia su un piede piano ad anello rilevato. È smaltato grossolanamente anche sul retro, dove l’interno del piede è lasciato grezzo.
Sul fronte mostra una scena evangelica con l’incredulità di San Tommaso. Il santo è raffigurato di profilo con la mano destra protesa a toccare il costato ferito nel punto indicato dallo stesso Cristo che, con la mano sinistra, gli tocca una spalla quasi per incoraggiarlo: è quella la prova della sua resurrezione in carne e in spirito. Intorno alle figure si snoda un lungo cartiglio che recita: “MITE MANUM TUAM IN LOCHO CHLAORUM ET CREDI DERUT ” (“ metti la tua mano nel luogo dei chiodi e credi. Deruta” ). La scritta, incorniciando la scena, ritaglia una riserva a sfondo blu, mentre il resto del piatto è campito da uno sfondo giallo. L’esergo è occupato da un pavimento a mattonelle triangolari bianche e arancio, mentre il bordo mostra un motivo a perline. Particolarmente interessante la parte finale del cartiglio con la parola “Derut”, che si riferisce molto probabilmente al luogo di produzione dell’opera.
Il soggetto ebbe indubbiamente successo presso le botteghe umbre e dell’Italia centrale come testimoniato dalla presenza di numerosi esemplari che lo riproducono con tecniche e scelte stilistiche differenti. La stessa scena è stata raffigurata su altri esemplari con cartigli differenti, come ad esempio quello conservato al Museo di Cluny (1). Un altro piatto è conservato al Victoria and Albert Museum (2) e raffigura la scena a decoro in blu e lustro dorato, databile per la decorazione della tesa al 1510 circa. Un terzo piatto, sempre di forma analoga e decoro in blu e lustro dorato, si trova nella collezione Di Ciccio a Capodimonte e mostra l’episodio racchiuso in una mandorla dorata con stile pittorico differente, più delicato, e con la tesa a foglie d’acanto, datato alla prima metà del secolo XVI (3). Un altro ancora, conservato al Museo di Deruta, con disegno in blu e lustro dorato (4) e con tesa suddivisa in comparti radiali è databile alla prima metà del XVI secolo.
Ricordiamo anche la presenza di altri esemplari: uno nella Scott -Taggart Collection (5), uno nella Von Beckerath (6), uno a Metropolitan Museum of Art di New York (7), e infine uno comparso sul mercato antiquario qualche anno fa (8). Prendendo poi in considerazione le collezioni private il numero potrebbe aumentare ulteriormente.
Il piatto in oggetto ha modalità stilistiche più rigide e corrive, il pavimento mostra una prospettiva poco sicura, ma si tratta di un tipo di scelta scenografica che vediamo presente in altre opere derutesi come ad esempio i piatti con San Girolamo dei musei francesi del Louvre e di Limonges (9). La scelta tecnica decorativa non prevede nel nostro esemplare l’uso del lustro bensì di una policromia varia, con sapiente uso del colore rosso ferro.
Infine la vicinanza stilistica con il piatto che raffigura un vescovo accompagnato dai santi Giacomo e Giovanni del Museo del Louvre (10), anch’esso dipinto in policromia e con una impostazione decorativa molto simile, viene datato al primo terzo del XVI secolo e presenta sul retro una B in blu scuro. -
Lot 23 PIATTO DA PARATA
DERUTA O ALTO LAZIO, PRIMA METà SECOLO XVI
Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto e lustro dorato su fondo maiolicato, e sul retro, vetrina spessa leggermente azzurrata con colature e difetti di cottura.
Alt. cm 7,8; diam. cm 42,5; diam. piede cm 14.
Sotto il piede cartellino “ ANTICHITÀ SCHUBERT, Corso Matteotti 22, Milano ” ed etichetta rotonda stampata in rosso “ Dott. Guido Rossi Milano” e numero dattiloscritto 651.
Large Dish
Deruta or Alto Lazio, first half of 16th century
Earthenware, covered on the back with a thick white tin glaze with a light-bluish tinge and painted in cobalt blue and golden lustre
H. 7.8 cm; diam. 42.5 cm; foot diam. 14 cm
Beneath the base, printed paper tag ‘ANTICHITÀ SCHUBERT, Corso Matteotti 22, Milano’; round label printed in red ‘Dott. Guido Rossi Milano’ and number ‘651’ typewritten
Il piatto ha la forma particolare delle produzioni derutesi e della zona dell’Umbria e Tuscia, mostra un cavetto profondo e largo, la tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca e appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello anch’esso appena rilevato e forato in origine, prima della cottura, per consentire l’esposizione dell’opera destinata a essere appesa.
Al centro della composizione La crocifissione di Cristo : ai piedi della croce è il trigramma bernardiniano IHS , del quale la croce è parte integrante in quanto costituisce la linea lunga della lettera “h”(1). Il trigramma è scritto con un motivo a nastro circondato da un paesaggio collinare realizzato con un tratto particolarmente leggero e molto raffinato. Attorno al trigramma alcuni fioretti riempiono gli spazi vuoti, mentre ai piedi della croce spicca un oggetto non ben identificabile(2). Sulla tesa si osserva il caratteristico ornato derutese a formelle con decoro a embricazioni alternate a un fiore dalla corolla allargata, generalmente associato alle opere databili al primo ventennio del XVI secolo.
Come negli esemplari di grande qualità il decoro è stato realizzato lasciando a risparmio il fondo maiolicato, distinto dalla parte a lustro grazie a linee di ossido di cobalto stese con maggiore o minore densità, così da creare un effetto di ombreggiatura che dà profondità. Particolarmente accurato il disegno del paesaggio, delineato a tratti sottili con ombreggiature ottenute con pennellate più o meno diluite, così come nella figura del Cristo raffigurato morto, a capo chino, in cui la muscolatura e i tratti fisiognomici sono realizzati con la medesima tecnica pittorica, governata con grande maestria.
La stessa immagine riprodotta su quest’opera si trova, con varianti ma con analoga impostazione decorativa, in piatti di foggia e mano differente, a testimonianza della presenza di una comune fonte incisoria di riferimento. Dallo studio di un piatto del Museo delle Arti Decorative di Lione (3), paragonabile all’opera in esame, le autrici della schedatura ci suggeriscono che la scena derivi da una incisione lombarda della fine del secolo XV(4).
Il piatto è stato pubblicato da Aurelio Minghetti(5) nel catalogo dei ceramisti come maiolica di Deruta: l’autore ne indica la provenienza dalla collezione di maioliche del Barone Archibald Buchan Hepburn(6) e quindi all’epoca nella collezione Bolognesi di Milano.
Il piatto è rientrato sul mercato antiquario in occasione di un’asta tenutasi a Milano nel 1997(7), per poi, probabilmente, entrare nella collezione Schubert, prima della definitiva collocazione nella attuale raccolta. -
Lot 24 PIATTO
DERUTA, 1500-1530
Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto e lustro dorato.
Alt. cm 9,4; diam. cm 42; diam. piede cm 13,9.
Dish
Deruta, 1500–30
Earthenware, painted in cobalt blue and golden lustre
H. 9.4 cm; diam. 42 cm; foot diam. 13.9 cm.
L’esemplare mostra la caratteristica forma dei piatti da pompa con un cavetto profondo e largo. La tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello anch’esso appena rilevato e forato in origine, prima della cottura, per consentirne l’esposizione. Il retro si presenta con un’invetriatura appesantita di bistro che ricopre l’intera superficie.
La foggia è quella tipica delle produzioni derutesi, che ha fatto la fortuna delle manifatture della città umbra. Questa forma era destinata ad accogliere i celeberrimi ritratti di belle donne, stemmi nobiliari o soggetti importanti come le immagini di santi ed eroi, dipinti con tecnica mista ottenuta in due cotture: la prima a gran fuoco con blu a due toni, la seconda in riduzione per l’ottenimento del lustro.
Al centro del cavetto una giovane donna è raffigurata di profilo a mezzo busto con un abito chiuso sul davanti da complessi alamari, il collo decorato da sottili catenine e da una collana di perle, e sul capo un diadema è arricchito da due ali e centrato da un mascherone. Alle sue spalle si scorge un tralcio fiorito. Di fronte al ritratto si svolge un cartiglio che reca la scritta a caratteri capitali: ”PER / DoMIRE/ NonSAQUI//SSTA” (“ a causa del dormire non si guadagna ”), un verso d’ispirazione amatoria. Il profilo, come di consueto, è fortemente sottolineato da pennellate blu scuro che si schiariscono progressivamente fino a scemare nel bianco di fondo, intorno al cartiglio, alla figura e al tralcio fiorito. Una sottile fascia con un motivo decorativo a corona fogliata separa il cavetto dalla tesa, ornata da un fitto motivo ad embricazione.
Com’è consuetudine in questa tipologia ceramica, la stessa immagine è ripetuta, in modo sostanzialmente simile, anche in altri piatti con analoga impostazione decorativa, direttamente ispirata dalle figure del Pinturicchio nell’appartamento Borgia in Vaticano o dalla Sibilla Eritrea raffigurata negli affreschi del Perugino nella Sala delle Udienze nel Collegio del Cambio a Perugia(1).
La raffigurazione di profilo con copricapo alato e veste decorata con alamari è piuttosto comune nelle produzioni derutesi dei primi decenni del Cinquecento. Si vedano ad esempio il piatto con il motto amoroso del Museo delle Arti Decorative di Lione(2) e quello del Museo Regionale della Ceramica(3), con decoro a policromia e tesa con tipico motivo a tralcio vegetale, cosiddetto a “corone di spine”. Il confronto più vicino ci deriva dal bel piatto, già della collezione Adda, oggi conservato nella Collezione Getty(4): la fanciulla è ritratta con modalità pittoriche e stilistiche veramente molto vicine a quelle del nostro esemplare, differenziandosi solo per il decoro della tesa, che alterna il motivo a embricazioni a quello con fiore. Altri confronti al museo di Ecouen(5) e al Louvre (6).
Questo gruppo di piatti è databile grazie al confronto con il piatto del British Museum dalla tesa decorata a ghirlanda recante lo stemma di Papa Giulio II, che colloca l’intera serie negli anni del pontificato, ovvero dal 1503 fino al 1513(7), e pertanto nel primo trentennio del XVI secolo.
