Meraviglie. Atto I
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Lot 1 Antonio Canova
Amore e Psiche stanti, primo quarto del XIX secolo
Gesso, la scultura; legno, il basamento
149,3x67,5x67,2 cm (la scultura);
76x77,4x63 cm (il basamento)
Provenienza:
Studio di Antonio Canova, fino al 1829; Giambattista Sartori, fratello uterino ed erede universale di Canova; Conti Antonietta Bianchi e Filippo Canal, per dono da parte di Sartori; Eredi Canal (fino al 2004); Veneto Banca SpA in LCA
Bibliografia :
E. Fontanella, a cura di, Amore e Psiche, la favola dell’anima, Milano, 2013; P. Mariuz, a cura di, A. Canova, II, Roma, 2014, pp. 559, n. 37, e 570, n. 186; N. Pravisani, scheda di, in A. Geretti, a cura di, Amanti. Storie di passioni divine e umane, Illegio, Casa delle Esposizioni, Udine, 2017, pp. 82-84; G. Pavanello, scheda, in G. Pavanello, a cura di, Canova. Eterna bellezza, Loreto-Trevi, 2019, cat. 136, pp. 250-251 (illustrato), 337; G. Pavanello, introduzione, in G. Pavanello, a cura di, Canova. Eterna bellezza, Loreto-Trevi, 2019, pp. 16-17 (ill.); F. Malachin, scheda, in F. Malachin, G. Pavanello, N. Stringa, a cura di, Canova gloria trevigiana: dalla bellezza classica all’annuncio romantico, Treviso, 2022, pp. 269-270; M. Guderzo, B. Guidi, G. Pavanello, a cura di, Io, Canova genio europeo, Cinisello Balsamo, 2022, cat. 116, pp. 233, 234-235 (ill); 273 (ill.)
Esposizioni:
Amore e Psiche, la favola dell’anima, a cura di E. Fontanella, Torino, Palazzo Barolo, 27 marzo - 16 giugno 2013, Mantova, Palazzo Te, 6 luglio - 6 gennaio 2014, Monza, Serrone della Villa Reale, 23 gennaio - 4 maggio 2014; Amanti. Storie di passioni divine e umane, a cura di A. Geretti, Illegio, Casa delle Esposizioni, 21 maggio – 8 ottobre 2017; Canova. Eterna bellezza, a cura di G. Pavanello, Roma, Palazzo Braschi, 9 ottobre 2019 - 15 marzo 2020; R. Echols, F. Ilchman, G. Matino, A. Bellieni, a cura di, VENETIA 1600 421-2021 Nascite e rinascite / Births and Rebirths, Venezia, Palazzo Ducale, 4 settembre 2021 – 25 marzo 2022 (richiesto ma non prestato); F. Malachin, G. Pavanello, N. Stringa, a cura di, Canova gloria trevigiana: dalla bellezza classica all’annuncio romantico, Treviso, Museo Bailo, 14 maggio - 25 settembre 2022; M. Guderzo, B. Guidi, G. Pavanello, a cura di, Io, Canova genio europeo, Bassano, Musei Civici, 15 ottobre - 26 febbraio 2023
Stato di conservazione:
Condizione supporto: 90% (danni da urto alla mano con mancanze alle dita)
Condizione superficie: 90% (graffi; depositi; danni da urto e frizione soprattutto ai capelli e alla base)
Numero componenti lotto: 2
Il gesso di Amore e Psiche stanti, acquistato nel 2004 da Veneto Banca, con il basamento originale, presso Villa Canal nei pressi di Crespano del Grappa, ci catapulta d’un colpo nello studio di Canova a Roma, prima del 1829, quando – attestano i documenti - venne trasportato a Bassano (E. Bassi, Antonio Canova. I disegni del Museo Civico di Bassano, Vicenza, 1959, n. 89; cfr. Mariuz 2014, Il, pp. 559, 570, 575, 580). Almeno due grandi ambienti si aprono di fronte a noi: uno di rappresentanza, in cui sono disposti marmi e gessi per captare l’attenzione dei ricchi visitatori, e potenzialmente nuove commissioni, proprio come in uno show room; l’altro, riservato a Canova e alle maestranze, con i materiali di lavorazione, le opere in fieri e le opere che attendevano di essere consegnate (P. Mariuz, Lo studio di Canova a Roma, in Pavanello 2019, pp. 44-55; L. Baffioni Venturi, Giulio Perticari e Costanza Monti. Una storia di amore tra Marche e Romagna all’inizio dell’Ottocento. Lettere e documenti, s.l., 2021, p. 52, doc. 62, p. 294).