Ci sembra di poter riconoscere l’opera come uno dei piatti della Collezione Murray venduti nel 1929 (fig. 1.) -
Lot 25 PIATTO DERUTA (?), INIZIO DEL SECOLO XVI Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, rosso ferraccia, giallo, arancio, verde rame in due toni, giallo antimonio, bistro e tocchi di manganese. Alt. cm 9,8; diam. cm 42; diam. piede cm 14,5. Sul retro etichetta di collezione dattiloscritta: “Plat rond raprésentant: Daphné cangée en laurier/dirigeant vers la gauche, une coupe chargée de feuilles posée/sur la tête . Dessin au trait bleu sur fond blanc. Au marii,/Faenza XVI siècle”.L’esemplare ha la forma caratteristica dei piatti da pompa con un cavetto largo e profondo, una tesa ampia che termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello, anch’esso appena rilevato, e forato prima della cottura per consentirne l’esposizione. La foggia è tipica delle produzioni derutesi, ma utilizzata anche da altre botteghe della zona umbro-laziale, ed è destinata ad accogliere i celeberrimi ritratti di belle donne, stemmi nobiliari o soggetti importanti. Anche in questo caso, come per gli altri esemplari presenti in questa selezione, il piatto è dipinto a policromia e mostra una scena istoriata. La giovane Dafne è raffigurata da sola mentre si sta tramutando in un albero di alloro: un cesto di foglie le ricopre il capo, quasi fosse un’erma decorativa, ma la trasformazione è più evidente nelle mani che si stanno mutando in rami fogliati, mentre l’espressione del volto è impassibile, quasi indifferente. Tutto intorno si estende un paesaggio roccioso dominato sullo sfondo, sulla cima di un colle, da una torre isolata e, più lontano, da una città fortificata che si specchia in un lago. La tesa mostra una ghirlanda d’infiorescenze, ognuna originata da gruppi di tre bacche gialle e terminante in un frutto verde puntinato di giallo, chiuso tra foglie blu arricciate. La policromia del decoro spicca sul fondo smaltato di bianco della tesa, in contrasto con la monocromia della scena centrale, vivacizzata appena dal colore di un serto di foglie che circonda la vita della protagonista. Il retro, coperto con una vetrina piombifera, mostra un rapido decoro costituito da tre larghe spirali dipinte con pennellate blu molto diluite. Il motivo decorativo della tesa è poco utilizzato: lo ritroviamo, con modalità stilistiche appena differenti, in un vasetto dalla foggia tipicamente derutese, conservato nella collezione Chigi Saracini di Siena (1), nel quale il decoro ha un andamento a girali fogliati con corolle e bacche realizzate in forma più aperta. Carmen Ravanelli Guidotti analizzando l’opera suggerisce una possibile diversificazione della scelta decorativa nei manufatti ceramici a seconda che si trattasse di esemplari da rifinire a lustro o semplicemente a policromia. Tuttavia, mentre le girali del piccolo vaso sono prossime a quelle comunemente visibili sulle tese dei piatti da pompa della città umbra di Deruta, nel nostro esemplare si sviluppano in una corona continua, molto serrata e con modalità stilistiche ben caratterizzate: di contro, l’insolita scelta cromatica è molto simile. Ancora più notevole è la comparazione con il piatto con Ercole e Anteo del Metropolitan Museum of Art, recentemente esposto in un’importante mostra fiorentina (2). Il confronto con il nostro mette in evidenza apprezzabili parentele: la modalità nel dipingere il cielo e le nuvole come piccoli monticelli in un campo riempito a linee parallele; l’uso di un tratto grafico sottile in monocromia blu; il contrasto coloristico così marcato tra tesa e cavetto; ed infine il paesaggio roccioso, di gusto gotico.
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Lot 26 PIATTO
DERUTA, SECONDA METÀ SECOLO XVI
Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, rosso ferraccia, giallo, arancio, verde rame in due toni, giallo antimonio, bistro e tocchi di manganese.
Alt. cm 8; diam. cm 38,2; diam. piede cm 13,3.
Sul retro tracce di etichetta con numero stampato .. 61..
Dish
Deruta, second half of 16 th century
Earthenware, painted in cobalt blue, iron red, yellow, orange, antimony yellow, two tones of copper green, bistro and touches of manganese
H. 8 cm; diam. 38.2 cm; foot diam. 13.3 cm
On the back, remains of printed label ‘61’
L’esemplare mostra la caratteristica forma dei piatti da pompa con un cavetto profondo e largo: la tesa è ampia e termina in un orlo rifinito a stecca appena rilevato. Il piatto poggia su un piede ad anello, anch’esso appena rilevato e forato in origine, prima della cottura, per consentirne l’esposizione. La foggia è quella tipica delle produzioni derutesi, destinata ad accogliere i celeberrimi ritratti di belle donne, stemmi nobiliari o soggetti importanti, come le immagini di santi e di eroi, in questo caso dipinti a policromia con tecnica a risparmio su fondo maiolicato bianco. Il retro è ricoperto da uno spesso strato di bistro con un sottile velo di vetrina.
Il decoro mostra un soldato, con elmo e armatura, seduto su una roccia erbosa mentre indica con la mano destra un punto in lontananza, e sostiene, con la sinistra, un’alabarda appoggiata alla spalla; una lunga spada pende al suo fianco. La scena è compresa in un paesaggio con quinte di alberi e rocce chiuso all’orizzonte da una città turrita, che compare dopo una serie di avvallamenti dal profilo arrotondato. Intorno, su rocce sparse, spiccano fioretti colorati dallo stelo sinuoso.
La tesa è decorata da un motivo a ghirlanda stilizzata con palmette e infiorescenze, che spicca su un fondo di colore giallo arancio molto carico.
Il piatto trova numerosi riscontri in molte raccolte: quelli conservati nel Museo Regionale della Ceramica di Deruta, coerenti per decorazione della tesa e per stile pittorico(1), ci spingerebbero ad avvicinare l’opera in esame all’ambito della bottega Mancini, attiva a Deruta alla metà circa del secolo(2).
Tuttavia il confronto con opere particolarmente vicine per impostazione decorativa della tesa, una con un cavaliere con cappello piumato che mostra un paesaggio stilisticamente coerente con il nostro, conservata al Museo Duca di Martina a Napoli(3); e un’altra decorata da un guerriero in armatura, raffigurato a mezzo busto(4), dimostra analogie stilistiche molto marcate, al punto che, se accostati ad altri esempi, si è portati a pensare all’esistenza di una bottega produttiva coerente. La datazione proposta da Luciana Arbace per l’opera del museo napoletano, unitamente allo stile decorativo, ci incoraggia a pensare a una ripetizione, ormai tradizionale, di motivi più antichi, spostando la datazione di qualche decennio, fino alla seconda metà del secolo.
Il confronto infine con un piatto conservato al Museo di arti decorative di Lione(5) nel quale compare una figura di giovane con un violino ci porta a ritenere l’opera in esame più coerente con le produzioni più tarde della bottega che, pur mantenendosi ad alto livello, tendono a ripetere i decoro del maestro in modo più seriale. La datazione proposta da Carola Fiocco e Gabriella Gherardi per questo esemplare si basa sull’affinità del decoro della tesa con un piatto del Museo di Amburgo(6) nel quale compare lo stemma del papa Giulio III il cui pontificato si svolse dal 1550 al 1555. -
Lot 27 TONDINO STEMMATO
FAENZA, 1525-30 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo chiaro, turchino, verde, rosso e lumeggiature bianche su fondo azzurro-grigio “berettino”.
Alt. cm 5; diam. cm 24; diam. piede cm 7.
Sul retro, sotto il piede, è delineato un rombo intersecato da una croce.
Armorial Plate (tondino)
Faenza, c. 1525–30
Earthenware, covered with a ‘berettino’ glaze and painted in light yellow, turquoise, green, red, and white highlights
H. 5 cm; diam. 24 cm; foot diam. 7 cm
On the back, beneath the base, a mark with a diamond intersected by a cross.
Il piatto, o tondino, ha un profondo cavetto e una larga tesa appena obliqua, è integralmente ricoperto da smalto “berettino” spesso di colore azzurro intenso e poggia su un piede ad anello appena accennato. Il decoro mostra uno stemma, al centro del cavetto, racchiuso in un medaglione che è a sua volta incorniciato da una fascia decorata in bianco su fondo azzurrato. Lo stemma è dipinto in piena policromia con fondo giallo e branca d’orso che stringe una zampa di capriolo, attorniato da tre stelle rosse. Sopra lo stemma, racchiuso in cartiglio, un amorino e intorno tra sottili nastri sinuosi le lettere in caratteri capitali “ P.G. ”.
Sulla tesa si estende una decorazione “a groppi“, associata a un motivo “a rabesche” in bianco su azzurro. Sul verso , all’interno del piede, si registra la presenza di un rombo con croce sovrapposta; tutt’intorno sul retro della tesa si osserva un motivo “alla porcellana”.
Un decoro molto simile è riportato su una mattonella da pavimento della Collezione Cora al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza databile attorno al 1530 circa (1).
Al momento non è stato possibile rintracciare la famiglia committente, ma la qualità dell’opera in esame ci fa supporre che si trattasse di un casato importante (2).
Il raffinatissimo decoro della tesa s’inserisce nella tipologia delle “vaghezze e gentilezze”, secondo una definizione registrata nei documenti faentini sulle esportazioni del 1528 (3): tale definizione comprende opere cronologicamente vicine alla produzione a grottesche.
L’ornato del nostro piatto mostra un evidente padronanza della tecnica e della sintassi decorativa, sviluppata su un fondo berettino chiaramente recepito. Il decoro, che comprende la ghirlanda fogliata, groppi, rabesche e molti dei motivi ornamentali più raffinati, può essere probabilmente comparato ad altri esemplari ben riusciti, fra tutti il grande piatto pubblicato come esempio da Carmen Ravanelli Guidotti (4). La scelta della decorazione della tesa e lo stile dello stemma ci portano poi al confronto con un piatto conservato nelle collezioni del Victoria and Albert Museum di Londra, di dimensioni e decorazione più importanti, databile probabilmente al 1530 (5): l’ornato principale che accomuna i piatti è quello a groppi, ma il nostro è realizzato con un ductus estremamente raffinato, tanto da far pensare ad una maggiore vicinanza ai piatti a grottesche e, soprattutto, che sia ancora legato alla decorazione bianco su bianco, qui declinata su un fondo berettino chiaro e associata a un blu cobalto distribuito con sapienza, a definire il decoro e a creare idonee ombreggiature con pennellate più o meno diluite. -
Lot 28 COPPIA DI ALBARELLI
FAENZA, 1530-1550 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno. Smaltati all'interno.
a) Saladino : alt. cm 32; diam. cm 11,7; diam. piede cm 11;
b) Soldato romano : alt. cm 31,2; diam. cm 11,7; diam. piede cm 11,4.
Sul fronte iscrizioni in catrtiglio: a) Rcqfo :minor ; b) S. Cufcute; e sul retro - a2) R;qfo: minor , b2) S. Cufcute . Tutte con leggera variazione nelle grafia gotica.
A pair of Apothecary Jars (albarelli)
Faenza, c. 1530–50
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white; glazed inside
a) Saladino : H. 32 cm; diam. 11.7 cm; foot diam. 11 cm
b) Roman Soldier : H. 31.2 cm; diam. 11.7 cm; foot diam. 11.4 cm
On the front, inscriptions in a cartouche with slight variations of Gothic script: a) Rcqfo :minor ; b) S. Cufcute – a2) R;qfo: minor ; b2) S. Cufcute
La forma ripropone la morfologia classica degli albarelli faentini con bocca larga appena estroflessa e collo breve con marcata rastrematura che si ripropone anche nella parte inferiore, il corpo ha forma leggermente troncoconica, con spalla e calice dal profilo angolato.
Lo smalto abbondante presenta microcavillature, ossidi ferrosi e tracce di bruciato sotto il piede, con applicazione d’ingobbiatura a crudo per coprire il difetto.
Il decoro, realizzato in due varianti di colore per dare la possibilità di mutare l’aspetto dell’intero scaffale apotecario, prevede l’estensione a tutta la superficie dei vasi con una vivace policromia nei toni del blu e dell’arancio.
La spalla e il piede sono decorati con un motivo a piccoli frutti tondeggianti su un ramo sinuoso, delineati in giallo e giallo arancio su fondo verde intenso. Il corpo dei vasi mostra invece un decoro “bifronte” “a grottesche” con teste di amorini, mascheroni, racemi accartocciati e delfini, presenti simmetricamente sui due lati del contenitore con uno sfondo blu su un lato, e giallo arancio sull’altro. Il decoro è centrato da un medaglione contenete un busto maschile con turbante e scritta in caratteri capitali SALADINO nel primo albarello, mentre sull’altro il medaglione, di analoga proporzione, è decorato da un cagnolino in corsa. Sotto il medaglione corre poi un cartiglio con la scritta apotecaria in caratteri gotici Rcqfo:minor(um). Nell’altro albarello si ripropone il medesimo decoro, con un busto di soldato romano a variare il protagonista del medaglione; il cartiglio presenta la scritta S. Cufcute sempre in caratteri gotici.
Per ductus e scelta pittorica i vasi potrebbero essere opera di due mani differenti come si desume dallo stile dissimile nella resa dei dettagli disegnativi e nella loro effettiva realizzazione: più calligrafici e sicuri nell'albarello con Saladino, più diluiti e meno incisivi in quello con ritratto di soldato romano. Ciononostante si pensa a un periodo di produzione coeva e alla destinazione per la medesima farmacia.
Per confronti si veda l’albarello con profili di Rodamote e Carlo della Wallace Collection di Londra (1): di dimensioni minori, si distingue per il decoro su fondo berettino, ma rimane affine per morfologia e per stile decorativo. I serafini e le foglie di quercia accartocciate sono delineati con cura e mostrano affinità con le opere in esame.
Altri esemplari di confronto sono conservati nei principali musei italiani e stranieri, tra cui quelli indicati nella scheda di pubblicazione dei nostri albarelli in uno studio sui vasi da farmacia rinascimentali di qualche anno fa (2). -
Lot 29 COPPA
FAENZA, BALDASSARE MANARA, 1539
Maiolica, dipinta in policromia con arancio, giallo antimonio, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 5,8, diam. bocca cm 25, diam. piede cm 10,5.
Sul retro la data “1539” entro cartiglio in color ocra .
SHALLOW BOWL
Faenza, Baldassarre Manara, 1539
Earthenware, painted in orange, antimony yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white
H. 5.8 cm; mouth diam. 25 cm; foot diam. 10.5 cm
On the back, the date (‘1539’) in an ochre cartouche
La coppa presenta un cavetto concavo e tesa alta terminante in un orlo sottile arrotondato; poggia su un piede basso e privo di anello.
La rappresentazione si adatta alla forma del manufatto, assecondandone le curve e le convessità e raffigura un soggetto mitologico ambientato in un paesaggio racchiuso da alberi e quinte di montagne sullo sfondo. Una città turrita si confonde nel paesaggio tra montagne, prati ondeggianti e fiumi. I due protagonisti della scena, Marte e Venere, si affrontano al centro del piatto: Marte appoggiato a un albero, ai cui piedi si scorge Cupido intento a guardare la madre, ritta sulla destra del piatto con la mano alzata ad indicare il cielo dove un amorino appare reggendo nelle mani un arco, probabilmente destinato a Cupido, già armato di faretra. Poco distante due personaggi, intenti a dialogare, sembrano avvicinarsi alla radura in cui si svolge la vicenda.
Lo smalto è steso con abbondanza, i pigmenti trattati con estrema perizia, anche se sul retro sono presenti qualche difetto di cottura e qualche colatura all’orlo.
Il verso è dipinto interamente in ocra con motivo a embricazioni, al centro un cartiglio a fondo bruno marrone con scritta giallo antimonio “1539”, intorno al quale risaltano due rami di ulivo.
Si tratta a nostro avviso di un episodio dell’amore tra Marte e Venere di cui ci narra Ovidio nelle Metamorfosi (1) . Carmen Ravanelli Guidotti, che ha pubblicato l’opera qualche anno fa, pensava invece a Vulcano e Venere, ma a conferma della nostra ipotesi ci sembra di ritrovare una concreta somiglianza del personaggio raffigurato nel nostro piatto con il Marte di una incisione di Giulio Bonasone, con la sola variante del braccio alzato con la spada che pare comunque un attributo più idoneo al dio della Guerra.
La coppa in esame, pur in assenza di firma, si avvicina molto all’opera del maestro faentino, al punto che è stata inserita da Carmen Ravanelli Guidotti nella monografia su Baldassarre Manara (2) . La studiosa conferma l’attribuzione dell’opera al pittore faentino con la prudenza dovuta alla mancanza di verifica autoptica sul pezzo, noto solo per le numerose pubblicazioni (3) . Di grande interesse, oltre alla ricostruzione della storia collezionistica del pezzo, è il paragone che la studiosa introduce con le opere del “Pittore di Argo”, attivo in questo arco cronologico in area marchigiana, non escludendo un’influenza di questo tipo di pittura sul grande artefice faentino ormai giunto alla maturità artistica.
La presenza della data colloca la coppa tra le opere mature di Baldassarre Manara, quando, ormai affermato, tende a firmare o a datare i propri lavori.
Le notizie biografiche su questo celebre pittore sono scarse, ma la sua attività si colloca nella prima metà del XVI secolo. Sappiamo che proveniva da una famiglia di vasari, nota nella città di Faenza. Le attestazioni archivistiche sono scarse e abbiamo notizie dal 1529 fino al 1546-1547, anno supposto della morte (4). -
Lot 30 CRESPINA
FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI
Maiolica dipinta in policromia con giallo, giallo arancio, blu di cobalto, verde rame, bruno di manganese.
Alt. cm 5,8; diam. cm 24,8; diam. piede cm 9,5.
MOULDED BOWL (CRESPINA)
Faenza, third quarter of 16th century
Earthenware, covered with a crackled white glaze with a light-bluish tinge and painted in yellow, orange-yellow, cobalt blue, copper green, and manganese
H. 5.8 cm; diam. 24.8 cm; foot diam. 9.5 cm
Coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata a conchiglia e orlo sagomato. La coppa poggia su alto piede, tagliato all’altezza dell’orlo, che risulta pertanto dritto e non aggettante. La forma, altresì nota come “crespina” dall’andamento ondulato dell’orlo, è decorata a policromia sulla tesa con motivo “a quartieri” con settori di forma romboidale, alternati a piccoli petali, disposti simmetricamente attorno all’umbone centrale, che mostra entro una cornice poligonale un amorino in un paesaggio montuoso.
Entro le riserve sono dipinti tralci fogliati, foglie stilizzate e delfini su fondo arancio, verde e blu. Sul retro un motivo a corolla nei colori blu e giallo arancio si dispone simmetricamente a ornare le pareti della coppa.
Si tratta di una crespina “a quartieri”, tipica della produzione faentina, che ebbe grande successo intorno alla metà del Cinquecento. I caposaldi cronologici di questa produzione ci derivano da esemplari datati, e sono stati ampiamente studiati da Carmen Ravanelli Guidotti nel Thesaurus (1) della maiolica di Faenza: si tratta di esemplari che vanno dal 1538 (2) fino al 1547 (3). Questa tipologia decorativa perdura parallelamente all’insorgere della moda dei “ bianchi” ed è rappresentata insieme con le coppe compendiarie nelle principali botteghe e almeno fino al 1575 nella bottega Utili (4).
Numerosi sono gli esemplari di confronto: simile per impostazione la coppa della collezione del Banco di Sicilia (5), che sottolinea la tematica amatoria del decoro con la scritta “ non la lassa ”, che sottintende la frase “ Amor non la lascia ”, ma anche la coppa del Museo del Louvre con un amorino in corsa (6) o quella del Museo di Sévres con variante di forma e disposizione del decoro (7). Un’altra crespina con un putto inserito in un paesaggio “già di gusto compendiario” è conservata al Victoria and Albert Museum (8) e, se accostata alla nostra, mostra una disposizione della cromia invertita con predominanza di arancio rispetto alla maggiore concentrazione di blu di cobalto nei “ quartieri” del nostro esemplare.
Ci pare infine di ravvisare una particolare vicinanza stilistica nella crespina con putto nell’umbonatura centrale del Museo Civico di Pesaro, già pubblicata come esempio del genere “a quartieri” nel volume sulla maiolica in Italia di Giovanni Conti (9).
1-RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 378 n. 94.
2-Crespine del Museo Correr di Venezia.
3- La crespina del Museo Civico di Pesaro (MANCINI 1979, n. 198).
4- RAVANELLI GUIDOTTI 1998, pp. 379-380 n. 95.
5-RAVANELLI GUIDOTTI in AUSENDA 2010, p. 126 n. 47.
6-GIACOMOTTI 1974, n. 952.
7-GIACOMOTTI 1974, n. 954.
8-RACKHAM 1977, inv. 1807-1855.
9-CONTI 1973, n. 190.
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Lot 31 CRESPINA
FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI
Maiolica dipinta in bicromia con azzurro e giallo su smalto bianco in un ricco e spesso strato.
Alt. cm 7,6; diam. cm 31; diam. piede cm 14
Sul retro iscrizione “ VR AF ” sormontata da omega, delineata in blu
MOULDED BOWL (CRESPINA)
Faenza, third quarter of 16th century
Earthenware, covered with a thick white tin glaze and painted in light blue and yellow
H. 7.6 cm; diam. 31 cm; foot diam. 14 cm.
On the back, inscription in blue ‘VR AF’ surmounted by omega.
La coppa ha un umbone centrale rilevato, tesa baccellata a mascheroni e orlo sagomato. Poggia su alto piede appena aggettante. La forma a “crespina” è simile a quella dell’esemplare che segue (lotto 32) dal quale si distingue per la sagomatura, modellata con mascheroni, poco leggibili per l’alto spessore dello smalto, al posto delle conchiglie.
Il decoro, realizzato secondo i dettami dello stile compendiario, utilizza pochi colori standardizzati: blu, giallo e giallo arancio su uno spesso smalto bianco e lucente, volutamente scelto come colore che maggiormente richiama l’argento. Questo deriva proprio dal progetto produttivo del periodo, che trae a stampo le forme mutuandole direttamente dai modelli metallici; idea che perdurerà per tutto il secolo.
L’opera mostra al centro dell’umbone uno stemma con leone rampante delineato in giallo arancio su fondo giallo antimonio più chiaro. Sulla tesa, a completamento dell’ornato, corre una ghirlanda di fioretti a campanula dalla foggia arrotondata e foglie, collegati fra loro da una girale sottile dipinta in blu. I pigmenti sono applicati in abbondanza fino a ottenere quasi un effetto di rilievo nelle parti in giallo ferraccia utilizzato per simulare il rosso.
Le cavillature sottilissime presenti nello smalto ne denunciano lo spessore volutamente abbondante, indice di un prodotto particolarmente ricercato, come confermato dall’apposizione sul retro, sotto il piede, della sigla “ VR AF” sormontata da omega. È questa la sigla attribuita alla bottega di Virgiliotto Calamelli che sappiamo attiva dal 1531 al 1579, per circa nove anni dopo la morte del maestro.
Interessante al fine della comprensione di questa tipologia di opere l’elenco della produzione della bottega, Descriptio , in data 1556, dal quale si evince come la tipologia compendiaria fosse molto rappresentata nella produzione della bottega e ci dia “la misura della solidità e dell’ampiezza della bottega Calamelli”. Il repertorio della bottega Calamelli è molto diversificato e comprende busti all’antica, amorini, figure di guerriero, ma anche raffigurazioni istoriate, più o meno complesse fino all’istoriato policromo vero e proprio.
La raffigurazione degli stemmi nobiliari s’inserisce appieno in questo repertorio e alcuni esemplari con questo tipo di decoro sono stati pubblicati nel volume monografico sui Bianchi di Faenza di Carmen Ravanelli Guidotti: ad esempio la crespina, di foggia più semplice, con stemma del vescovo Annibale Grassi, e quella con uno stemma non identificato, sormontato da cherubino.
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Lot 32 COPPA O CRESPINA
FAENZA, TERZO QUARTO DEL SECOLO XVI
Maiolica con impasto giallo camoscio rosato, dipinta in bicromia con azzurro e giallo su smalto bianco.
Alt. cm 7,5, diam. cm 29, diam. piede cm 15.
Sotto il piede n. 299 dipinto in rosso.
MOULDED BOWL (CRESPINA)
Faenza, third quarter of 16th century
Earthenware, covered with a white tin glaze and painted in light blue and yellow
H. 7.5 cm; diam. 29 cm; foot diam. 15 cm
Beneath the base, number ‘299’ hand-written in red
Coppa con umbone centrale rilevato, tesa baccellata a conchiglie e orlo sagomato. La coppa poggia su alto piede appena aggettante. La forma a “crespina” ricorda quella dell’esemplare precedente (lotto 31) da cui si distingue per la maggior leggibilità dello stampo attraverso lo smalto bianco spesso, ricco e lucente, che vede affiancati alle conchiglie dei bei mascheroni a rilievo distribuiti lungo l’orlo.