Canova ha certamente molto caro il tema di Amore e Psiche, che realizza in quattro marmi tra il 1787 e 1803, due con le figure abbracciate e due con le figure in piedi una a fianco all’altra, ossia stanti, come nel nostro gesso. Al primo gruppo «di carattere assai caldo e appassionato» si contrappone, a partire dal 1797, forse quale riflessione su un modello statuario antico di Amore e Psiche conservato al Campidoglio e agli Uffizi, il secondo gruppo, in cui l’amore assume valore spirituale e platonico (definizione di Canova: cfr. A. Muñoz, Antonio Canova. Le opere, Roma, 1957, p. 58). Il committente è, in entrambi i casi, prestigioso – il collezionista inglese John Campbell – e le opere, in rapidi cambi di mano, conquistano le sale più prestigiose d’Europa: Gioacchino Murat ne acquista una per tipo destinandole al castello di Villiers-la-Garenne – si tratta delle sculture oggi al Louvre –; l’Imperatrice Josephine de Beauharnais, moglie di Napoleone, compra le altre due per cederle nel 1815 allo Zar Alessandro I di Russia, e queste sono oggi conservate all’Hermitage.
In questo successo i gessi hanno un ruolo molto particolare, ed i due collegati alla raffigurazione di Amore e Psiche stanti sono entrambi conservati in Italia: il primo alla Gipsoteca Canoviana di Possagno ed il secondo oggi in asta.
Nella prima sala della nostra visita virtuale allo studio di Canova con ogni probabilità vedremo proprio il gesso di Possagno. Mentre nella seconda, la parte più interna e riservata, incontreremo il gesso di Veneto Banca. Sono le differenze materiali tra le due opere a guidarci e ad illuminarci sulla loro importanza e ruolo.
Infatti, il gesso, nella bottega di Canova, aveva più funzioni. La prima, e più importante, era di carattere inventivo: l’artista, cioè, dopo aver fermato le idee in disegni e in eventuali modelli di cera o creta (Pavanello 2019, pp. 296-297 e 300, schede 49 e 55), le faceva sviluppare dai propri aiutanti – detti appunto gessini – in forme di gesso, che si potessero abbandonare se insoddisfacenti o ancora agilmente modificare nella dimensione definitiva (Mariuz 2019, p. 46; Pavanello 2019, p. 301, scheda 56; H. Honour, a cura di, I gessi di Canova per l’ambasciatore Zulian: una testimonianza di amicizia e di mecenatismo illuminato, Milano, 2007, p. 17; Pavanello 2019, p. 43, n. 119; S. Rinaldi, Canova and the French Practice of Using Pointing Machines, s.l., 2012, p. 121), e, tramite la apposizione di alcuni chiodini nei punti strategici per prendere le misure (Rinaldi 2012; Mariuz 2019, p. 54, n. 24), potessero fornire tutte le informazioni per sbozzare i marmi, su cui, infine, Canova avrebbe dato la cosiddetta “ultima mano”, fino alla levigatura e alle patine, rendendo così l’opera autografa (Pavanello 1995, pp. 122-124, 133 ; Mariuz 2019, p. 46; Pavanello 2019, p. 339, scheda 140). Il gesso oggi a Possagno e il gesso di Veneto Banca non appartengono a questa fase “aurorale” dell’invenzione scultorea. Canova però, una volta creato un marmo, era solito ricavarne un gesso per poterlo riprodurre, con eventuali varianti, a richiesta di un nuovo committente: questo tipo di gesso – che il maestro chiamava «da forma buona» alludendo appunto alla derivazione dal marmo finito (Honour 2007, p. 17) - veniva realizzato nuovamente dai gessini tramite la procedura del calco, e costituiva una sorta di progetto in 3D a disposizione per le nuove lavorazioni. Ed infatti sulla superficie del gesso di Possagno si trovano nuovamente i chiodini di posizione, che portano a collocarlo, con ogni verisimiglianza, tra la prima (1796-1797) e la seconda (1800-1803) redazione del marmo raffigurante Amore e Psiche Stanti. Esso ha quindi anche una datazione piuttosto precisa, tra il 1797 ed il 1803 (G. Cunial, La Gipsoteca Canoviana di Possagno, Asolo, 2003, p. 124).