In comune con il lotto precedente anche il decoro con i colori tipici del cosiddetto “periodo compendiario”, che ha determinato gran fama per le botteghe della città romagnola.
L’opera mostra al centro dell’umbone una figura femminile che avanza sostenendo una colonna e sullo sfondo un paesaggio montano di grande impatto. La figura è attorniata da una decorazione a mazzi di foglie sparsi disordinatamente sulla tesa salvo alcuni ciuffi fogliati, di colore azzurro collocati in quattro punti simmetrici.
Si tratta della rappresentazione della Forza, secondo la raffigurazione cristiana, che la vede come una virtù vincitrice sull’istinto brutale e sulle false divinità. La sua personificazione è una donna recante una colonna, di solito spezzata, per collegamento con la vicenda di Sansone (1), distruttore del tempio.
Un primo confronto ci viene fornito da una coppa della bottega Enea Utili (2), nella quale si scorge una figurina maschile che avanza con passo svelto. L’opera, diversa per stile pittorico, ci fornisce un’idea della sintassi decorativa in uso nella bottega faentina, con ciuffi di fiori sparsi sulla tesa. Assai simile invece il decoro secondario che leggiamo sui vasi da farmacia, raggruppati da Carmen Ravanelli Guidotti attorno ai due albarelli del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (3) ancora non ascritti a una bottega certa e databili alla fine del secolo. Non riscontriamo invece alcuna somiglianza stilistica nelle figure principali, che mostrano uno stile molto caratterizzato, in contrasto con la nostra figurina che è invece tradizionale e delicata, nonostante la forza decorativa del paesaggio di sfondo.
L’impostazione del decoro, le modalità stilistiche, la grande qualità tecnica sia dello stampo che dello smalto, e la ricercatezza nell’impostazione del decoro ci confermano, comunque, la provenienza di quest’opera da una bottega faentina della seconda metà del XVI.
1- GIUDICI, 16, 29
2- RAVANELLI GUIDOTTI 1996, p. 244 n. 56.
3-RAVANELLI GUIDOTTI 1996, pp. 368-371 n. 94, n. 56, ora conservata alla Pinacoteca di Varallo Sesia (ANVERSA 2004, p. 102 n. 42).
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Lot 33 COPPA
CASTELDURANTE , 1535
Maiolica, dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 5,5 , diam. cm 23, diam. piede cm 12 .
Sul fronte entro cartiglio in caratteri capitali “ Battista ”.
SHALLOW BOWL
CASTEL DURANTE, 1535
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white
H. 5.5 cm; diam. 23 cm; foot diam. 12 cm
On the front, in a cartouche, inscription in capital letters ‘BATTISTA’.
La coppa ha cavetto concavo con tesa alta terminante in un orlo sottile arrotondato e larga tesa appena inclinata. Poggia su un piede alto dall’orlo appena estroflesso.
Il ritratto nel piatto è realizzato di fronte: la giovane donna indossa una camicetta plissettata chiusa al collo da un gallone ricamato, e s’intravede appena un bustino giallo ocra chiuso sul seno da un laccio. Lo sguardo è rivolto verso il basso e la piccola bocca è chiusa. I capelli, raccolti sulla nuca, sono trattenuti da un nastro arancio dal quale scendono alcuni sottili nastri che cadono a lato del volto.
Dietro il ritratto appare un cartiglio che si srotola sinuosamente e che reca la scritta BATISTA .
Anche questa coppa, come quella che segue (lotto 34), appartiene alla tipologia delle “belle” e condivide con essa anche il confronto tipologico stilistico con la coppa del Museo di Lione (1). La grande perizia tecnica nella stesura dei colori è ben esemplificata nel modo di realizzare i nastri che scendono dal capo: sono assai sottili e realizzati a risparmio rispetto al blu dello sfondo, che è steso con pennellate parallele molto fitte e continue. La perizia dell'autore ben si evince anche dalla stesura di sottili tocchi di bianco di stagno , a dare luce ai tratti del volto.
Il confronto più prossimo alla nostra coppa ci deriva da un esemplare morfologicamente affine, oggi conservato al Victoria and Albert Museum (2) , nel quale il ritratto femminile, raffigurato di fronte, è decorato a lustro metallico in un tono giallo oro: la coppa è attribuita a Casteldurante, inserita tra le opere lustrate a Gubbio (3) in un ambito cronologico compreso tra il 1535 e il 1540, e reca alle spalle della “bella” la scritta “ amaro chi me amara ”. Lo stile delle due figure è, a nostro avviso, sovrapponibile, salvo alcuni particolari nella scelta della raffigurazione, di fronte e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, e l’applicazione del lustro che, oltre a lumeggiare il ritratto, si estende nella scritta e decora lo sfondo blu con stelle. Coincide anche la rappresentazione della veste e del sottile nastro, che scende dalla larga fascia che ferma l’acconciatura, e la forma dell’orecchio.
La coppa è stata esposta alla mostra culturale “Belle, bellissime su maiolica” tenutasi a Verona parallelamente alla V Biennale antiquaria Tesori dal tempo nella primavera del 2001 (4).
1-GHERARDI-FIOCCO 2001, p. 207 n. 141.
2-RACKAHAM 1977, p. 237 n. 716 (Inv. 8886-1863).
3-Una più recente ipotesi suggerisce che fossero i lustratori eugubini a spostarsi nel ducato per lustrare le opere e non il contrario (FIOCCO-GHERARDI 2007).
4- “Ceramica Antica” XI, n. 4, 2001, p. 6.
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Lot 34 COPPA
CASTELDURANTE O URBINO E DUCATO, 1540 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 6, diam. cm 22 , diam. piede cm 10,5 .
Sul fronte entro cartiglio in caratteri capitali LUCIA. BE[LLA] .
SHALLOW BOWL
CASTEL DURANTE OR URBINO OR URBINO DISTRICT, C.1540
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white
H. 6 cm; diam. 22 cm; foot diam. 10.5 cm
On the front, in a cartouche, inscription in capital letters ‘LUCIA. BE[LLA]’
La coppa presenta corpo concavo con tesa alta terminante in un orlo sottile arrotondato e poggia su un piede basso.
Sul fronte un bel ritratto femminile di faccia, alle spalle del quale si snoda un cartiglio che reca la scritta LUCIA. BE[LLA] , a indicare il nome della protagonista. La giovane donna è dipinta con il volto verso lo spettatore, il busto è compresso nel piatto e indossa un peplo all’antica, drappeggiato e fermato sulle spalle, appena visibili attraverso i panneggi, da due fermagli rotondi di color verde. Lo sguardo è rivolto a sinistra, la bocca chiusa e atteggiata a un sorriso un poco trattenuto; attraverso la folta capigliatura di colore fulvo, raccolta in una morbida acconciatura sul capo, si scorge un orecchio.
La coppa appartiene alla tipologia delle “belle” , utilizzate com’è noto per celebrare le future spose da parte del promesso , o come dono di fidanzamento.
Questa coppa trova numerosi confronti in collezioni private e pubbliche: fra queste indichiamo quella con figura femminile del Victoria and Albert Museum (1), il bel ritratto di “Girolama” in una coppa conservata al Museo del Louvre , anche se forse più leggero nel tratto , soprattutto nel modo di trattare la capigliatura, rispetto alla coppa in esame, e anche la coppa con ritratto di “Bartolomea” del Metropolitan Museum of Art di New York , databile attorno agli anni 1525-1530 , che condivide con il nostro esemplare la resa dello sguardo e alcune particolarità tecniche (2) .
Particolarmente vicino per il modo di trattare l’incarnato con tecnica di velature di bianco su bianco, bistro e tocchi di arancio, per la resa degli occhi con l’interno sottolineato da una zona rosata e le ombreggiature sottilissime in bianco, ma anche per i capelli raccolti sulla nuca e altro ancora , è il frammento di coppa conservato al Bargello a Firenze e datato 1546 (3) .
Non lontano dal nostro ritratto è quello di “Dianora bella” del Museo di Lione (4) , simile per la medesima impostazione del ritratto che interessa l’intera coppa , per la sapiente capacità tecnica nella resa dell’incarnato, per il modo di sottolineare il naso solo nella parte terminale lasciando al gioco cromatico il compito di delinearne la forma e infine per il medesimo modo di far cadere alcuni ciuffi arricciati delineati con un sol tocco di pennello .
Anche alla luce di questi confronti ci sembra pertanto corretto inserire quest’opera nella produzione durantina della metà circa del secolo XVI.
La coppa è stata esposta alla Mostra culturale “ Belle, bellissime su maiolica ” che si tenne a Verona parallelamente alla V Biennale antiquaria Tesori dal tempo nella primavera del 2001 (5)
1-RACKHAM 1977, p. 186 n. 554 (Inv. 8930-1863), per il quale viene indicata una produzione durantina e una datazione attorno al 1530 circa
2- Lehamann Collection, inv. 1975.1.1103.
3- CONTI 1971, n. 466.
4- GHERARDI-FIOCCO 2001, p. 207 n. 141.
5-“Ceramica Antica” XI, n. 4, 2001, p. 6.
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Lot 35 MATTONELLA DA PAVIMENTO DELLO STUDIOLO DI ISABELLA D’ESTE, PESARO BOTTEGA DI ANTONIO FEDELI (1493-1494)
Terracotta smaltata sul fronte e decorata in manganese nei toni del nero e del bruno violaceo, giallo ocra e blu di cobalto.
Cm 23,5x23,5x4,5.
FLOOR TILE FROM THE STUDIOLO OF ISABELLA D’ESTE
Pesaro, workshop of Antonio Fedeli, 1493–94
Earthenware, glazed on the front and painted in blackish manganese, manganese purple, ochre yellow, and cobalt blue
23.5 x 23.5 x 4.5
La mattonella ha forma quadrata e buono spessore, il fronte è smaltato e decorato. Al verso è presente un profondo solco a forma di cerchio, espediente, questo, utilizzato per far asciugare prima la mattonella, per alleggerirla nel trasporto e per assicurarne un miglior ancoraggio al momento della posa.
La decorazione mostra un sole i cui raggi s’intrecciano a un cartiglio svolazzante che reca la scritta in blu di cobalto “ PER UND/IXIR ” in caratteri capitali: la profondità delle pieghe del cartiglio è ben realizzata grazie a sottili righe di ombreggiatura.
Il sole è dipinto in bruno di manganese, con un volto antropomorfo che s’intravede tra le larghe pennellate di manganese, che danno spessore alla sfericità dell’astro. Anche i raggi hanno uno spessore tridimensionale, sono a forma di cono e dipinti in giallo ocra e bruno di cobalto; intorno il calore irradiato è realizzato con elementi sinuosi. Lo smalto è povero e friabile, color crema, e mostra difetti di cottura, bolliture e puntinature.
La mattonella appartiene a una serie assai celebre, oggi custodita tra i principali musei del mondo (1), coerente per materia, dimensioni e decoro. Le mattonelle, di grande qualità artistica, appartenevano al pavimento che Giovanni Sforza fece realizzare per il cognato Francesco II Gonzaga e per la moglie Isabella d’Este per un camerino della Villa di Marmirolo (2). Dai documenti d’archivio sappiamo che Giovanni Sforza, Signore di Pesaro, aveva ordinato una grande quantità di mattonelle “quadrelle” secondo i desideri della cognata, che aveva precedentemente inviato il disegno del progetto decorativo (3). Le “quadrelle” arrivarono da Pesaro il 1° giugno e il 9 luglio del 1493 erano già in posa, come si evince da una lettera di Isabella d’Este, che ringrazia entusiasta il cognato.
Il pavimento reca le imprese dei Gonzaga e costituisce, anche grazie al corredo documentario che le accompagnano, un elemento cardine per gli studi sulla cultura del periodo.
La mattonella in oggetto riporta il motto “ PER UN DIXIR ”, motto di Ludovico II, e anche le altre mattonelle delle serie raccontano la storia dei Gonzaga attraverso le loro imprese: i leoncini di Boemia alludono al titolo conquistato dal Marchese Gianfrancesco nel 1433; la tortora sul nido e il motto “ VRAI AMOUR NE SE CHANGE ”, unitamente alla mattonella con il sole, si riferiscono al Marchese Ludovico; la cerva con il motto “ BEDERCRAFT ” si riferisce a Francesco I (1382-1407); lo scoglio con il diamante e il motto “ AMUMOK ” è stato interpretato come omaggio a Francesco I. E infine le imprese più antiche: il cane vigilante, la museruola con il motto “ CAUTIUS ”, la manopola con “ buena fè non es mudable ” in diverse versioni.
Lo studiolo di Isabella fu uno dei luoghi più preziosi del Rinascimento, ricco di opere artistiche realizzate dai più valenti autori del periodo. -
Lot 36 Tondino
Ducato di Urbino, 1525-1530
Maiolica dipinta in policromia nei toni del giallo, blu, verde, bianco.
Alt. cm 2,6; diam. cm 21,6; diam. piede cm 5,8.
Sul retro una piccola etichetta con la scritta in corsivo “2.3.36 This is property of Mrs Jean Douglas ER” , un’etichetta scritta in inchiostro “ 5892 ” e un’altra etichetta con n. 48 a stampa.
Armorial Plate (tondino)
Faenza or Urbino district, 1525–30
Earthenware, covered with a thick and vitreous glaze and painted in yellow, blue, green, and white
H. 2.6 cm; diam. 21.6 cm; foot diam. 5.8 cm
On the back, small label hand-written ‘2.3.36 This is property of Mrs Jean Douglas ER’; label hand-written in ink ‘5892’; printed label ‘48’
Il piatto, poggiante su piede ad anello appena accennato, mostra un cavetto profondo e separato dalla tesa da una sottile linea blu che ne delimita lo stacco. Esso è occupato da uno stemma con cinque monti sormontati da tre fiori di papavero sfioriti in campo giallo, che galleggia in un paesaggio di sfondo con una base verdeggiante all’esergo e alcuni monti appuntiti all’orizzonte, il cielo reso da sottili linee in azzurro diluito, mentre intorno allo stemma svolazza un nastro piatto con andamento sinuoso. Lo stemma non è stato identificato.
La tesa è interamente occupata da un motivo “alla porcellana”, centrato nei punti cardinali da quattro cartigli intervallati da un motivo tondeggiante che ricorda un melograno: la decorazione è qui realizzata in monocromia blu di cobalto, che spicca sullo smalto bianco latte, spesso e vetroso. L’orlo è delimitato da due linee concentriche anch’esse blu. Il retro invece non presenta decorazioni.
Il piatto proviene dalla collezione Murray (1), dove era classificato e collocato tra le opere di Faenza e datato all’incirca al 1525 (fig 1). Nella stessa collezione si nota la presenza di altri piatti stemmati, attribuiti a differenti manifatture, ma alcune di queste opere, per quanto si possa desumere dalla visione fotografica in bianco e nero, sembrano mostrare caratteristiche morfologiche e scelte decorative simili; tra esse, un piatto con decoro della tesa a trofei (2) mostra nel cavetto uno stemma di forma simile al nostro, che poggia su una base collinare e ha sullo sfondo un cielo sfumato. Il piatto è stato a suo tempo attribuito a bottega durantina del 1530 circa.
Il paesaggio di sfondo e la rigida forma dello scudo, decorata da un motivo trilobato sulla cuspide, accompagnato da nastri svolazzanti, piatti e spesso terminanti in due capi, sono tutte caratteristiche che ci permettono di avvicinare la nostra opera ad altre simili, le quali, però, mostrano tutte scelte decorative della tesa molto differenziate. Tra queste un tondino con tesa decorata “in bianco sopra bianco” “alla porcellana” del British Museum (3)mostra una tecnica decorativa per riempire il fondale dietro lo scudo molto vicina al nostro esemplare: si differenzia per una ulteriore colorazione del cielo con del giallo per rendere una luce serotina. Il piatto è attribuito al Ducato di Urbino attorno al 1530.
Il confronto con un esemplare che mostra una scelta decorativa differente può spiegare l’attribuzione generica ad area urbinate: si tratta di un piatto del Victoria and Albert Museum (4) con una tesa decorata “alla porcellana”, ma su fondo blu e con decoro in lustro rosso, che porta al centro uno stemma di fattura semplice e con sfondo paesaggistico coerente con il nostro; tale piatto è attribuito a Gubbio e datato 1531. -
Lot 37 COPPA
URBINO E DUCATO DI URBINO, AMBITO DI NICOLA DA URBINO , 1525-1535 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 3,5; diam. cm 25,7.
SHALLOW BOWL
URBINO OR URBINO DISTRICT, CIRCLE OF NICOLA DA URBINO, C. 1525–35
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white.
H. 3.5 cm; diam. 25.7 cm.
La coppa ha cavetto concavo e tesa bassa , terminante in un orlo sottile e arrotondato. Si presenta priva di piede.
La scena si svolge all’interno di un porticato a pianta centrale, con volte a vela e un’esedra sullo sfondo, pavimentato a grandi lastre quadrate. Al centro della composizione è collocato un altare dalla forma “a candelabro” (1) con ricca decorazione a foglie d'acanto, sul quale è acceso un focolare. Ai piedi dell'altare , un sacerdote barbato sacrifica un animale con una spada dalla lama larga e ricurva. Alle sue spalle un uomo, anch'esso barbato e avvolto in un manto arancio (2) , assiste alla scena, mentre sul lato opposto una donna velata accompagna un fanciullo che sorregge con la mano destra un animale da sacrificare. Sullo sfondo, dietro le architetture, un paesaggio accennato spicca in ombra sul cielo al tramonto.
La composizione richiama, con molte varianti, quella replicata in un’incisione di Marco Dente tratta da un disegno realizzato da Raffaello per le Logge Vaticane e già utilizzata in maiolica presso le botteghe urbinati (3) .
Una scena di sacrificio, invero più affollata, attribuita alla bottega di Guido Durantino, è conservata al Museo di Berlino (4) e mostra una figura di vecchio che sacrifica un capro davanti ad un altare, in presenza di un sacerdote con il capo velato e davanti a numerosi personaggi: i modi stilistici sono vicini a quelli della cerchia di Nicola da Urbino.
La nostra coppa era stata attribuita a Nicola Pellipario da Rackham, che in una lettera al proprietario, datata 24 novembre 1962, scriveva: “Non ci sono dubbi che tu sia il proprietario di un altro lavoro di Nicola Pellipario (5). Daterei la coppa al 1520 o forse al 1525”(6) . Tale attribuzione è accolta anche da Maria Cristina Villa, che pubblica la coppa come confronto in un articolo su un istoriato inedito di Nicola da Urbino (7) . Nell’articolo vengono raffrontate alcune opere del maestro urbinate nelle quali si riscontrano effettivamente molti elementi comuni, vuoi nella resa delle figure vuoi in quella dei personaggi.
L’architettura con il porticato ha invece un riscontro in un altro piatto pubblicato nello stesso articolo e conservato al Castello di Wawel a Varsavia (8), nel quale la vicenda narrata si svolge in un porticato del tutto coerente con il nostro: Maria Cristina Villa fornisce tutti i dettagli relativi alle fonti d’ispirazione e all’utilizzo delle stesse da parte di Nicola e della sua cerchia.
Tra le opere di confronto, ci colpisce un piatto del Museo di Amburgo, nel quale le figure attorno all’altare comprendono un personaggio barbato avvolto in un mantello sulla sinistra del piatto e due figure erette sulla destra; il vecchio non mostra riscontri stilistici affini a quello raffigurato sul nostro piatto, ma ne potrebbe comunque costituire una fonte d’ispirazione. Nei personaggi femminili l’attenzione è focalizzata sulla forma del viso, che ritroviamo nelle figure rappresentate nel nostro piatto con varianti: nell’opera in analisi i personaggi sono uno maschile e uno femminile e le vesti sono differenti. -
Lot 38 PIATTO
URBINO, FRANCESCO XANTO AVELLI, 1528-1529
Maiolica dipinta in policromia, con arancio, giallo, verde, blu, bianco di stagno e bruno di manganese nei toni del nero, del marrone e del viola .
Alt. cm 2,7; diam. cm 26.5; diam. piede cm 9 .
Sul retro l’iscrizione “ Vedi Porzia ch'il ferro el/fuoco affina . historia Y/ φ ” . Sul retro etichetta rotonda con scritta di collezione in inchiostro nero “ Xanto Avelli Urbino 1530” .
DISH
URBINO, FRANCESCO XANTO AVELLI, 1528–29
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, tin white, blackish and brownish manganese, and manganese purple
H. 2.7 cm; diam. 26.5 cm; foot diam. 9 cm
On the back, inscription ‘Vedi Porzia ch'il ferro el/fuoco affina. historia Y/ φ ’; on the back, collection round label hand-written in black ink ‘Xanto Avelli Urbino 1530’
Il piatto presenta basso cavetto e larga tesa appena inclinata. L’orlo sul retro mostra tre filettature a rilievo concentriche. Poggia su basso piede privo di anello.
La scena raffigurata è quella del suicidio di Porzia perpetrato in un modo tanto inusitato e così descritto da Marziale (1): “Dixit et ardentis avido bibit ore favillas. I nunc et ferrum, turba molesta, nega” . Come sempre Xanto Avelli ci descrive la scena aiutandoci nella comprensione, con una spiegazione sul retro “ Vedi Porzia ch'il ferro el/fuoco affina. historia Y/ φ” ; utilizza inoltre nella legenda la frase tratta dai Trionfi del Petrarca (2) e appone la scritta historia e non fabula poiché si tratta di un episodio di storia romana e non di una vicenda mitologica (3) .
Porzia, figlia di Catone Uticense e moglie di Marco Giunio Bruto, uno degli assassini di Giulio Cesare, alla notizia della morte del marito (42 a.C.) si uccide ingoiando dei carboni ardenti. Questa vicenda storica è narrata da Valerio Massimo (4), che così descrive il tragico atto: "Quando venisti a sapere che il tuo sposo Bruto era stato sconfitto e ucciso a Philippi, poiché non ti si dava un pugnale, non esitasti a inghiottire castissimi carboni ardenti, imitando con il tuo coraggio femminile la morte virile di tuo padre". I carboni ingoiati da Porzia sono "castissimi", perché la castità era stata la dote principale di questa donna coraggiosa: e la castità era una delle virtù fondamentali della matrona romana (5). A far passare Porzia per leggenda non fu dunque il suicidio in sé, ma il modo in cui Valerio Massimo lo descrive, cioè “tale da meritare l’ammirazione di tutti i secoli futuri” e da superare addirittura il coraggio dello stesso padre.
La giovane donna è dipinta sulla sinistra del piatto mentre, seduta su un gradino, inghiotte le braci; a destra un’ancella, sconvolta, cerca aiuto e in basso un cagnolino, con una piccola preda in bocca, guarda lo spettatore con fare smarrito; al centro il focolare, protagonista della composizione.
Il piatto è stato pubblicato in occasione degli atti del convegno su Francesco Xanto Avelli a cura di Carmen Ravanelli Guidotti (6): a questo studio faremo riferimento per l’analisi del piatto.