Se ci avviciniamo di più al gesso di Veneto Banca, nella stanza di lavoro dello studio canoviano, riconosceremo tuttavia un elemento di grande interesse: con tutta probabilità esso è stato realizzato con le stesse forme cave, ossia con gli stessi stampi, impiegati per quello di Possagno. Se ne possono facilmente seguire i punti di giunzione, spesso collimanti, sugli arti e sul ventre dei due calchi. Tuttavia sulla superfice del nostro gesso non ci sono chiodini di posizione – forse, qualche tentativo di posizionamento, tuttavia presto abbandonato -, ed anzi è facile osservare che alcuni dettagli, come per esempio i capelli, sono definiti con minore precisione; e la base è di forma semplificata, con rinuncia all’elemento naturalistico della roccia che caratterizza i marmi e il gesso di Possagno. Questo punto è molto importante perché per un verso esclude che l’artista abbia utilizzato il gesso di Veneto Banca per portare avanti il processo di creazione (ideazione, modifica e realizzazione) dei marmi – e difatti nessun ulteriore marmo di Amore e Psiche stanti viene prodotto da Canova (Isabella Teotochi Albrizzi, Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova, tomi I- IV, a cura di, M. Pastore Stocchi e G. Venturi, Bassano del Grappa, 2003, volume II, tomo IV, pp. 117, 120 e 121), che tra l’altro, dopo il 1803, vira dallo stile ‘delicato’ e ‘gentile’ verso immagini di ‘carattere forte’ e ‘virile’ –, ma per l’altro ci mostra la possibile destinazione nel mercato dei collezionisti – la grande maggioranza (cfr. P. Fardella, Antonio Canova a Napoli tra collezionismo e mercato, Napoli, 2002) – che non poteva permettersi di commissionare un marmo al maestro. Oppure ci indirizza verso la produzione di doni, che l’artista soleva fare nella propria attenta strategia di relazione con i potenti ovvero (G. Pavanello, Collezioni di gessi canoviani in età neoclassica: Venezia (parte prima), in Arte in Friuli. Arte a Trieste, n. 15, 1995, pp. 225-270, citato da G. Pavanello, Da Trieste. Storia dell’arte. 1989-2017, Verona, 2021, pp. 122, 127), se destinataria era per esempio una accademia, per accreditare sempre più il proprio stile presso il pubblico (Pavanello 2019, p. 277, scheda 1; Fardella 2002, p. 106; F. Valli, «Con nostro vantaggio e con vosto onore». Canova e l’Accademia di Brera, in F. Mazzocca e G. Venturi, a cura di, Antonio Canova. La cultura figurativa e letteraria dei grandi centri italiani. 2. Milano, Firenze, Napoli, Bassano del Grappa, 2006, pp. 23 e 27, O. Rossi Pinelli, Restauri, rifacimenti, copie: i musei e il gusto per il “frammento”, in Pastore Stocchi 2004).
In entrambi i casi, ai gessini di Canova – ben noti sono Vincenzo Malpieri e Giuseppe Torrenti , cui in bibliografia è ricondotto il gesso in asta (Canova 2014, Il, pp. 405, 408, 413; Pavanello 2019) in alternativa ad altri aiutanti (Canova Genio Europeo 2022) – era affidato il compito di realizzare il gesso dagli stampi, per così dire prendendo in mano la produzione materiale di una invenzione che restava, invece, esclusivamente canoviana e costituiva il centro degli interessi artistici del maestro (Lettera al Duca di Miranda del 13 novembre 1801, in Fardella 2002, pp. 85-87; Pavanello 2019, p. 39, n. 21). Un po’ come, più recentemente, è avvenuto per le serigrafie su tela di Andy Warhol. Ed in questo caso proprio la condizione degli stampi – che si riflette (letteralmente) nella resa dei dettagli del calco (G. Pavanello, Collezioni di gessi canoviani in età neoclassica: Padova, in Arte in Friuli. Arte a Trieste, nn. 12-13, 1993, p. 105; Honour 2007, p. 14) – ci consente di spostare la produzione del gesso di Veneto Banca più avanti nei primi due decenni del XIX secolo, il che forse spiega anche perché esso sia rimasto presso lo studio, dove la funzione di conservazione del progetto era già svolta dal gesso di Possagno, solo parzialmente gemello in quanto incardinato all’inizio del secolo.
Il gesso in asta è quindi straordinario testimone della vicenda artistica canoviana, proprio secondo il significato che il maestro gli aveva attribuito: di rappresentazione del proprio genio creativo.