Anche in questo caso si riconosce l’uso di più incisioni: Porzia in una delle madri nell’opera La strage degli innocenti (vedi fig. 1) (7), mentre l’ancella è tratta dall’incisione con “gli Ebrei che raccolgono la manna” (vedi fig. 2) (8). -
Lot 39 PIATTO
URBINO, BOTTEGA DI GUIDO DURANTINO, 1540-1545 CIRCA
Maiolica dipinta a policromia con azzurro, giallo, giallo arancioe bruno di manganese.
Alt. cm 2,5; diam. cm 27,2; diam. piede cm 9,4.
Sul retro, sotto il piede, delineata in blu di cobalto la scritta Nottuno .
DISH
URBINO, WORKSHOP OF GUIDO DURANTINO, C.1540–45
Earthenware, painted in light blue, yellow, orange-yellow, and manganese
H. 2.5 cm; diam. 27.2 cm; foot diam. 9.4 cm
on the back, beneath the base, inscription in cobalt blue Nottuno
Il piatto ha un cavetto ampio e poco profondo, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato; poggia su un piede ad anello. Il fronte è interamente ricoperto da una decorazione istoriata che interessa il cavetto e la tesa senza soluzione di continuità.
Nella parte inferiore del cavetto e della tesa è raffigurato il carro di Nettuno che sorge dal mare, trainato da cavalli marini e scortato da due tritoni: uno alle spalle del dio e uno sulla tesa a destra (1). La divinità brandisce il tridente rivolgendolo verso il basso, gesto ripetuto da un tritone raffigurato sulla tesa a destra. Sullo sfondo le navi troiane squassate dai venti, dipinti mentre soffiano da un nimbo illuminato dai fulmini e collocato nella parte superiore del piatto, sulle quali si intravede la figura di Enea con le braccia alzate in cerca di aiuto.
La scena riproduce in maiolica la celebre incisione di Marcantonio Raimondi (1480 circa - 1534), ritenuta uno dei suoi capolavori, tradizionalmente intitolata “Quos Ego” (2) (vedi fig. 1) dal noto verso di Virgilio dal libro I dell' Eneide (3).
Il piatto in esame è stato pubblicato dal Professore Gaetano Mario Columba nel marzo 1895. Lo studioso siciliano mette in relazione l’incisione con la scena raffigurata sul piatto (4) e la paragona a opere di maiolica con simile soggetto, probabilmente ispirate alla medesima incisione, ipotizzando che per alcune caratteristiche stilistiche, come la presenza dei fulmini, il pittore si sia potuto ispirare a disegni o modelli presenti alla corte di Urbino dai quali il Raimondi avrebbe in seguito tratto l’incisione.
Esistono comunque altre opere che s’ispirano alla celebre opera del Raimondi, che sappiamo posteriore al 1516, in cui si riconoscono varianti e interpretazioni da parte degli autori. Il confronto più prossimo, già indicato da Columba, è il bel tagliere di bottega urbinate conservato al Museo del Louvre, recante sul retro la scritta “ 1543/Nettuno dio del mare” , attribuito da Giacomotti alla bottega Fontana (5).
Un altro piatto, datato 1544, con il medesimo soggetto è conservato al Museo Nazionale Ungherese di Budapest: morfologicamente affine, mostra caratteristiche stilistiche e scelte decorative differenti pur ispirandosi al medesimo soggetto. La scelta cromatica è diversa e la stesura molto più rigida: il dio del mare è raffigurato su una conchiglia e i cavalli marini sono disposti e realizzati in modo libero, senza la consueta coda di delfino; i venti sono sostituiti da nubi tempestose e il mare è popolato da delfini che prendono il posto dei tritoni rappresentati da un’unica figura dipinta di spalle (6).
Una coppa, databile tra il 1560 e il 1570, con la stessa scena riprodotta con inversione verso destra, è conservata al Victoria and Albert Museum (7): anch’essa presenta la scritta “ notuno ” al verso , ma ha caratteristiche coloristiche e stilistiche più vicine a quelle che ritroviamo nell’ambito della bottega Fontana: si vedano in particolare i musi dei cavalli e la figura stessa della divinità. -
Lot 40 COPPA
URBINO, SECONDO QUARTO DEL SECOLO XVI
Maiolica dipinta in policromia con azzurro, verde ramina, bruno di manganese, giallo ocra, blu di cobaltoe bianco di stagno.
Alt. cm 5,2; diam. cm 26,5; diam. del piede cm 12,6.
SHALLOW BOWL
URBINO, SECOND QUARTER OF 16TH CENTURY
Earthenware, painted in light blue, copper green, manganese, ochre yellow, cobalt blue, and tin white
H. 5.2 cm; diam. 26.5 cm; foot diam. 12.6 cm
La coppa, poggiante su piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La scena istoriata raffigura Il sacrificio di Marco Curzio (1), avvenuto quando, per un terremoto o per un'altra causa naturale, il suolo franò nel centro del foro romano, lasciando aperta un'ampia voragine. Nonostante tutti vi gettassero della terra non si riusciva a riempirla, fino a quando, su preciso monito degli dèi, gli indovini sostennero che si doveva consacrare quel luogo con “l'elemento principale della forza del popolo romano”, se si voleva che la Repubblica romana durasse in eterno. Allora Marco Curzio, un giovane distintosi in guerra, riconoscendo nel valore militare ciò che gli dèi richiedevano, si offrì in voto e, montato in groppa a un cavallo, si gettò armato nella voragine: la folla, colpita dal gesto, lanciò frutta e libagioni su di lui e la voragine ne fu colma (2).
Questa vicenda riscontrò un grande successo nell’iconografia rinascimentale e in particolar modo sulla maiolica istoriata. Si vedano ad esempio i piatti del Museo di Pesaro che, con modalità stilistiche differenti, in alcuni casi accomunati dalle medesime incisioni di riferimento, raffigurano questa stessa scena (3); ma l’elenco di come questo episodio sia stato trattato in maiolica sarebbe assai lungo.
Notiamo nell’analisi della coppa che l’autore ha associato più incisioni nella formazione del soggetto da raffigurare: si riconosce nei personaggi assembrati ad assistere al sacrificio del giovane valoroso, una parte del popolo che affolla l’agorà nell’incisione di Marcantonio Raimondi che raffigura La predica di San Paolo nell'Areopago di Atene (4) (vedi fig. 1). La figura del Marco Curzio da Marcantonio Raimondi invece non ci pare possa costituire il riferimento iconografico corretto per l’opera in esame, pur essendo probabilmente assai nota nelle botteghe urbinati.
Stilisticamente la coppa ci pare vicina alle produzioni urbinati, o comunque di una bottega attiva nel Ducato di Urbino: anche la forma della coppa è assai usata nel ducato stesso. E anche l’uso di più fonti incisorie, secondo l’abitudine delle botteghe marchigiane, e la capacità di unirle in una corretta proporzione ci conforta sull’area produttiva e ci fa pensare a un pittore esperto. Ciò che ci colpisce è l’abilità dell’artefice di disporre con grande maestria le figure all’esergo del piatto delineandole con libertà, nonostante il riferimento alle incisioni.
I pigmenti sono variamente diluiti per dare profondità alle pieghe delle vesti, i volti sono illuminati da tocchi di stagno che fanno spiccare i nasi, dritte le bocche chiuse, il cavallo è ben descritto grazie a un sapiente gioco di chiaroscuro e con ombreggiature con tocchi di bistro, così come il cavaliere: si noti per esempio la cura nella realizzazione dell’elmo. Ma sono le architetture dello sfondo, il muro arcuato (5), le cupole, i fornici ad arco, unitamente agli alberi dal tronco scuro e sinuoso, che ci portano a ragionare e a confrontarci con autori attivi della prima metà del secolo e con maestranze che conoscono l’operato di Nicola da Urbino. -
Lot 41 COPPA
PESARO, PITTORE DEL PIANETA VENERE (?), 1542-1548 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. piede cm 11.
Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto “ presa de Iosefe/ Dalifratelli” .
SHALLOW BOWL
PESARO, ‘THE PAINTER OF THE PLANET VENUS’ (?), C.1542–48
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white
H. 3.8 cm; diam. 29 cm; foot diam. 11 cm
On the back, at the centre of the well, inscription in cobalt blue ‘presa de Iosefe/ Dalifratelli’
Il piatto presenta ampio cavetto, tesa larga e obliqua terminante in orlo arrotondato. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso, molto ricco e materico con vetrina brillante lucida e vetrosa sia sul fronte, sia sul retro e abbondante uso dei pigmenti. Vi sono ombreggiature verdi sul retro , ornato da righe gialle concentriche che ne sottolineano gli stacchi di forma: al centro del cavetto la scritta in blu di cobalto “ presa de Iosefe/ Dalifratelli” .
La scena delineata sul fronte interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura l’episodio biblico del rapimento di Giuseppe da parte dei fratelli (1) . Giuseppe era nato da Rachele, seconda moglie di Giacobbe, dopo anni di sterilità: alla sua nascita il padre Giacobbe era già anziano e lui divenne il figlio prediletto. Questa preferenza del padre alimentò la gelosia dei suoi fratellastri , che complottarono contro di lui. Il primogenito si oppose all'uccisione di Giuseppe, preferendo che fosse gettato in fondo a un pozzo, ma infine si decise di venderlo per venti monete d'argento a una carovana di mercanti di passaggio: Giuseppe, schiavo , fu condotto in Egitto. I suoi fratelli quindi utilizzarono la tunica , donatagli dal padre come segno di predilezione, cosparsa di sangue di capra per far credere al padre Giacobbe che Giuseppe fosse stato ucciso da una bestia feroce.
Nel piatto il giovane è disegnato con le mani legate tra i fratelli che lo conducono verso il pozzo, dove li attende uno di loro, il maggiore, che ne indica il fondo. Un’alta roccia fa da quinta alla scena , mentre sullo sfondo si scorge un paesaggio con montagne alte dal profilo arrotondato e un villaggio con cupole e torri cuspidate si specchia in un lago.
Le figure sono dipinte con uno stile dal tratto deciso: i volti e i dettagli sono illuminati da tocchi di bianco di stagno, in contrasto con la scelta cupa dei colori molto materici.
Un confronto stilisticamente pertinente si ritrova nel piatto con la contesa di Pan e Apollo della Wallace Collection di Londra , attribuito al Ducato di Urbino negli anni 1540 circa (2). Si noti come il volto di Apollo si avvicini molto a quello di uno dei fratelli di Giuseppe , così come quello del personaggio barbato seduto nel piatto londinese è molto simile a quello dei fratelli più anziani dipinti nel nostro piatto. Si vedano inoltre lo stile delle mani, le braccia robuste, la forma delle chiome degli alberi a ciuffi larghi e appiattiti, le rocce allungate e scontornate, ma soprattutto la forma delle montagne e dei villaggi con cupole e torri dal tetto acuminato , molto rassomiglianti nelle due opere. -
Lot 42 PIATTO
URBINO O DUCATO DI URBINO, 1540 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 4; diam. cm 29,7; diam. piede cm 8,5 .
Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto la scritta Europa .
DISH
URBINO OR URBINO DISTRICT, C.1540
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white
H. 4 cm; diam. 29.7 cm; foot diam. 8.5 cm
On the back, at the centre of the well, inscription in cobalt blue ‘Europa’
Il piatto ha un cavetto largo e concavo a stacco marcato, la tesa è larga e obliqua e termina in un orlo arrotondato e orlato di giallo. Alcune linee gialle sul retro ne sottolineano i contorni. Il piatto poggia su un piede basso e privo di anello.
Sul verso , al centro del piede, in blu di cobalto si legge la scritta Europa . Il piatto è decorato su uno smalto grasso, molto ricco con vetrina brillante molto lucida e vetrosa sia sul fronte sia sul retro, e con abbondante uso di pigmenti.
La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e descrive il momento in cui Europa sale in groppa al toro sotto le cui spoglie si cela Giove , che intende rapirla.
L'episodio è ben distribuito sul piatto a raffigurare narrativamente momenti ben distinti: diviso in tre parti , a sinistra Europa e le sue ancelle sono dipinte vicino al toro, al centro della composizione la giovane donna è raffigurata ormai in groppa all'animale e nel momento immediatamente precedente al rapimento, a destra accorre il padre Antenore .
Alcuni esemplari di confronto sono conservati al Museo di Pesaro e ci fanno comprendere come questo episodio della mitologia antica (1) abbia avuto un grande successo nel Rinascimento , tanto da essere tra quelli più raffigurati in maiolica durante tutto il secolo XVI (2). Tra questi, un piatto ormai attribuito a Sforza di Marcantonio (3) , databile al 1550 circa , si avvicina al nostro per scelta decorativa, ma non per stile pittorico; inoltre, diversamente dal nostro esemplare (4), aggiunge alla scena il momento del rapimento vero e proprio, con Europa in groppa al toro ormai perduta in mezzo al mare. Questa versione trae ispirazione dalle incisioni di Bonasone, e i personaggi sembrano più vicini a tale sensibilità.
La seconda parte del rapimento compare anche in un altro esemplare che, per sintassi decorativa e ambito culturale , ci pare più vicino al nostro, benché anch’esso stilisticamente differente.
La scena , tratta dall’incisione di Bernard Salomon , è stata poi riprodotta per intero anche in un altro piatto , sempre di ambito urbinate , dello stesso museo (5), anche se non avvicinabile concettualmente o stilisticamente a quello in esame.
Infine un piatto , comparso sul mercato lo scorso anno (6) , espone l’episodio in maniera analoga: con le ancelle unite in gruppo e la protagonista rivolta di spalle mente sale sul toro .
Anche nel nostro caso, come per l’ultimo esemplare sopraccitato, ci pare che l’opera più vicina per l’interpretazione della scena sia la coppa conservata nel Museo di Pesaro e attribuita al “Pittore del Pianeta Venere“, vicino a Girolamo Lanfranco dalle Gabicce, che mostra anch’essa la protagonista seduta di spalle (7). È del resto assai probabile che questi esemplari traggano ispirazione da una fonte incisoria simile o da un capostipite per tale iconografia: comunque dalla miscellanea di più fonti incisorie da identificare. -
Lot 43 COPPA
URBINO, BOTTEGA FONTANA (DURANTINO), 1540 CIRCA
Maiolica dipinta a policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 3,8; diam. cm 29; diam. del piede cm 11.
Sul retro al centro del cavetto in blu di cobalto è delineata la scritta “ Tutia porta/Al temple aqua col cribulo”.
SHALLOW BOWL
URBINO, FONTANA’S WORKSHOP (DURANTINO), C.1540
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white
H. 3.8 cm; diam. 29 cm; foot diam. 11 cm
On the back, at the centre of the well, inscription in cobalt blue ‘Tutia porta/Al temple aqua col cribulo’
Il piatto ha un ampio cavetto e una tesa larga e obliqua, terminante in un orlo che sul retro presenta due filettature concentriche, seguite da altre due linee gialle a sottolineare i contorni. Poggia su basso piede privo di anello. Lo smalto è grasso e molto ricco, con vetrina brillante sia sul fronte sia sul retro. Il decoro è realizzato con abbondante uso dei pigmenti e sono presenti alcune ombreggiature verdi sul retro.
La scena interessa l'intera superficie senza soluzione di continuità e raffigura il Sacrificio della Vestale Tuccia che, ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità ( incestum ), chiese di poter provare la propria innocenza sottoponendosi a una pena di prova , consistente nel tentare di raccogliere l'acqua del Tevere con un setaccio : la prova riuscì dopo l’invocazione alla dea Vesta e Tuccia fu ritenuta innocente.
La donna è raffigurata con il setaccio ricolmo d’acqua tra le mani mentre si avvicina all’altare, su cui arde un fuoco, accolta da due sacerdoti barbati e con il capo velato. L’ara è collocata di fronte a un tempio porticato e con una copertura a cupola; sullo sfondo si scorge una città con edifici arrotondati, cupole e torri sormontate da curiosi e alti pennoni, e tra le due parti scorre un fiume.
Questo soggetto fu caro alla pittura su maiolica nel Rinascimento (1).
Un confronto, che ci aiuta a delimitare l’area di produzione, ci viene fornito da una splendida coppa, conservata al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (2), già attribuita a Nicola da Urbino, che raffigura una Scena di sacrificio al tempio di Apollo , come si deduce dall’iscrizione apposta sul retro nei modi grafici del maestro urbinate. Le due opere, stilisticamente molto differenti, condividono lo stesso humus culturale, più semplificato e corrivo nella nostra opera, più sofisticato e colto nell’opera del museo faentino.
Ma è il confronto con un piatto del Museo Fitzwilliam di Cambridge (3) che ci fornisce una collocazione più precisa: si tratta di un piatto istoriato con La regina di Saba che ascolta il giudizio di Salomone , firmato “ nella Bottega di Maestro Guido Durantino ” e databile agli anni ‘30 del Cinquecento (4). Lo stile, un poco corrivo, a larghe pennellate, e la forma delle architetture, in particolare quella della gradinata, ci inducono ad avvicinare con buona sicurezza l’opera in esame a quella del museo inglese.
1 Si pensi ad esempio alle varie redazioni che ne fece Xanto Avelli (MALLET 2008, p.154 n. 53).
2 Inv. 540, già pubblicato in BERNARDI 1980, pp. 47-48 n. 55.
3 POOLE 1997, p. 68 n. 29.
4 MALLET, “Burlington Magazine” 1987 pp. 284-298.
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Lot 44 COPPA
PESARO, BOTTEGA DI GIROLAMO LANFRANCO DALLE GABICCE, 1540 CIRCA
Maiolica dipinta a policromia con colori arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nella tonalità nera, bistro e bianco di stagno.
Alt. cm 6,4; diam. cm 26,4; diam. piede cm 12,9.
SHALLOW BOWL
PESARO, WORKSHOP OF GIROLAMO LANFRANCO DALLE GABICCE, C.1540
Earthenware, painted in orange, yellow, green, blue, blackish manganese, bistro, and tin white
H. 6.4 cm; diam. 26.4 cm; foot diam. 12.9 cm
La coppa presenta cavetto concavo con tesa alta terminante in orlo arrotondato e larga tesa appena inclinata. Poggia su alto piede rifinito a stecca.
La scena figurata occupa tutto il cavetto e raffigura la sfida tra Poseidone e Atena per la protezione della città di Atene. Il Fato aveva predetto che l’Attica sarebbe diventata la regione più forte, ricca e importante di tutta la Grecia e così gli dèi decisero di insediarsi nelle varie città, dove ognuno di loro avrebbe avuto il suo culto personale. Per Atene si svolse una gara il cui tema era quello di produrre la cosa che sarebbe stata più utile agli uomini. Le versioni sono qui discordanti: per alcune Poseidone per primo si recò in Attica, vibrò un colpo di tridente in mezzo all’Acropoli e fece apparire una fonte di acqua salata, mentre secondo un’altra versione del mito Poseidone avrebbe offerto in dono il primo cavallo, simbolo di guerra e potenza. Dopo di lui venne comunque Atena che piantò un ulivo simbolo di pace e fertilità. Ne nacque una contesa: per Apollodoro (1) lo stesso Zeus li fece smettere chiamando a giudici tutti gli altri dèi dell’Olimpo. Il loro giudizio, grazie alla testimonianza di Cecrope che asserì che la dea avesse per prima piantato l’ulivo, fu a favore di Atena, dalla quale la città ebbe il nome. Poseidone, con l'animo pieno d'ira, allagò per vendetta la pianura Triasia e fece sommergere dal mare tutta l'Attica.
Il pittore sviluppa la scena su più livelli prospettici. In primo piano le due divinità al centro: Poseidone che con la destra regge il tridente e con la sinistra il cavallo (2), che s’impenna esprimendo tutta la sua potenza, e un poco in disparte, sulla sinistra, Atena entra nella scena avanzando a larghi passi e indicando alle sue spalle l’albero di ulivo. Sullo sfondo il porto di Atene e la città turrita che s’innalza su un colle. Su un albero è appeso uno stemma bipartito forse a indicare un matrimonio. Allo stato attuale degli studi non ci pare di poter riconoscere le famiglie nobiliari, anche se è forse possibile ipotizzare, per la sola metà a destra dello stemma, che si tratti della famiglia fiorentina dei Bardi (3).
Lo smalto è grasso, spesso, i colori brillanti, la stesura è sicura; i tratti somatici dei volti sono delineati in bruno e la prospettiva è resa con sicurezza, mentre il paesaggio sullo sfondo è ricco di particolari, come ad esempio la torre bianca con il tetto acuminato che svetta sul cielo al tramonto.
La coppa trova preciso riscontro in un esemplare del tutto analogo per morfologia e sintassi decorativa, ma privo dello stemma, conservato al museo di Pesaro e attribuito alla bottega di Girolamo Lanfranco dalle Gabicce attorno al 1542 (4). La scena e la disposizione sono veramente molto simili, facendoci pensare ad un soggetto di successo presso la bottega di produzione, ma la mano è differente: più leggera ma anche più imprecisa nella coppa del museo pesarese, più incisiva, ma anche più irrigidita nella resa dei personaggi, nel nostro esemplare. -
Lot 45 COPPA SU BASSO PIEDE
URBINO O DUCATO DI URBINO, 1530 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con verde, giallo antimonio, blu di cobalto, bruno di manganese nei toni del nero, nero-marrone e viola, tocchi di bianco di stagno.
Alt. cm 45; diam. cm 24; diam. piede cm 13.
Sul retro in blu di cobalto è scritta la legenda “ di Circia et glauco” .
SHALLOW BOWL
URBINO OR URBINO DISTRICT, C.1530
Earthenware, painted in green, antimony yellow, cobalt blue, blackish and blackish-brownish manganese, and manganese purple with tin-white highlights
H. 45 cm; diam. 24 cm; foot diam. 13 cm
On the back, inscription in cobalt blue ‘di Circia et glauco’.
La coppa poggia su un piede ad anello molto basso, ha cavetto largo, tesa alta e stretto bordo estroflesso. La decorazione istoriata interessa l’intera superficie del cavetto. Sul verso , decorato da linee concentriche gialle a sottolineare i profili, è delineata all’interno del piede la scritta “ di Circia et glauco ”.
La scena raffigurata mostra Circe seduta all’interno del suo palazzo con un ampio porticato sormontato da un terrazzo, arricchito da una vite che poggia su alcuni pilastri: di fronte a lei Glauco in abiti romani.
Il mito è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (1) e racconta del pescatore Glauco che, innamorato di Scilla ma incapace di sedurla, attraversa lo stretto per recarsi da Circe e ottenere una formula d’amore. Circe, figlia del Sole, s’innamora di Glauco e gli offre, giacendo con lei, di assecondare con un solo gesto chi lo ama e, contemporaneamente, di vendicarsi di chi lo disprezza, ma il giovane rifiuta e fugge lontano. Allora Circe infuriata muta la rivale in un mostro. Anche Glauco, in una seconda parte del mito, si muterà di sua volontà in divinità marina (2).
Il soggetto è dipinto con grande cura e i personaggi sono delineati con attenzione e notevole senso delle proporzioni: Glauco, in piedi, ha il busto un poco ritorto e avanza un passo verso la maga, seduta e coperta da un’ampia veste color arancio.