La straordinaria eleganza della rappresentazione (l’amore ancora innocente nel fiorire della bellezza carnale, amore che ispira, come spiega Platone, agli esseri umani il desiderio della conoscenza) e la difficoltà tecnica costituita dalla farfalla tenuta fra le mani, «capolavoro di abilità esecutiva paragonabile ai rami di alloro nel gruppo di "Apollo e Dafne" di Bernini, ammiratissimo da Canova» (Pavanello 2019), corrispondono in quest’opera ad uno stato conservativo commendevole (nonostante la fragilità della materia) e ad una rarità collezionistica davvero estrema: si tratta dell’unico gesso noto al mondo di questo soggetto, certamente proveniente dallo studio di Canova, ancora in mani private e secondo soltanto all’esemplare di proprietà della Gipsoteca Canoviana di Possagno.
Se si considera che l’opera è stata di fatto scoperta solo nel 2004, dopo un oblio ultrasecolare sia rispetto agli studi sia rispetto al collezionismo ed al mercato, è facile osservare che essa è stata richiesta in prestito pressoché da tutte le più prestigiose esposizioni su Canova succedutesi nel periodo e persino per i festeggiamenti dei mille anni della città di Venezia, segno dell’eccezionale fascino che questo capolavoro – tutelato dallo Stato come opera d’arte di straordinaria importanza - esercita sugli specialisti e sul pubblico.
L'opera è stata vincolata il 28 luglio 2022 con provvedimento 60753623 del Segretariato Regionale per il Veneto del Ministero della Cultura -
Lot 2 Johan Richter
Barca in fiamme sul Canal Grande
olio su tela
132,8x110 cm
Provenienza:
Provenienza: collezione privata, Venezia
Bibliografia :
Bibliografia: E. Martini , La Pittura del Settecento Veneto, Udine, 1982, p. 490, fig. 490
Stato di conservazione:
Condizione supporto: 80% (reintelo)
Condizione superficie: 75% (suture e ridipinture)
Numero componenti lotto: 1
Il dipinto è stato reso noto da Egidio Martini nel celebre compendio del 1982 per l’Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia con l’anodino titolo Il molo visto dal bacino San Marco (cat. 490) in una ristretta selezione di cinque opere (486-490) del pittore tardo barocco svedese, naturalizzato veneziano dal 1717, Johan Richter, in immediata successione alla produzione del suo maestro Luca Carlevarijs (1663-1730). E difatti questa tela «unitamente ad altre vedute (…) dimostra quanto sia difficile talvolta (…) distinguere in alcuni dipinti la mano del Richter da quella del Carlevarijs» (Martini 1982, p. 490).
Nel dipinto Richter usa uno dei suoi espedienti favoriti per dare vivacità alla scena, l’introduzione di una barca in fiamme, da cui la nostra titolazione. -
Lot 3 Édouard Manet
Veduta di Saragozza, da Velázquez – del Mazo, 1865
Olio su tela
58,5x155,5 cm
Certificati:
Certificati: scheda di Maria Teresa Benedetti (gennaio 2009; come Manet)
Stato di conservazione:
Condizione supporto: 80% (reintelo)
Condizione superficie: 90%
Numero componenti lotto: 1
In una lettera del 3 settembre 1865 da Madrid, Édouard Manet descrive all’amico pittore Henry Fantin-Latour la propria emozione di fronte ai dipinti di Velázquez conservati al Prado e in particolare per «un quadro enorme, pieno di piccole figure, come quelle che si trovano nel quadro del Louvre intitolato I cavalieri, ma queste figure di donne e di uomini sono superiori, forse, e soprattutto esenti da restauro. Lo sfondo, il paesaggio è di un allievo di Velázquez». Il dipinto che tanto sollecita il padre dell’impressionismo è la Veduta di Saragozza firmata e datata “J.B. del Mazo 1647”, entrata nelle collezioni del Prado dal 1819 e comunemente reputata opera di collaborazione con Velázquez, come intuito da Manet.
L’artista francese tornò molte volte sulle opere di Velázquez e della sua cerchia, copiandole e riutilizzandone le invenzioni spaziali e le soluzioni figurative, le posture dei personaggi e le loro posizioni (J. Wilson-Bareau, Manet and Spain, in Manet / Velázquez. The French Taste for Spanish Painting, a cura di G. Tinterow e G. Lacambre, catalogo della mostra al Metropolitan Museum of Art, New York, 2003, pp. 203-257). Ne fece tesoro, per esempio, con riguardo all’altro dipinto nella nostra citazione, I tredici cavalieri della cerchia del maestro di Siviglia (Louvre, Parigi, 47x78 cm), che egli ripropose con esattezza su una tela di identiche dimensioni oggi al Chrysler Museum of Art, Norfolk, così come prese spunto dal Ritratto di Filippo IV come cacciatore e dal Ritratto dell’infanta Margarita d’Austria per due incisioni e da Las Meninas per una composizione forse smembrata nella cosiddetta Scena di atelier spagnolo (46x38 cm, collezione privata, Giappone). Opere tutte citate nella missiva del 3 settembre, che assume così anche il ruolo di guida alle opere che il maestro aveva copiato o intendeva copiare.
Non era tuttavia nota, fino ad oggi, alcuna opera di Manet direttamente riconducibile alla Veduta di Saragozza di Velázquez e Del Mazo, pur così estesamente citata dal maestro. Si deve a Maria Teresa Benedetti la scoperta della tela in asta, in una prestigiosa collezione privata, dove figurava come lavoro anonimo, pur con un legame di memoria con Manet.
Di grandi dimensioni – 58x155,5 cm – l’opera riprende pressoché in scala 2:1 la tela del Prado (181x331 cm), ma solo per la parte inferiore, in perfetta consonanza con la citazione che ne fa Manet – in accordo con la critica d’arte del tempo – identificando proprio nei gruppi di personaggi la mano del Maestro. Il paesaggio è per un verso obliterato, per l’altro trasformato, con la sostituzione del ponte diroccato con grandi sassi descritti con pennellate vibranti e corrosive. Di particolare riuscita due dei tre personaggi in vesti nere, le fisionomie rapidamente delineate, di cui il primo ritrae forse Velázquez, come fa supporre il confronto con la prima figura del gruppo di tre a sinistra nei Tredici cavalieri, appunto tradizionalmente identificata con il maestro di Siviglia. La impostazione della Veduta di Saragozza – il susseguirsi di primo piano, specchio d’acqua/strada e città sullo sfondo così come la distribuzione dei personaggi in incontri apparentemente casuali – è ripresa da Manet anche in un altro celebre dipinto, la Esposizione universale (1867).
Questo tessuto di ricorrenze iconografiche e formali unite a soluzioni innovative è rafforzato, nella attribuzione alla mano del maestro francese, da un esame ravvicinato del modus pingendi. La rapidità dell’esecuzione, le pennellate sintetiche, la sommarietà con cui sono ripresi alcuni elementi mostra che questa ‘copia non copia’ è stata realizzata da uno sguardo pienamente autonomo che, mentre osserva e studia, riformula l’immagine secondo i propri fini, senza soggezione verso il modello.
L’effetto di insieme è quello tipico di Manet: «Dapprima l’occhio vede soltanto colori applicati con larghezza, presto gli oggetti si disegnano e si mettono al loro posto; in pochi secondi l’insieme appare vigoroso e solido, e si prova una vera emozione del contemplare questa pittura chiara e grave, che rende la natura con brutalità dolce» (in E. Zola, Une Nouvelle manière en peinture. Édouard Manet, Revue di XIX siècle, 1 gennaio 1867). Ciò che più colpisce, tuttavia, è la corrispondenza con le opere certe del pittore impressionista anche nelle parti più autonome del dipinto, come per esempio il comporsi dei marroni in primissimo piano nella nostra tela e nei Tredici cavalieri (1859-1860 circa), ovvero l’uso dell’azzurro sporcato di pennellate grigie e bianche e di segni grafici, qui ripreso nello specchio d’acqua - che richiama puntualmente lo sfondo, la porzione in alto a destra soprattutto, del ritratto di Faure nel ruolo di Amleto (Museum Folkwang, Essen, 1876-1877, 194x131,5 cm), a sua volta citazione di un’altra opera velázqueziana, Il buffone Pablo da Valladolid, anch’essa conservata al Prado (209 x 123 cm., ripresa da Manet anche in una seconda tela, l’Attore tragico, della National Gallery di Washington, 187x108 cm).
La nuova attribuzione viene così ad integrare il catalogo di Manet, con datazione intorno al 1865 – anno del breve e ricco viaggio di Manet in Spagna – incontrando un supporto documentale, concettuale e stilistico particolarmente preciso.
La scheda è largamente debitrice dello studio predisposto sull’opera nel 2009 dalla Professoressa Maria Teresa Benedetti, confermato dalla studiosa alla casa d’aste nell’imminenza della vendita.