Il pittore è abile nell’utilizzare il colonnato come suddivisione spazio-temporale: al centro il colloquio sopradescritto, ai lati del piatto due scene erotiche, nelle quali però mutano i personaggi, che forse sono la rappresentazione dei due amori desiderati e mai realizzati. Tra due colonne a sinistra un personaggio, probabilmente Glauco stesso, fugge, mentre dall’altro lato un cigno avvolge il collo attorno a una colonna, forse una vittima della maga, forse un’interpretazione della metamorfosi di Scilla.
La narrazione è complessa e la scenografia di grande eleganza: i dettagli architettonici tipicamente rinascimentali e l’apertura di uno scorcio paesaggistico proprio al centro del piatto è di grande impatto.
Le caratteristiche stilistiche e la sintassi decorativa ci portano a orientare la nostra ricerca tra le maggiori botteghe operative nella città di Urbino nella prima metà del Cinquecento, anche se un’attribuzione di questa coppa a una bottega specifica del ducato di Urbino comporta qualche difficoltà.
L’analisi di confronto dell’architettura con esemplari che mostrano edifici con caratteristiche simili ci porterebbe a escludere l’intervento della mano di Francesco Durantino. Il pittore ci pare usare una modalità stilistica differente e soprattutto un modo di distribuire i suoi personaggi poco convenzionale rispetto alle architetture che li circondano: non le abitano, né ne usufruiscono, ma vi ruotano intorno. -
Lot 46 GRANDE PIATTO
CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1525 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con blu di cobalto, verde rame, giallo antimonio, giallo arancio, bruno di manganese nei toni del nero.
Alt. cm 6,4; diam. cm 42,3; diam. piede cm 22.
Sul retro, sotto il piede una etichetta con numeri “ 937/712000 sgell” delineati a inchiostro; a fianco, su un supporto verniciato, il numero a china 31305.
LARGE DISH
CASTEL DURANTE, WORKSHOP OF LUDOVICO AND ANGELO PICCHI, C. 1525
Earthenware, painted in cobalt blue, copper green, antimony yellow, orange-yellow, and blackish manganese.
H. 6.4 cm; diam. 42.3 cm; foot diam. 22 cm.
On the back, beneath the base, paper tag ‘937/712000 sgell’ in ink, beside number ‘31305’ hand-written in black ink on a white painted surface.
Il piatto circolare ha un ampio e largo cavetto, tesa larga e appena obliqua, orlo arrotondato, e poggia su un piede ad anello piuttosto alto. Il retro è decorato a cerchi gialli concentrici, mentre il fronte è interamente ricoperto da una fitta decorazione istoriata che mostra al centro del cavetto una scena di battaglia, mentre la tesa è decorata con figure di satiri, amorini e divinità disposte a riempire, attorno a quattro riserve simmetriche, tutte le campiture.
La tesa è centrata, in altro e in basso, da due figure di sirene affiancate da due putti e circondate da volute architettoniche. Al loro fianco quattro satiri sorreggono un tendaggio, dietro il quale si scorgono delle figure umane. Nella parte superiore il decoro prevede poi due mostri alati e due soldati romani che sorreggono due riserve polilobate, abitate da figurette ignude dipinte a grisaille ocra, mentre le restanti porzioni della tesa, in basso, sono riempite da putti e figure ignude.
Il cavetto è interamente interessato, in primo piano, da una scena nella quale si affrontano due schiere di cavalleria (1), mentre, sullo sfondo, svettano edifici circolari sormontati da cupole e una catena montuosa che si staglia su un cielo al tramonto, riempito da nuvolette dalla forma a chiocciola.
Anche quest’opera, come quelle che seguono (lotti 47-49)), appartiene alla vasta produzione della bottega già attribuita ad Andrea da Negroponte, per via di una coppa che reca questo nome conservata nel museo di Arezzo, e oggi raccolta sotto l’egida della più vasta bottega di Ludovico e Angelo Picchi, attiva a Castel Durante nella seconda metà del secolo XVI.
Elementi caratterizzanti sono lo stile pittorico rapido, corrivo, poco attento alla prospettiva, estremamente decorativo e caratterizzato da dettagli come il muso allungato dei cavalli, spesso con un collo sproporzionato, gli scudi decorati da mascheroni, gli elmi dipinti di scuro che incorniciano dei volti talvolta troppo piccoli, la scelta cromatica.
I confronti più vicini al nostro piatto, come sintassi decorativa, ci derivano dal bel bacile del Walters Art Museum di Baltimora (2), che mostra analoga scelta decorativa nella tesa, unita a un ornato a trofei tipico di Castel Durante, mente nel cavetto reca dipinta la scena della contesa di Apollo, e dal piatto del Museo Civico di Pesaro che raffigura l’episodio biblico di Davide e Golia con tesa stilisticamente vicina alla nostra ma con l’inserimento di motivo a trofei (3). -
Lot 47 PIATTO
CASTEL DURANTE, BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1565 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco, bruno di manganese.
Alt. cm 4,5; diam. cm 28,2; diam. piede cm 11,9.
Sul retro del piatto sotto il piede compare l’iscrizione dipinta in blu”” hateon 1551 “
DISH
CASTEL DURANTE, WORKSHOP OF LUDOVICO AND ANGELO PICCHI, C. 1550–65
Earthenware, painted in yellow, orange, blue, green, white, and manganese.
H. 4.5 cm; diam. 28.2 cm; foot diam. 11.9 cm.
On the back, beneath the base, inscription in blue ‘hateon 1551’.
Il grande piatto ha un cavetto largo, tesa ampia e piana che termina in un orlo arrotondato appena rilevato e orlato di giallo. Poggia su un piede ad anello. Il retro è decorato con linee gialle a rimarcare i profili: al centro la scritta corsiva “ hateon 1551 ” in blu di cobalto (1).
Sul fronte la scena principale, che occupa tutto lo spazio senza soluzione di continuità, tra tesa e cavetto mostra a destra il giovane Atteone ormai trasformato in cervo mentre i suoi stessi cani si avvicinano per sbranarlo. Sulla tesa, a sinistra, si scorge l’origine della tragica metamorfosi: la fonte protetta da una grotta nella quale Diana e le sue Ninfe si stavano bagnando, ritratte nell’istante in cui le giovani cercano di coprire con il loro corpo la dea Diana alla vista di Atteone. Sullo sfondo un paesaggio lacustre e in alto un emblema tripartito parzialmente, associato alla famiglia ducale di Urbino: vi si distinguono la Quercia dei Della Rovere e l’Aquila dei Montefeltro. L’emblema è sormontato da un cimiero con una branca o una mano guantata (2) che sorregge una spada e da un cartiglio che recita “ SAPIE(N)S DOMINABITYR ASTRIS ”. Il motto è presente negli Emblemata , ove si legge per esteso “ Astra regunt homines, sapiens dominabitur astris, et poterit notis cautior esse malis” (3) .
La fonte incisoria, liberamente interpretata, non è stata individuata, anche se si tratta probabilmente delle incisioni più antiche , come le xilografie nel libro di Niccolò Zoppino (4) o quelle dell’edizione Raphael Regius (5), nelle quali l’ambientazione naturalistica e la suddivisione della scena nei due episodi può essere stata anch’essa di ispirazione al decoratore del nostro esemplare.
Il piatto fa parte di un noto servizio che convenzionalmente era stato associato al pittore Andrea da Negroponte (6) , in base al nome scritto dietro una coppa baccellata del Museo Civico Medievale di Arezzo, su cui è rappresentata la gara tra Apollo e Marsia ma che non ricorre su altre opere o nei documenti di archivio. Oggi il pittore del servizio Sapiens , che annovera alcuni esemplari ben conosciuti, si riconosce in un artista attivo a Castel Durante nella bottega di Ludovico e Angelo Picchi fra il 1550 e il 1565.
Il pittore dipinge velocemente con uno stile ben preciso che, attraverso una scelta cromatica brillante e aranciata, si riconosce soprattutto in alcuni dettagli , come il muso degli animali allungato e con uno sguardo antropomorfo o le rocce , le cui rugosità sono realizzate con pennellate curvilinee che conferiscono loro una forma quasi a guisa di nuvola.
Numerosi gli esemplari noti con stemma del servizio Sapiens (7): si ricorda tra questi , con forma e dimensioni analoghe al nostro, il magnifico piatto con il Sacrificio di Marco Curzio del Museo Civico Medievale di Bologna , anch’esso datato 1551. -
Lot 48 CRESPINA
CASTEL DURANTE , BOTTEGA DI LUDOVICO E ANGELO PICCHI, 1550-1560 CIRCA
Maiolica, dipinta in policromia con arancio, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero n, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 3,6; diam. cm 25.
MOULDED BOWL (CRESPINA)
CASTEL DURANTE, WORKSHOP OF LUDOVICO AND ANGELO PICCHI, C.1550–60
Earthenware, painted in orange, green, blue, blackish and brownish manganese, and tin white.
H. 3.6 cm; diam. 25 cm.
Crespina formata a stampo con umbone centrale rilevato, orlo mosso e corpo sbalzato.
La decorazione è dipinta su uno smalto ricco con una vetrina brillante e lucida sia sul fronte sia sul retro , dove le baccellature della forma vengono sottolineate da un decoro a linee blu.
Al centro dell'umbone spicca l'episodio di Muzio Scevola, tramandato dalla tradizione romana come esempio di coraggio. Intorno , lungo la tesa , quattro figure di arcieri si alternano a rami di ulivo a loro volta intervallati lungo il bordo da quattro lune antropomorfe e alate.
L’episodio , narrato da Tito Livio (1) , si svolge durante l’assedio di Roma ad opera dell’etrusco Porsenna. Mentre nella città cominciavano a scarseggiare i viveri, il giovane aristocratico Muzio Cordo si offrì per andare a uccidere il comandante etrusco; infiltratosi nelle linee nemiche, e armato di un pugnale, raggiunse l'accampamento , ma nell’azione sbagliò persona uccidendo un funzionario del re. Catturato dalle guardie e portato al cospetto di Porsenna, il giovane romano non esitò a dire che avrebbe punito la mano che aveva sbagliato , e la pose su un braciere fino a che non fu completamente consumata. Da quel giorno il coraggioso romano assunse il nome di "Muzio Scevola" (Muzio il mancino). Porsenna rimase tanto impressionato da questo gesto che decise di liberarlo.
Questo soggetto ebbe grande successo durante il Rinascimento e fu spesso raffigurato su supporto ceramico, come dimostrano i numerosi esempi che vanno dalla coppa di Francesco Xanto Avelli fino a esemplari che possiamo accostare per stile e paternità a quello in studio. Ci riferiamo alla coppa che ripropone lo stesso episodio, conservata al Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo (2): la diversità nella disposizione dei personaggi e della scena ci conferma la presenza di più fonti incisorie di riferimento, ma soprattutto l’ecletticità e la capacità di tradurre la stessa scena con modalità assai differenti tra loro. Nel nostro esemplare è riprodotto l’accampamento con una vasta tenda, al centro il focolare su cui il giovane pone la mano; nella coppa di Arezzo si ha la disposizione tradizionale degli episodi di storia antica con il re assiso in trono, possibilmente in posizione rilevata e su un lato del piatto, e di fronte l’antagonista (3). Tuttavia lo stile pittorico è il consueto che ben possiamo riconoscere nelle opere che precedono questa scheda (lotti 45-46): i volti piccoli e racchiusi in elmi scuri, arrotondati, le loriche a fasce parallele di colore blu o ocra, le capigliature arricciate, le bocche piccole un poco imbronciate, le gambe muscolose, un poco tozze, ombreggiate con sottili tratti arancio e lumeggiate con bianco di stagno.
Ma nella crespina in esame la disposizione dei personaggi intorno al fuoco è più accorta, rendendo la concitazione del momento, e il paesaggio notturno che s’intravede nel cielo scuro, con le consuete nuvolette a chiocciola, dà una profondità alla scena non sempre riuscita nelle opere della bottega marchigiana.